venerdì 28 luglio 2023

"Ora la Notte emette il fischio / venga Torelli senza rischio"

Cronista, così amava definirsi Giorgio Torelli, 95 primavere e una vita dedicata a raccontare le storie degli uomini, dai grandi protagonisti alle persone più semplici. Giorgio Torelli è morto la sera del Giovedì Santo. Il 6 aprile era nella sua casa di Milano circondato dalla famiglia: la moglie Carlina, medico, conosciuta sui banchi del liceo classico e unica donna della sua vita, i figli Stefano e Michele Arcangelo (la figlia Alessandra è morta nel 2020).

Giorgio nasce a Parma il 26 febbraio 1928. Studente di medicina lascia l’università nel 1954 per abbracciare il giornalismo, lo muove la grande passione per la cronaca e insieme il desiderio di metter su famiglia con l’amata Carlina. Tre mesi in redazione alla “Gazzetta di Parma” e poi un telegramma in rima lo invita nella grande città: «Ora la Notte emette il fischio / venga Torelli senza rischio / firmerà contratto a Milano: / molto lavoro e poco grano». Le parole di Nino Nutrizio, direttore del quotidiano della sera, vengono accolte e Milano diventa la sua seconda patria. Tanti i quotidiani e i settimanali per cui lavora, dal “Candido” di Guareschi a “Epoca”. Fonda nel 1974 con Indro Montanelli “il Giornale nuovo”, di cui è inviato di punta. Collabora a lungo con “Avvenire” e “Luoghi dell’Infinito”. Firma una trentina di libri e un romanzo, La Parma voladora.

La sua ricerca ha per orizzonte le storie belle, le persone buone, gli eventi che danno speranza. Insomma tutto quello che tiene unito il mondo e impedisce la dissoluzione e la vittoria del caos. Era uomo di grande fede e di una cultura straordinaria. Cultura di storia e di storie, in gran parte vissute, e di quel mondo che aveva conosciuto nel suo viaggiare da inviato. Era un campione della cultura popolare: la sua pagina “Eravamo una piccola città”, appuntamento domenicale con la “Gazzetta di Parma”, dal 2012 fino a settimana scorsa, raccontava il mondo parmense e la sua gente. E in dialetto ha voluto tradurre il Vangelo di Marco: Al Vangel äd Marco in pramzan dal sas, il parmigiano del “sasso”, la città storica.

Con Giorgio avevamo lunghe telefonate. Mi chiamava ed era subito festa: il suo parlare parmigiano era sempre gioioso, brillante e soprattutto vivo. A volte mi vedevo costretto a interrompere il suo profluvio per chiedergli una traduzione. Ma non c’era bisogno di traduzione per comprendere come la vita buona e felice scorresse nel suo raccontare infinito. Giorgio era un uomo dalle forti radici e dagli orizzonti che non conoscono confini. Dalle forti radici perché, anche se viveva a Milano fin dalla giovinezza, era sempre legato a Parma e alla sua terra, un legame di amore, una linfa che alimentava tutta la sua esistenza. Per lui la città natale è soprattutto la sua gente. Gente che ama la vita tanto da aver fatto del gusto un’arte, la difficile arte di saper coniugare il buono, il vero e il bello.

Scriveva nel numero monografico di “Luoghi dell’Infinito” (260, aprile 2021) dedicato a Parma: «Noi siamo noi. Lo furono mio padre artigiano e mio nonno contadino, genitore a baffi risoluti [come i suoi che portava con fierezza fin da giovane] di una barca d’undici figli e figlie. Entrambi indossarono la parmigianità di fatto e di elezione. Al mio signor nonno, già granatiere di leva a Roma nel 1873 e poi seminatore della nostra materna terra dai solchi avidi di complicità, dicevano “Arnést, Ernesto, dovete giocare al Lotto per tirar su una famiglia che non finisce mai!”. Non commentò. Scrisse a vernice la frase dell’orgoglio combattivo sulla cappa del camino di casa, con sotto la padella per la tavolata. La frase si è fatta massima e così risuona: “Ambo lavorare, terno seguitare”».

Quella frase è stata anche il motto della vita di Giorgio Torelli, e questo gli ha permesso di essere un uomo dagli orizzonti senza confini. Come inviato ha attraversato i cinque continenti, mosso da sete di conoscenza, dalla passione per gli uomini, da un’empatia che lo faceva entrare in rapporto anche con le persone più lontane per cultura, lingua, sensibilità. In questo abbracciare il mondo è stato accanto a missionari a cui lo legava una profonda amicizia, da Piero Gheddo a Baba Camillo a Marcello Candia. Scrivere era come respirare. Non si coglieva grande differenza tra il suo parlare e i suoi articoli: la parola, sia nella lingua madre sia in italiano, era sempre ricca, precisa, capace di esprimere l’essenziale e le sue sfumature. Ed era sempre una parola gioiosa. Anche quando raccontava le zone d’ombra e gli abissi dell’umano si scorgeva la luce della speranza e la fiducia nella Provvidenza.

Ora Giorgio Torelli è nella luce della Parola in tutta la sua bellezza, bontà e verità. Quella Parola che l’indomito cronista ha amato, cercato, declinato in tutta la sua vita. Da autentico e umile maestro.


 venerdì 7 aprile 2023


lunedì 17 luglio 2023

Don Abbondio: il vero protagonista

Manzoni ebbe una straordinaria importanza nella formazione di scrittore di Sciascia. Tra le sue prime letture Sciascia ha sempre ricordato I Promessi Sposi e la Storia della colonna infame: Manzoni, insieme agli illuministi francesi, rappresentò, per quel precoce e avidissimo lettore, la ragione e un modo di ragionare da opporre all’irrazionale pirandellismo in natura che aveva scoperto nella sua vita di ogni giorno. Tra gli scrittori più amati, lo scrittore milanese occupa un posto di primissimo piano, e Sciascia non mancò di dichiararlo: «Se mi si chiedesse a quale corrente di scrittori appartengo, e dovessi limitarmi a un solo nome, farei senza dubbio quello di Manzoni».

