Oggi
 li guardi e dici: maddài? Uno si candida da destra ad anti Renzi e gira
 per l’Italia (ex ministro dello Sviluppo ed ex dominus di Banca Intesa 
Corrado Passera); l’altra si duole come fosse ieri per le critiche sugli
 esodati, si difende dichiarando “amarezza” e, quando non insegna, gira 
per l’Europa (ex ministro del Welfare e prof. Elsa Fornero, fresca di 
lunga intervista al Garantista).
    
    
  
 
    
Per
 uno che s’addentra quatto quatto in organismi parlamentari e mondanità 
romane (ex sottosegretario e caterpillar da talk-show Gianfranco 
Polillo, quello che vedeva bene il Cav. al Quirinale e rispondeva alle 
critiche poveracciste al grido di: sì, guadagno tanto, ma faccio meno 
ferie di un metalmeccanico non diplomato), ce n’è un altro che 
s’affaccia a intermittenza sul Pd da un dipartimento del Tesoro (ex 
ministro Fabrizio Barca, reduce dal tentativo – fallito – di candidarsi 
ufficiosamente e senza troppo dirlo ad anti Renzi. Ma non come Passera, 
ché Barca vorrebbe rifondare sul lato sinistro del Pd).
    
    
Un
 altro ancora, come l’ex sottosegretario ed ex viceministro Antonio 
Catricalà, è rimasto incredibilmente, dopo anni e anni, senza incarichi 
di prestigio. E se quello che pare rimpiangere di più la luce perduta è 
l’insolitamente loquace (nelle interviste ad Alan Friedman) Mario Monti,
 ex premier e demiurgo della calante Scelta civica, c’è anche chi ha 
perso la benevolenza del pubblico senza lamenti, come l’ex ministro 
dell’Interno e prefetto Anna Maria Cancellieri, un anno e mezzo fa 
addirittura candidata alla presidenza della Repubblica (da Scelta 
civica), amata come una Miss Marple cresciuta nella Tripoli bel suol 
d’amore, ma poi mediaticamente macchiata (con indagine della procura di 
Roma) dal pasticciaccio delle telefonate durante la detenzione di Giulia
 Ligresti.
    
  
 
    
    
Fino
 a pochi mesi fa nei Palazzi ci passava ancora, Cancellieri, come 
ministro bis (della Giustizia) nel governo di Enrico Letta, e rispondeva
 a mozioni di sfiducia individuale per il suddetto affare Ligresti – io 
mi sono interessata della sorte di una detenuta con problemi di salute, 
diceva il ministro che spesso criticava il sovraffollamento delle 
carceri (ma oggi il suo nome viene dai maligni irresistibilmente 
associato pure al prematuro esaurimento scorte dei costosissimi 
braccialetti elettronici).
    
    
Ed è difficile, ora, 
nonostante l’avvicinamento agli ambienti di Italia Unica, la Cosa 
politica lanciata da Corrado Passera, trovare qualcuno che ancora parli 
con il trasporto del 2011 della simpatia irresistibile del prefetto 
Cancellieri, nonna in carriera che, con la borsetta sbieca, 
l’impermeabile e la collana sempre al collo, aveva conquistato la 
Bologna commissariata. E’ la vita, ed è forse un frequente epilogo per 
un ministro tecnico, la perdita dell’intoccabilità mediatica. Ma non 
sempre lo si accetta di buon grado (Mario Monti ed Elsa Fornero mal 
sopportano le numerose critiche ex post).
    
    
   
    
Dovevano
 tutti entrare nella storia come ribaltatori di destini avversi e conti 
orrorifici, i ministri tecnici, ma vai a capire che cosa la storia di 
loro ricorderà. I meno irrequieti, comunque, sono tornati sereni ai 
propri proficui affari, come l’avvocato penalista, professoressa ed ex 
ministro della Giustizia Paola Severino, avvistata due mesi fa in zona 
Palazzo Chigi in qualità di legale dell’Ilva commissariata.
    
    
Qualcuno,
 come l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini, si ritrova dimenticato 
agli arresti domiciliari per presunto peculato, e c’è anche chi rientra 
felpato nel tran-tran missionario (ma ben ancorato alla politica 
romana), come l’ex ministro della Cooperazione nonché fondatore della 
Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi o agli amati studi, come l’ex 
rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi (ministro della Cultura), il più
 taciturno di tutti. Molti parlano, twittano, scrivono sui blog, 
contraddicendo la passata (apparente) riservatezza.
    