L’interesse critico di Sciascia per l’opera manzoniana ha dovuto misurarsi con il diffuso disamore, l’insofferenza quasi, che spesso si accompagna all’autore dei Promessi sposi, e per colpa soprattutto della scuola italiana, che ha imposto la lettura del romanzo agli studenti con interpretazioni stereotipate e fuorvianti. Sciascia ebbe la fortuna di leggerlo, come egli stesso confessa, prima che glielo facessero leggere a scuola, avendo così modo di apprezzarne l’autentico valore. I suoi saggi su Manzoni sono talvolta coincisi con iniziative editoriali che miravano a una più avvertita divulgazione dell’opera manzoniana, e in cui il suo contributo doveva risultare fondamentale.


La raccolta di saggi intitolata Cruciverba accoglie i due scritti più importanti tra quelli che Sciascia ha dedicato a Manzoni: «Goethe e Manzoni» e «Storia della colonna infame».


Nel primo saggio Sciascia prende spunto da alcune annotazioni dei Colloqui con Goethe di Eckermann, e precisamente da quelle in cui il grande autore tedesco parla dei Promessi sposi, di cui leggeva l’edizione del 1827, riassumendone l’eccellenza in quattro punti: la storia; la religione cattolica; le lotte rivoluzionarie; l’amore e la conoscenza dei luoghi. Per Sciascia, questi quattro pregi del romanzo sono suscettibili di aprire, ciascuno, un discorso, e ne trova conferma in Pirandello, che questo passo dei Colloqui trascrisse, traducendolo, in un suo taccuino di appunti, ma senza nessuna indicazione, con la conseguenza che la critica l’ha ritenuto un giudizio di Pirandello su Manzoni. Sul primo dei quattro pregi, Goethe, terminata la lettura del romanzo, doveva ricredersi; ma questo discorso ne apre un altro, e il più importante per Sciascia, sulla Storia della colonna infame, che si preferisce affrontare più avanti, prima occorre far cenno alla lettura di Sciascia del romanzo manzoniano.


Tra le considerazioni di Goethe sui Promessi sposi, Sciascia ne trova una che vale a chiarirgli il valore del romanzo e insieme il valore della scrittura, intesa con felicità, come felicità, anche nell’angoscia. La felicità della scrittura, come altrove si è detto la felicità della letteratura, trattando della sua idea di letteratura come forma del dilettantismo, del dilettarsi. Nella scrittura manzoniana Sciascia ha riconosciuto l’espressione più alta della scrittura come forma della felicità, della felicità della scrittura, proponendo così un Manzoni certamente originale, da contrapporre alla fama corrente di scrittore noioso: «C’è poi, straordinario, l’accostamento di due parole, di due stati d’animo; l’angoscia, la felicità. Ci sono tante definizioni del classico, di quel che è classico, di quel che è un classico (e di solito in contrapposizione a barocco o romantico), ma qui, sulle pagine del Manzoni, mi pare che Goethe adombri la più giusta: classico è la capacità di rappresentare tutto, anche l’angoscia, soprattutto l’angoscia, “con mirabile felicità”. La felicità dello scrivere, la felicità della scrittura, la felicità della “dicitura”: per quanto greve, angosciante, affannosa sia la realtà che vi si rappresenta. I promessi sposi è un libro angoscioso e, in un certo senso, disperato; ma è anche un libro felice».


C’è un episodio della vita di Manzoni che Sciascia apprese da una vecchia antologia scolastica e che egli assume ad esemplificazione di uno dei punti in cui Goethe sintetizza l’eccellenza del romanzo, quello delle «lotte rivoluzionarie»: in quell’occasione l’autore dei Promessi Sposi diede prova di grande coraggio e insieme di suprema discrezione. Quell’episodio diviene per Sciascia «una specie di chiave di lettura dell’opera, ponendosi come spiegazione del rapporto tra il personaggio protagonista del romanzo e il suo autore»: un caso evidente di quell’interesse che sempre Sciascia ripone nella biografia di un autore per meglio comprenderne l’opera.


Prima che a scuola gli venisse indicato il protagonista del libro nella Provvidenza, Sciascia aveva già maturato la convinzione che il vero protagonista del romanzo fosse don Abbondio, e non ci fu commentatore o professore che riuscisse a fargli cambiare idea. Ad un certo punto, anzi, doveva scoprire un libro che quella convinzione avrebbe confermato e motivato: Il sistema di don Abbondio di Angelandrea Zottoli, poco o punto presente nelle scuole italiane. L’originale interpretazione del romanzo manzoniano viene illustrata da Sciascia muovendo proprio dal saggio di Zottoli: «“Figura circospetta e meditativa”, dice Zottoli, che si mostra appena Adelchi cade e che da Adelchi apprende che “una feroce forza il mondo possiede” e che “loco a gentile, ad innocente opra non v’è: non resta che far torto o patirlo”. Ma questa visione della vita, questo pessimismo, è per don Abbondio un riparo e un alibi: don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettualmente vince, è colui per il quale veramente il “lieto fine” del romanzo è un “lieto fine”. Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato, ma scelto e perseguito da una posizione di forza, da una posizione di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro. L’uomo del Guicciardini, l’uomo del “particulare” contro cui tuonò il De Sanctis, perviene con don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi, in funzione della sua apoteosi, che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano…».


Nella conclusione del saggio l’argomentazione di Sciascia si fa stringente: «Anni addietro Cesare Angelini, dopo più di mezzo secolo di amorosa, attenta e sottile lettura dell’opera manzoniana, fu come folgorato da una domanda: perché se ne vanno? perché Renzo e Lucia, ormai che tutto si è risolto felicemente per loro, ormai che nel castello di don Rodrigo c’è un buon signore e nulla più hanno da temere, lasciano il paese che tanto amano? Non seppe trovare risposta. E pure la risposta è semplice: se ne vanno perché hanno già pagato abbastanza, in sofferenza, in paura, a don Abbondio e al suo sistema; a don Abbondio che sta lì, nelle ultime pagine del romanzo, vivo, vegeto, su tutto e tutti vittorioso e trionfante: su Renzo e Lucia, su Perpetua e i suoi pareri, su don Rodrigo, sul cardinale arcivescovo. Il suo sistema è uscito dalla vicenda collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo. Ne saggiamo la resistenza anche noi, oggi: a tre secoli e mezzo dagli anni in cui il romanzo si svolge, a un secolo e mezzo dagli anni in cui Alessandro Manzoni lo scrisse».


Nell’interpretazione sciasciana I promessi sposi perdono il carattere provvidenzialistico che ha voluto leggervi una certa critica, propensa ai luoghi comuni, che ha spopolato tra i banchi di scuola. Al contrario, il romanzo si presenta, per Sciascia, come una disamina lucidissima e spietata della società italiana: del tempo in cui il romanzo si svolge, del tempo in cui Manzoni lo scrisse, del tempo in cui noi lo leggiamo. In un’altra occasione, sempre a proposito del romanzo manzoniano, Sciascia ha affermato: «La sua opera è generalmente vista come il prodotto di un cattolico italiano piuttosto tranquillo e conformista, quando invece si tratta di un’opera inquieta, che racchiude un’impietosa analisi della società italiana di ieri e di oggi e delle sue componenti più significative. Un libro, un’opera che contiene tutta l’Italia, persino l’Italia che più tardi sarà descritta da De Roberto ne I viceré, da Pirandello ne I vecchi e i giovani, da Vitaliano Brancati ne Il vecchio con gli stivali, addirittura l’Italia delle Brigate Rosse». E quanto al cattolicesimo di Manzoni, Sciascia ha dichiarato: «è stato detto che ha convertito, convertendosi, l’illuminismo al cattolicesimo; ma io penso che in lui è forse accaduto il contrario: il cattolicesimo si è convertito all’illuminismo».


Vi è un altro saggio in Cruciverba nel quale si fa cenno ai Promessi sposi: «Un cruciverba su Carlo Eduardo», dove il Waverley di Walter Scott viene indicato tra le fonti del romanzo manzoniano, come aveva notato Corrado Alvaro, e attraverso la segnalazione di alcuni dei punti nei quali l’esteriore struttura dei due romanzi coincide.


Come Sciascia ricorda in «Goethe e Manzoni», l’autore del Faust, finito di leggere il romanzo, si era ricreduto su uno dei quattro pregi che vi aveva ravvisato, la storia, e si era convinto che lo storico avesse giocato un brutto tiro al poeta. E’ pur vero, e Sciascia ne tiene conto, che Goethe leggeva I promessi sposi nell’edizione del 1827, dove la fusione di storia e invenzione non è compiutamente raggiunta; se egli avesse letto l’edizione del 1840, si domanda Sciascia, avrebbe continuato a sostenere che Manzoni commetteva da storico peccato contro la poesia? Tra le parti di storia inserite nel romanzo del 1827 vi era la cronaca del processo ai presunti untori celebrato durante la peste milanese del 1630, cronaca che sarebbe stata pubblicata in appendice all’edizione del 1840 del romanzo, con il titolo Storia della colonna infame. Quest’opera, tra le opere manzoniane, ha sempre suscitato un interesse assolutamente prioritario in Sciascia, che ha affermato: «Potremmo magari lasciar da parte I promessi sposi: la Storia della colonna infame dovrebbe esser ben presente, oggi».


Al volumetto manzoniano Sciascia ha dedicato uno scritto particolarmente denso, raccolto in Cruciverba. Prima di Manzoni, l’illuminista Pietro Verri aveva dedicato la sua attenzione ed il suo sdegno ai tragici fatti milanesi; e con Verri Manzoni entra in parziale polemica per ciò che pertiene le responsabilità di quei gravi casi d’ingiustizia. Sciascia sceglie di stare con Manzoni: «Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni; Manzoni alle responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte». E all’obiezione che quei giudici fossero uomini di cui tutta Milano riconosceva l'integrità, obiezione avanzata da Fausto Nicolini nel suo Peste e untori del 1937, autentico bersaglio polemico di questo scritto, Sciascia risponde stabilendo appunto un’analogia con i campi di sterminio nazisti: «viene da pensare a quel libro di Charles Rohmer, L’altro, che è quanto di più terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: “una dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male, la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l’esatta misura della loro negatività” […] Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c’è da tremare è appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono “burocrati del Male”: e sapendo di farlo».


Nell’opera manzoniana Sciascia legge l’analisi, lucida e tormentata, delle responsabilità individuali imputabili a uomini che hanno il potere di giudicare altri uomini, e tanto più acuta e dolorosa è quest’analisi in quanto riferita a uomini non eccezionalmente malvagi né a tempi di eccezionale oscurità, ma a uomini con la loro parte di umanità, e in qualsiasi tempo: occorre vigilare perché più non accada che alcuni uomini possano disporre della libertà e della vita di altri uomini, e proprio perché ciò può accadere sempre: «Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre».