    
Sono
 proprio loro, i cosiddetti tecnici, gli ex ministri e sottosegretari di
 Monti – professori, personalità taumaturgiche, celebrità rarefatte, 
eccellenze nascoste nei think tank e nelle facoltà, nei consigli delle 
banche, nelle associazioni di volontariato, nei consessi internazionali –
 sono loro quelli che adesso (con risultati non sempre esaltanti) 
sgomitano, punzecchiano, assaporano vendette, commentano e rintuzzano, 
si concedono e si ritraggono, sognano rivincite, rotolano sempre più 
lontano dal trono, riprendono silenziosamente posti di potere, 
spariscono dai radar o lottano sui social network per una parziale 
riconquista di ribalta, animati da umanissime passioni e ambizioni, 
irascibili, cordialissimi, fragili o vanitosi quanto prima parevano 
extraterrestri, algidi e controllati.
    
   
    
    
Sono
 loro che adesso, dopo il limbo del governo Letta (che ne aveva 
riciclato un buon numero), dichiarano ai giornali, sbuffano, si 
arrabbiano, dissimulano scrivendo post o aspettano, come il cinese sulla
 riva del fiume. Un totale ribaltamento psicologico da quando erano 
ombrosi esperti conosciuti soltanto dagli addetti ai lavori, 
professionisti noti soltanto ad altri professionisti (e al generone 
romano e all’establishment milanese), “servitori dello stato” in teoria 
non sfiorati dal miraggio della fama e dalla tentazione pur 
comprensibile, ma allora scacciata dalla coscienza, dell’avventura 
politica.
    
    
I ministri tecnici di Monti erano quelli
 che, a fine 2011, incutevano soggezione più che curiosità, con tutte 
quelle giacche scure e quei sorrisi arcigni e quelle rughe non 
mascherate (profondità di pensiero, si diceva). Erano arrivati 
nell’autunno in cui tutti nominavano lo spread-macumba e guardavano le 
monetine lanciate al Cav. senza vederci il presagio di un’ondata 
anticasta in Parlamento.
    
    
   
    
Erano
 saliti al Colle per il giuramento prima del botto elettorale di Beppe 
Grillo, prima delle primarie del centrosinistra (quelle del 2012), prima
 che Matteo Renzi, allora minaccia promettente, si facesse per il 
vecchio Pd minaccia imminente. Avevano fatto il loro ingresso dietro al 
primus inter pares dei loden bocconiani e non bocconiani, dietro a quel 
Mario Monti nuovo senatore a vita, professore ed ex commissario europeo.
 Parevano fatti di altra pasta, in quelle prime foto da Palazzo Chigi, 
lontani nella loro allure da “salvatori della patria” in pectore.
    
    
E
 invece. Invece, e non da oggi, te li ritrovi terrigni e terrestri, per 
nulla quieti, per nulla paghi, autorevoli così così, curiosi di capire 
dove va il vento anzichenò – e a malapena desiderosi di trattenere i 
segreti del loro ormai lontano anno e mezzo di governo (pare che Angela 
Merkel avesse consigliato al senatore a vita e premier Mario Monti la 
famosa “salita” in politica con la creazione di Scelta civica, ha detto 
Monti stesso ad Alan Friedman: sarebbe bello che continuassi tu a fare 
quello che c’è da fare, così più o meno doveva suonare la frase della 
cancelliera, e vai a capire se Merkel aveva previsto il successivo 
accartocciarsi del futuro progetto politico firmato dall’allora 
professore bocconiano – presto ritiratosi stizzito dalle polemiche 
interne al suo partito prematuramente pericolante).
    
  
 
    
    
Spuntano
 qui e là, gli ex ministri tecnici: chi in un salotto, chi in una 
piazza, chi in un consiglio semi-governativo (magari dietro i vetri, in 
un ruolo specialistico ma non per questo disinteressato al mondo). E se 
per un attimo, nel 2013, sono sembrati in sonno, inghiottiti dal nulla, 
tempo due mesi erano già tornati sulla scena, intenti a scrivere memorie
 e a smarcarsi da quel tutt’uno montiano che li aveva portati fino a lì –
 smarcarsi velatamente, come ha fatto un anno fa l’ex ministro della 
Coesione territoriale Fabrizio Barca (ero d’accordo col mio governo per i
 primi cinque mesi, diceva, dissociandosi con gentile posticipo pure 
dalle riforme di Elsa Fornero).
    