Il Manzoni che più interessa a Sciascia è quello che compiutamente si esprime nella Storia della colonna infame, dove con maggiore evidenza che nel romanzo il moralismo è molto più prepotente delle credenze religiose. Per Sciascia la Storia costituisce una deviazione imprevista dal percorso tracciato dalla fede, percorso nel romanzo coerentemente seguito; una chiave di lettura, la più congeniale, con cui aprire il medesimo romanzo all’interpretazione che egli ne diede. Un’opera che dapprima Manzoni chiamò appendice storica sulla Colonna Infame, e appunto da appendice è trattata, con disattenzione e superficialità, dice Sciascia. E sulla scelta dell’autore di fare della Storia un’opera separata dal romanzo, Sciascia coglie le vere ragioni di questo piccolo grande libro: «La ragione per cui Manzoni espunge dal romanzo la Storia non è soltanto tecnica – cioè quella ragione di cui lungamente, sull’edizione dei Promessi Sposi del 1827, Goethe discorre con Eckermann. La ragione è che sui documenti del processo, sull’analisi e le postille di Verri, Manzoni entrò, per dirla banalmente, in crisi. La forma, che non era soltanto forma, e cioè il romanzo storico, il componimento misto di storia e d’invenzione, gli sarà apparsa inadeguata e precaria; e la materia dissonante al corso del romanzo, non regolabile ad esso, sfuggente, incerta, disperata. E c’è da credere procedessero di pari passo, in margine alla sublime decantazione o decantata sublimazione (da nevrosi, si capisce) in cui andava rifacendo il romanzo, l’abbozzo della Colonna Infame e la tesura del discorso sul romanzo storico. Due grandi incongruenze, a considerare che venivano dallo stesso uomo che stava tenacemente attaccato a rifare e affilare un componimento misto mentre ne intravedeva e decretava la provvisorietà e ne preparava uno, per così dire, integrale da cui l’invenzione veniva decisamente esclusa».


Infine, a proposito della scarsa fortuna che quest’opera avrebbe incontrato presso i lettori, e della previsione che ne aveva fatto Manzoni, Sciascia dichiara di avere egli ripreso quel genere così poco praticato in Italia, e qui dovrebbe aprirsi un lungo discorso sull’opera sciasciana, ma poiché esula dal tema qui preso in esame basterà avervi fatto cenno. Dichiara Sciascia: «Non c’era mai stato niente di simile, in Italia; e quando qualcuno, più di un secolo dopo, si attenterà a riprendere il “genere” (poiché Manzoni, come esattamente dice il Negri, prefigura il “genere” dell’odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario), “le silence s’est fait”: come allora».


fonte: Marcello D'Alessandra, amicisciascia.it

sabato 15 luglio 2023

“Il cambiamento per il cambiamento è caratteristica del diavolo”

 Abbiamo ancora a disposizione, dopo tanti anni, un pezzo di grande giornalismo che porta la cronaca di un difficile momento di Arnaldo Forlani all’altezza di una limpida rappresentazione circa il carattere e la personalità del più riservato e schivo dei leader storici della Dc. A scriverlo su Repubblica fu Miriam Mafai, a lungo firma prestigiosa del quotidiano romano. L’articolo apparve in coincidenza con l’accusa del pool di Mani Pulite all’allora segretario di Piazza del Gesù e presentava, quasi plasticamente, la fisionomia di un politico irriducibile ai canoni della tradizione democristiana, pur essendone sicuramente una delle espressioni più originali. Nel testo si rinviene una perla del pensiero forlaniano: “Nell’agosto del 1992, nel corso del Consiglio nazionale che doveva eleggere il nuovo segretario, Arnaldo Forlani rispondeva polemicamente a Martinazzoli ricordando che “il cambiamento per il cambiamento è caratteristica del diavolo”.


Era solo una battuta? Non credo. In quelle parole si celava la ritrosia o l’avversione per quello che avremmo imparato a definire con il termine di “nuovismo”, fenomeno deteriore di spavalderia e inconcludenza apparso nel tempo della veloce gestazione della cosiddetta seconda repubblica. È probabile che non valesse come rimprovero a Martinazzoli, di cui riconosceva la capacità di suggestione nella lettura della crisi, anche oltre il campo della politica, bensì come avvisaglia del pericolo che la Dc doveva correre nell’affidarsi allo spontaneismo di una interpretazione finanche ingenua degli eventi. Difficile dire se prevalesse nel suo animo una dose di rassegnazione o di autocontrollo, magari l’una nasceva dall’altro e viceversa. Certo, non credeva alla immortalità della Dc. Con il solito glamour all’inglese, fece osservare in un Consiglio nazionale che millenni prima era finito anche l’impero degli Ittiti — figuriamoci, perciò, se non poteva finire il potere dei democristiani.


Sarebbe interessante capire quale nesso abbia congiunto la formazione giovanile, debitrice dell’ansia riformatrice del dossettismo, alla postura moderata del Forlani della maturità. Il suo percorso, a ben vedere, si snoda lungo il binomio di “conservazione e superamento” che caratterizzerà l’azione di Fanfani rispetto alla lezione di Dossetti. Eppure, anche rispetto all’attivismo di Fanfani l’usuale posatezza di Forlani appare fuori quadro. Ciò nondimeno, in contrasto con l’accusa di vaporosità rivolta al forlanismo, sta la costanza di un pensiero molto netto che ha colto nella dinamica storica della politica italiana la novità del centro-sinistra come esito del confronto tra cattolici e socialisti. Qui sta, a mio avviso, la continuità della politica forlaniana e qui anche il messaggio che lascia per il presente e per il futuro, giacché si tratta, in effetti, della continuità che nel variare delle scelte, sempre oggetto del conflitto che pervade e qualifica la democrazia, ha segnato il concetto di progresso e stabilità – tutt’e due i fattori insieme – nello svolgimento della politica del leader marchigiano.


Alla fine, se oggi volessimo interrogarci seriamente sul lascito politico di Forlani avremmo da compiere un salto all’indietro per farne due in avanti, nella sostanza cercando di capire come la cultura cattolico popolare e democratica, da un lato, e la cultura socialista dall’altro possano reincarnarsi in una nuova progettualità politica, con le necessarie condizioni di sostenibilità organizzativa. Da questo nucleo teorico, se definito con rigore e lungimiranza, può irradiare la complessa ideazione di una nuova politica di centro. È una sfida in cui possiamo ritrovare il gusto di Forlani per un avanzamento, ancorché prudente, sulla via del progresso civile del Paese.

venerdì 14 luglio 2023

Un comune disegno riformatore

Il governo è attraversato da tsunami che mettono a dura prova la leadership di Giorgia Meloni. Così loro ci provano a mettere in mare una piccola scialuppa, ennesimo contenitore centrista che dovrebbe riuscire a fare sterzare il timone del governo verso quell'area politica liberal fino a ieri presidiata da Silvio Berlusconi e oggi da loro considerata orfana. A differenza degli altri gruppi analoghi essi vantano di non fare parte organica dell'alleanza di centrodestra e quindi di avere maggiore libertà di manovra e di influenza e a differenza dell'ex Terzo Polo sottolineano la matrice cattolica. In più ci sono le europee del prossimo anno, col ruolo che intendono giocare i centristi. Tanta carne al fuoco per i volenterosi che terranno la presentazione ufficiale della loro creatura politica il 19 luglio alla Camera dei Deputati.

A fare gli onori di casa saranno, tra gli altri: Marco Follini, quattro legislature, ex vice presidente del Consiglio (governo Berlusconi del 2004), ex Dc, ex Udc, ex Pd, Gaetano Quagliariello, quattro legislature, ex ministro nel governo Letta del 2013, ex Pri, ex partito radicale, ex Forza Italia, Mario Mauro, una legislatura più tre da europarlamentare, ministro nel governo Letta del 2013, ex Fi, ex Scelta Civica (Mario Monti), Giuseppe De Mita (nipote dello scomparso Ciriaco), una legislatura e dal 2010 al 2013 vicepresidente della Regione Campania, ex Dc, ex Pd, ex Udc, Giorgio Merlo, quattro legislature, ex Dc, ex Ppi, ex Pd, Angelo Sanza, dieci legislature, quattro volte sottosegretario (governi De Mita, Goria, Cossiga-Forlani-Spadolini, Andreotti), ex Dc, ex Fi, ex Udc.

Tutti insieme appassionatamente in Base Popolare, così si chiama il neo raggruppamento che dopo l'ufficializzazione alla Camera incomincerà a raccogliere adesioni, sfidando anche il periodo estivo poiché le elezioni europee sono vicine, il centro è in fase di assestamento e questa nuova voce reclama il proprio spazio. Spiega Giuseppe De Mita: «C'è bisogno di una nuova forza politica autonoma di matrice popolare. Non è possibile organizzarne la presenza in uno degli schieramenti esistenti, di destra o di sinistra, poiché le loro posizioni politiche oggi prevalenti sono costruite sull'elaborazione di proposte riferite a modelli astratti, conditi di demagogia ideologica, che cercano di forzare la realtà o ne ignorano una parte. Il popolarismo cerca risposte non fondate su astratte pretese di verità, ma dentro la complessità della realtà. Il bisogno di sicurezza e il desiderio di libertà, che in misura diversa caratterizzano le principali tendenze sociali, non sono i termini di uno scontro irriducibile, ma gli elementi di un conflitto che la cultura politica deve pacificare offrendo loro un orizzonte di compatibilità».

Molti sono stati i tentativi di riempire il vuoto lasciato dalla Dc. Il principale è stato quello di Forza Italia. Ma l'area centrista ha visto nascere (e morire) gruppi e movimenti di vario genere. Quali sono le prospettive di Base Popolare? Secondo Follini: «La destra gode oggi di un vantaggio numerico e insieme di un vantaggio strategico. Il favore popolare è dalla sua, come dicono i numeri. E l'impossibilità di coalizzare tutti gli avversari accomunandoli in uno stesso cartello elettorale aggiunge una buona dose di fortuna ai numeri della maggioranza. Dunque, viene facile scommettere sulla stabilità, a meno di errori ed eventi che modifichino questo quadro un po' idilliaco.

Eppure tutti questi vantaggi contengono un'intima fragilità, che è legata alla profonda crisi del sistema politico. E dunque, se a quella crisi non verrà posto rimedio, è facile prevedere che prima o poi essa invaderà anche i giardini fioriti dell'attuale maggioranza di governo. Ma il rimedio sta per l'appunto in un comune disegno riformatore. Quel disegno che da mezzo secolo a questa parte viene continuamente evocato e che poi continuamente svanisce”.

Del gruppo costitutivo di Base Popolare fanno parte anche Lorenzo Dellai, una legislatura, ex sindaco di Trento, ex presidente del Trentino Alto Adige, ex Dc, ex Ppi, ex Scelta Civica e Francesco Maria Tuccillo, avvocato e segretario di Avocats sans frontières. Il vertice del Partito popolare europeo ha espresso un apprezzamento che si concretizzerà nella presenza di Manfred Weber, capogruppo del Ppe, alla prima manifestazione ufficiale del movimento, a settembre.

Dice Gaetano Quagliariello: «L'attuale governo è a guida centrodestra, cioè il mio schieramento da sempre, ma al suo interno la parte liberale, quella a cui sono sempre stato vicino, oggi conta davvero poco. Ciò è, oggettivamente, frutto di diversi errori fatti nel tempo. Penso che Giorgia Meloni stia facendo molto bene, ma penso anche che questa parte liberale abbia bisogno di ripensarsi». Aggiunge Mario Mauro: «L'Europa sta andando a destra, ma è responsabilità dei socialisti, e anche di quelle forme che in Italia si chiamano 'dibattito sul centro'. Così il centro viene, non di rado, riassorbito nell'orbita di quei partiti di destra che nei singoli Paesi trionfano. Il governo Meloni da questo punto di vista è un modello esemplare, dove la rappresentanza dei moderati vale intorno al 7/8%. Si tratta di un'anomalia. Perciò vogliamo ricostruire l'area popolare, non per il blasone che porta, ma perché la politica senza pensiero trascinerà il nostro Paese e l'Europa verso il conflitto. Dobbiamo quindi fare un sacrificio organizzativo, metterci insieme in una direzione di marcia. Ci abbiamo provato in tanti in questi anni, ma siamo stati vinti e messi al muro. Dobbiamo evitare di farci la guerra a vicenda, di mettere veti. Un soggetto politico non può essere ridotto a feudo. Facciamo presto, bene e insieme».