    
  
 
    
Oppure
 smarcarsi apertamente, come fa in continuazione l’ex ministro degli 
Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, dimessosi a suo tempo per la 
pasticciata gestione della vicenda Marò, ma oggi molto desideroso di 
dire che la colpa non fu sua, bensì di Mario Monti e Corrado Passera 
(“vergognoso errore di Monti su istigazione di Passera”, ha detto Terzi 
durante una conferenza stampa a Montecitorio, accusando l’ex premier e 
l’ex ministro dello Sviluppo di aver ceduto a “pressioni economiche” di 
qualche grande azienda).
    
    
Ora a Terzi sembra di 
poterlo dire, evidentemente, vista anche l’esigenza di lanciarsi come 
esponente politico di Fratelli d’Italia: ex ministro dal nome nobile, 
antico e bergamasco, conte di Restenau e cavaliere del Sacro romano 
impero, Terzi non è più neppure impegnato come ambasciatore (sua 
precedente carriera), e si è visto distruggere anche l’immagine cui 
forse aspirava, quella di un Dominique de Villepin lombardo, raffinato 
uomo di mondo e di governo. Invece deve digerire l’ammaccatura, il 
diplomatico-politico passato dall’accoglienza a Giorgio Napolitano in 
quel di New York, durante un incontro con Barack Obama, al mezzo oblio –
 con generale riprovazione – seguito al caso Marò.
    
    
   
    
Quasi
 quasi, al suo posto, ci sarebbe da sognare tutt’altro, per esempio il 
potere conservato silenziosamente dall’ex collega di governo Vittorio 
Grilli, ex viceministro e poi ministro dell’Economia di Monti, uomo 
talmente anglosassone nell’aspetto da non sembrare neppure milanese, 
forgiato com’è nell’animo dai molti anni trascorsi oltreoceano a 
studiare in quel di Rochester, nelle lande ventose che portano alle 
cascate del Niagara.
    
    
Grilli, ma che fine ha 
fatto?, si chiedevano gli osservatori prima di apprendere che l’ex 
ministro, zitto zitto, nel maggio scorso è diventato presidente del 
Corporate & Investment Bank per Europa, medio oriente e Africa di Jp
 Morgan, con base nella Londra sempre amata e mai dimenticata durante il
 periodo romano e ministeriale (dal 1994 in poi), quand’era dietro le 
quinte ma sempre a contatto con gli affari che contano (al Tesoro, in 
epoca di privatizzazioni sotto Ciampi premier).
    
    
Grandi
 case, belle macchine e nuova vita con nuova compagna incorniciano i 
traslochi dell’ex ministro Grilli, gemello diverso di Corrado Passera: 
stesso ambiente, opposta indole (Grilli mai si metterebbe a fare un tour
 per “ascoltare le istanze dell’Italia vera, per conoscere da vicino i 
problemi, raccogliere soluzioni e avviare il processo costitutivo” di un
 nuovo movimento, obiettivo invece dell’ex ministro montiano dello 
Sviluppo).
    
    
   
    
Si
 inventano, si reinventano, si deprimono, cadono ma non demordono, gli 
ex tecnici che hanno perso per strada la voglia di tecnocrazia, e uno 
dopo l’altro si mettono in viaggio per presentare il fantomatico partito
 dei sogni: l’ha fatto Barca, quando ancora al governo c’era Enrico 
Letta e non si pensava che Matteo Renzi sarebbe arrivato così presto, 
l’ha fatto in qualità di neo iscritto al Pd e figlio di uno storico uomo
 del Pci, esperto di Economia con studi nell’Inghilterra rigorosa nonché
 da uomo di ministero (“mobilitazione cognitiva!”, “sperimentalismo 
democratico!”, “catoblepismo!”, diceva il Barca oratore a platee 
borghesi raccolte in chiostri, piazzette, sezioni e cortili, desiderose 
di sperare in quell’uomo così organico al loro ambiente, a differenza 
del giovane newcomer di Firenze).
    
    
Pure da Barca, 
tuttavia, oltreché da Matteo Renzi, vorrebbe oggi distinguersi l’altro 
lanciatore di “progetti” post montiani Corrado Passera, inventore (“con 
gran partecipazione emotiva della moglie Giovanna Salza”, dicono nei 
salotti romani) della cosiddetta “start-up” del nuovo centrodestra 
Italia Unica, educatamente alternativa all’assetto attuale di governo, 
al grido di “il governo non sta dando abbastanza importanza” al disagio 
sociale, ma non si sa bene quando davvero operativa.
    