Base Popolare molla gli ormeggi. Tra i prossimi ingressi vi sarebbe quello di Marco Bentivogli, ex segretario della Fim-Cisl e co-fondatore del movimento Base Italia: sempre Base è… È annunciata pure la richiesta di un incontro da parte di De Mita & Co con Carlo Calenda e Matteo Renzi. Ci si potrà accordare in vista delle europee? Non sarà facile ma ci si proverà. A settembre bisognerà decidere. Conclude Lorenzo Dellai: «Tutti noi abbiamo pasticciato una serie di soluzioni parziali, limitate, autoreferenziali. Rimane fondamentale e cogente la necessità del recupero di un pensiero popolare. Smettiamola di piantare micro bandierine in ogni dove. Dobbiamo davvero costruire una casa comune. Italia Viva e Azione? Il problema è che è un soggetto con due proprietari, dove c'è molta cultura liberal, poca cultura popolare. Non possiamo essere dei gregari, ma stare su un livello di pari dignità».


Fonte: Italia Oggi, Carlo Valentini, 11 luglio 2023

giovedì 13 luglio 2023

Il modello della mitezza

Arnaldo Forlani è stato un esponente di rilievo della Democrazia cristiana, nato nel dicembre del 1925 a Pesaro, si impegnò negli anni della giovinezza e in quelli universitari nella Dc marchigiana e pesarese, ebbe anche una breve esperienza con il dossettismo, tanto che partecipò allo storico evento dello scioglimento della corrente dosettiana a Rossena nel 1951.

Sarà eletto deputato nel 1958. Una volta a Roma nasce il sodalizio con Amintore Fanfani che durerà fino agli inizi degli anni ottanta. Un rapporto sempre dialettico tra il mentore e il suo delfino. Conflittualità dovuta anche per i rispettivi temperamenti, uno determinato l’altro pacato. Non a caso Forlani si guadagnò diversi appellativi come la “mammoletta che non vuol esser colta” coniato proprio dal grande Fanfani e il “coniglio mannaro” lanciato dall’indimenticabile Gianfranco Piazzesi.

Il suo carattere tranquillo, bonario, che ricercava sempre le ragioni dell’unità e mai quelle della divisione lo distingueva. Incarnava perfettamente il modello della mitezza della politica, era sempre per unire, per mettere insieme. Questo però non si tradusse mai in mancanza di coraggio o pavidità. Prova ne fu il patto di San Ginesio, sottoscritto con Ciriaco De Mita e Antonio Bisaglia per ridare nuova linfa al partito e renderlo più aperto ai ceti popolari. Evento che gli procurò per la prima volta l’elezione a segretario nel 1969.

Determinato lo fu anche quando andò dal capo dello Stato a dimettersi da presidente del Consiglio per la vicenda della loggia massonica P2 e lo fu pure nel 1982 quando decise di opporsi al suo antico mentore Fanfani, che al congresso nazionale scelse De Mita e non Forlani come segretario. Le ore notturne che precedettero la presentazione delle candidature a segretario del partito furono drammatiche. Una riunione iniziata alle ore 21 all’hotel Parco dei Principi a Roma si concluse alle 3 del mattino del giorno dopo col triste risultato della spaccatura tra Fanfani e Forlani. Vincitore fu Ciriaco De Mita. I fanfaniani di Nuove Cronache scomparvero. Ne rimase solo un pallido ricordo.

La stella Forlani però riuscì ancora a splendere. Accadde nel 1989/92 quando fu rieletto segretario col sostegno delle espressioni centriste della Dc. Quale uomo di governo si rivelò subito un abile Statista tanto da essere considerato uno dei migliori in Europa e Oltreoceano. Fu sempre ritenuto convinto atlantista e europeista.


Raffaele Reina


fonte: Formiche

I tempi cambiati

Di Arnaldo Forlani conservo un’immagine privata, quasi familiare. La prima volta lo vidi con gli occhi di un diciassettenne che una domenica pomeriggio accompagnò il padre giornalista a Pesaro per far visita a un leader politico divenuto uomo di governo e, col tempo, un amico. Nessuno avrebbe detto, quel giorno, che nello spazio di una manciata di anni la prima Repubblica sarebbe naufragata col suo carico umano e politico. Ma quel giorno fu per me rivelatore di una dimensione del potere che nulla aveva a che vedere con i miei pregiudizi di adolescente.

Raggiungemmo Forlani ad una sagra del pesce che percorremmo per intero col passo lento di una processione religiosa continuamente interrotta da una precisa sequenza di soste, di saluti, di brevi e civili conversazioni. Ricordo un uomo sobrio, essenzialmente schivo. Una persona educata e dai modi semplici tipici dei marchigiani che trasmetteva l’idea di un potere mite, equilibrato, quasi paterno e ben radicato nel suo terreno natio. Un potere timido, discreto.

La cena fu a casa sua, ai fornelli c’era la moglie, attorno al tavolo una ristretta rappresentanza di politici locali. Ascoltai in rispettoso silenzio una conversazione fatta per un dieci per cento di civili convenevoli, per un venti per cento di riferimenti storici e per il restante settanta per cento di analisi politica condotta con toni sereni e approccio razionale. Ogni questione veniva affrontata con realismo ed esaurita non appena veniva raggiunto un punto di equilibrio tra le diverse forze, interessi ed ideali in campo. La politica come arte della mediazione. La politica come mezzo per raggiungere il migliore tra i fini possibili. Era così la politica democristiana, era così la Politica tout court.

Una Politica morta ormai da tempo, una morte ufficializzata oggi dal trapasso di Arnaldo Forlani. Non resta dunque, nel ricordare Forlani, che rimpiangere i tempi andati. I tempi in cui il potere politico era un potere reale e chi lo incarnava non ne esibiva l’arroganza, ma lo rappresentava con umanità e discrezione. I tempi in cui i partiti politici erano delle comunità e non solo delle cosche. I tempi in cui la teoria non fu mai sideralmente distante dalla pratica. I tempi in cui le parole avevano un senso e contraddirsi era considerato disonorevole. I tempi in cui le personalità politiche si affermavano attraverso un lungo cursus honorem su basi politiche e non solo mediatiche. I tempi in cui i leader non miravano a distruggere i propri avversari interni, ma a cooptarli per sfruttarne le capacità. I tempi in cui gli uomini di governo avevano uno stile istituzionale e la Politica parlava una lingua propria.

I tempi sono cambiati, e non è un caso che Arnaldo Forlani abbia trascorso in disparte e quasi in silenzio gli ultimi trent’anni della sua vita, ovvero i primi trent’anni dei tempi nuovi.

Andrea Cangini

fonte: Formiche

martedì 11 luglio 2023

Dovere e passione

Signor Presidente della Repubblica, cari figli Alessandro, Luigi e Marco, cari nipoti e familiari, autorità, sorelle e fratelli tutti,

ci stringiamo oggi attorno ad Arnaldo Forlani per dargli il nostro ultimo saluto mentre lui compie il suo ultimo tratto che lo separa dalla Gerusalemme del cielo. Quante volte Arnaldo ha ascoltato questa pagina dell’Apocalisse! E, come credente, quei cieli nuovi e quella terra nuova li ha sempre avuti davanti, certo solo in visione, come meta della sua vita, ma anche della stessa azione politica. La visione della nuova Gerusalemme come destinazione di tutti i popoli, non riguarda solo la fine della storia: essa orienta già da ora l’azione del credente. Questa pagina biblica che ascoltiamo in questa celebrazione illumina non solo il senso della morte – quella di Arnaldo, la nostra, di tutti – come passaggio verso la destinazione della storia, appunto la Gerusalemme del cielo ove anche la morte sarà vinta per sempre. E questa luce illumina anche il buio di questo tempo segnato tragicamente da guerre, stragi, distruzioni, che lasciano spaesati e senza più visioni.

Ecco, vorrei ricordare Arnaldo Forlani proprio a partire di qui, ricordarlo come uomo di pace. Lo fu non solo da ministro degli Esteri – primo governante europeo a visitare una Cina ancora sconvolta dalla scomparsa di Mao – ma in tutta una lunga attività politica, attentissimo alle relazioni multilaterali, alla cooperazione internazionale e all’europeismo. Voleva che l’Europa portasse un proprio originale contributo per lo sviluppo e la pace nel mondo e fu anche, per un breve periodo, ministro per i rapporti con le Nazioni Unite. Tutto ciò aveva una radice profonda che affondava nel terreno della sua formazione giovanile nell’Azione Cattolica e nella Fuci. Ed appariva appassionata quando parlava di La Pira, un credente che ha sempre avuto nel cuore la visione finale della Gerusalemme del cielo: in lui – diceva – era “sempre presente il disegno biblico finalizzato alla pace e un nuovo ordine: le spade convertite in vomeri”.

Visioni come questa spingevano Arnaldo Forlani a dare un esempio di rigore, di serietà e di sobrietà. Non ci ha lasciato solo un’importante eredità politica, ha anche compiuto un’opera che resta nelle fibre profonde della società italiana. E’ bene dirlo: se l’Italia è diventata così diversa – in meglio – da come era nel 1945 è anche per la sua opera e per quella di tanti altri credenti e non impegnati con serietà a servire il Paese. Fin dalla giovinezza Arnaldo lo ha fatto, quando, ancora ventenne, negli anni della liberazione entrò nella clandestinità e partecipando alla resistenza. E ha continuato a servire con fedeltà il Paese. Fece suo il vecchio motto “giusto o sbagliato è il mio Paese”.

Sorelle e fratelli, oggi consegniamo nelle mani misericordiose di Dio un servitore della causa di questo Paese, addolorati, certo, ma sereni, come le Sante Scritture ci assicurano che “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento le toccherà” (Sal 3,1). Ed è bene ricordare che quanto Arnaldo ha fatto con passione e zelo per l’Italia – assieme a tanti altri – conta ancora, anzi suggerisce uno stile di vita. In una realtà conflittuale e polarizzata come quella in cui viviamo, appare forse più chiara l’importanza della sua opera costante per conciliare posizioni diverse, per avvicinare forze contrapposte, per tessere alleanze tra mondi anche culturalmente lontani. Tutto ciò che la buona politica avvicina, ricompone, collega, migliora la vita di una società e, al tempo stesso, fa accumulare a chi la promuove un tesoro prezioso che resta patrimonio comune.

Il Paese ha bisogno di visioni che uniscano.

Nella sua solida formazione cristiana Arnaldo ha trovato i motivi ispiratori del suo impegno politico che lui riassumeva in due parole: dovere e passione. Ci vogliono entrambi per far fruttare i talenti ricevuti, come lui ha fatto. Il senso del dovere, anzitutto. Il talento di cui parla il vangelo non è qualcosa di proprio ma, appunto, un dono che si riceve e la cui proprietà resta sempre di un Altro. E qui il senso cristiano dell’esistenza ha segnato con decisione la sua azione politica. E poi anche passione. Nell’impegno per la società c’è bisogno di creatività, di determinazione, di pazienza, di coraggio e di speranza. Si, dovere e passione, non spingono a seppellire i talenti sottoterra, come avviene quando li usiamo per noi stessi, ma spingono a investirli perché producano molti frutti per il bene degli altri, magari correndo qualche rischio personale, accettando rinunce e mettendo in conto anche sconfitte, croce compresa.

Ho conosciuto meglio Arnaldo Forlani quando si abbatté su di lui la tempesta giudiziaria. Di quei momenti ricordo la sua dignità, la mitezza ed anche l’equilibrio. Certo, in un mare di dolore e di sconcerto. Mi colpi la sua fiducia in Dio: si affidò alle sue mani, come il salmista: “anche se vado in una valle oscura non temo alcun male, perché tu sei con me” (Sal 23, 4). E sentiva forte l’amicizia della sua famiglia e degli amici. Molti hanno sottolineato l’inconsistenza delle accuse che gli sono state rivolte, e di certo non si è arricchito con il suo impegno pubblico. E neppure si è sottratto all’azione della magistratura rispettandone l’azione, interpretando, poi, tutto come un effetto amaro del clima devastante di quegli anni. Ma lui – così disse – volle bere “la cicuta fino in fondo”.