    
   
    
“Non
 poniamo limiti a dove possiamo arrivare”, dice a se stesso e agli 
astanti Passera, facendo notare che “a suo avviso”, Renzi non fa “quello
 che serve all’Italia”, e che invece lui sì, saprebbe come fare e dove 
prendere e come investire i “quattrocento miliardi” che potrebbero far 
“ripartire” il paese inceppato – ma per carità, aggiunge per non 
mostrarsi screanzato, se Renzi è la gamba numero uno noi facciamo la 
numero due, occupiamo lo spazio degli avversari che non ha più, per 
smettere di farlo giocare “a porta vuota”.
    
    
Ma 
perché non dovrebbero buttarsi nell’arena, i tecnici che hanno chiuso 
nell’armadio già da tempo il loden, se il primo a farlo è stato proprio 
lui, il Monti che alla vigilia del tormentato Natale 2012 aveva tenuto 
tutti sulle spine: mi candido, non mi candido, forse mi candido, forse 
“salgo” in politica, forse scendo e faccio il nonno (infine “salì”, con 
risultati via via sempre meno soddisfacenti: dal non proprio trionfale 
8, 3 per cento di Scelta civica alle politiche 2013 si è arrivati allo 
zero virgola delle europee, un mese fa).
    
    
Ed è come
 se gli anni interminabili di onorate carriere e retribuzioni di tutto 
rispetto (quelle ora criticate dai grillini) fossero nulla in confronto 
al quarto d’ora di celebrità (vanità?): io faccio, io dico, io scrivo, 
questo il verbo tecnico nella sua metamorfosi mondana. E anche quando 
rientrano nelle vite piacevoli e operose abbandonate per lo scranno 
ministeriale poi non resistono, i tecnici: tornano sul luogo del delitto
 autolodandosi (Passera si dice molto “soddisfatto” dei suoi “dodici 
mesi da ministro” dello Sviluppo economico, tra la fine del 2011 e 
l’inizio del 2013).
Erano
 emersi dalla penombra delle università, gli uomini e le donne di Monti,
 dai velluti degli studi professionali e dei convegni, senza vezzi e 
toni sopra le righe, con sguardo dolente, quello conservato anche a 
tempo scaduto dalla professoressa Elsa Fornero, il ministro che piangeva
 per la durezza della sua propria riforma (“il tormento, si intravede il
 tormento”, dicevano i generosi; “lacrime di coccodrillo”, dicevano gli 
avversari). Non esitava a definire i giovani troppo “choosy”, 
schizzinosi in tema di lavoro, Fornero, e c’era chi la paragonava a 
Margaret Thatcher, la lady di ferro che non abbandonava mai gli 
orecchini di perle, amuleto e antidoto estetico alla severità.
    
    
Nei
 giorni della lotta con la Cgil di Susanna Camusso, a Fornero molti 
inneggiavano – fa fuori la concertazione, dicevano gli estimatori – ma 
via via l’ammirazione si è trasformata in sopportazione e disinteresse, 
infine in critica aperta. Fornero è tornata ai suoi ambienti di alta 
torinesità e alta milanesità, tra insegnamento e cene con intellettuali e
 alti vertici di Intesa Sanpaolo, ma appena qualcuno rievoca la vicenda 
“esodati” lei salta su, come ferita dall’oltraggio a valle, e dice che 
si fa presto “a distruggere reputazioni”.
    
  
 
    
    
A
 differenza di Terzi e Passera, telematici come i rottamatori di Renzi 
oggi al governo, Fornero non è una pasdaran dei social network, eppure 
condivide con i colleghi la voglia di raccontare “com’è andata davvero”,
 tipica del tecnico liberato dalla necessità di essere muto come prima 
della ribalta fugace, delle grane e dei sogni di gloria.
    
    
E
 visti i tanti ex montiani che non abbandonano il campo, e girano e 
parlano e propongono e ricordano, qualcuno comincia a invocare 
l’intervento del professor Dino Piero Giarda, il simpatico e 
fisiognomicamente bonario ex ministro per i Rapporti col Parlamento e 
l’attuazione del programma, che in conferenza stampa riprendeva i 
compagni di governo Grilli e Passera, inchiodandoli con un “fact 
checking” privo di acrimonia: “Non avendo competenze specifiche nella 
materia”, diceva, “il mio compito qui è stato quello di correggere un 
po’ degli errori che a volte vengono fatti dai miei colleghi, ministri e
 amici”. E Monti, un Monti pre-politico, gli diceva: “Correggi anche me 
se serve”.
fonte: Marianna Rizzini per “Il Foglio”