Tutto ciò non intaccò, anzi rafforzò, la sua attenzione – ne fece uno stile umano e politico – a non indebolire le istituzioni sulle quali si fonda la convivenza civile e il bene di tutti. Il suo rispetto anche per chi aveva idee diverse dalle sue, è stato un contributo sostanziale allo sviluppo e al consolidamento della democrazia nel nostro Paese. Arnaldo ha sempre mostrato un grande senso delle istituzioni tutte le volte in cui è stato Presidente e vicepresidente del Consiglio o ministro. La sua sobrietà e il suo rigore si univano in lui a una viva sensibilità per i problemi sociali, più volte ne abbiamo parlato assieme, anche perché da giovane iniziò come sindacalista nella corrente cristiana nella CGL, allora unitaria. Era sempre attento agli effetti pesanti sulla vita di tante persone che avevano gli squilibri del sistema economico – come, in Italia, quelli tra città e campagna, tra Nord e Sud – e spesso i suoi discorsi rivelano una profonda sintonia con le encicliche sociali di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Arnaldo non si riconosceva nell’immagine di uomo di corrente. Era sì un uomo di partito, quando i partiti erano le forze vitali della democrazia italiana. E pensava che i partiti fossero chiamati a servire gli interessi non di una parte ma di tutti gli italiani. Uno dei motivi per cui ammirava tanto De Gasperi – me lo raccontò un giorno nei nostri colloqui – fu la commozione e la gratitudine che l’intero popolo italiano espresse per lo statista trentino mentre lo accompagnava nel suo ultimo viaggio da Trento a Roma. Lo scrisse anche: “è stato il momento di più intensa identificazione tra il nostro partito e l’Italia”. Il ruolo guida della Dc gli pareva una necessità, in presenza di un grande partito comunista in Italia. Era convinto che questo problema non potesse essere risolto con forzature, ma solo con “un lungo e difficile confronto” democratico: escludeva, perciò, la creazione di “un blocco d’ordine” che avrebbe lacerato in modo drammatico la società italiana e ha sempre contrastato l’uso politico della violenza da parte di gruppi con opposte matrici ideologiche.

E’ stato lui a coniare l’immagine del “potere discreto”, per indicare l’ideale di una limitazione del potere da parte anzitutto di chi lo esercita. Lo diceva anche per il suo partito: deve rispettare “anche nell’immagine una consuetudine di prudenza e di collegialità”. E, pur convinto dell’importanza dei partiti per la democrazia italiana, era però contrario alla concentrazione di tutto il potere nelle loro mani: fin dagli anni Sessanta, fu tra i primi a parlare di riforme istituzionali per correggere i limiti e le deformazioni del sistema politico, un problema di cui ancora oggi si continua a discutere, non sempre con il disinteresse e la lungimiranza di cui egli era capace.

Anche la sua uscita di scena – trent’anni fa; un’uscita totale e irrevocabile – è stata improntata all’ideale di un “potere discreto”. E' rimasto sempre fedele al partito in cui si è svolta la sua intera vicenda politica. Non ha condiviso le scelte di quanti, anche vicini a lui politicamente, hanno rotto quell’unità che per lui costituiva un bene superiore agli interessi personali: doveva sempre prevalere sulle divergenze di vedute e sui conflitti di potere, per ragioni più profonde di quelle solo politiche. Con la fine della Democrazia Cristiana, Forlani ha ritenuto definitivamente conclusa anche la sua esperienza politica, scegliendo un rigoroso riserbo.

Oggi, siamo in tanti attorno a lui, con la particolare solennità dei funerali di Stato, mentre si accinge a compiere l’ultimo tratto del suo pellegrinaggio verso la Gerusalemme del cielo. Lo circondiamo con l’onore dovuto ad un servitore dello Stato, con l’affetto che si ha per un amico e con la preghiera di chi crede in un Dio ch’è amore. Arnaldo troverà nel cielo le risposte che ha cercato lungo la sua vita, quelle alle domande suscitate dalle asprezze e dalle contraddizioni della politica e, soprattutto, troverà quelle risposte che riguardano il senso ultimo dell’esistenza umana e che la politica, da sola, non è in grado di dare. Troverà il Suo Signore ad attenderlo. Ma ancor prima delle risposte sentirà il Signore che sull’ uscio gli dirà, come il Vangelo suggerisce: “Arnaldo, servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuto padrone”. E ci piace immaginare l’amata moglie, Alma Maria, farsi avanti tra i tanti che lo aspettano per riabbracciarlo, e con lei i genitori la moglie e gli amici, numerosi, che gli fanno festa. \e perché tutti i popoli si incamminino verso quella fraternità universale che resta il sogno di Dio sul mondo. Amen.


Mons. Vincenzo Paglia

Omelia ai funerali di Stato di Arnaldo Forlani

10 luglio 2023

mercoledì 5 luglio 2023

Cantore delle vittime e degli ultimi

Cari fratelli e sorelle!

Lo scorso 22 maggio si è commemorato il 150° anniversario della morte di una delle figure più alte della letteratura, Alessandro Manzoni. Egli, attraverso le sue opere, è stato cantore delle vittime e degli ultimi: essi sono sempre sotto la mano protettrice della Provvidenza divina, che «atterra e suscita, affanna e consola»; e sono sostenuti anche dalla vicinanza dei pastori fedeli della Chiesa, presenti nelle pagine del capolavoro manzoniano.

Papa Francesco, 28 maggio 2023

Un grande scrittore, un grande italiano, un grande milanese

Autorità, gentili ospiti, care studentesse e cari studenti.

Ringrazio, a nome di tutti per i loro interventi, il Sindaco, il Presidente della Regione, il Prof. Bazoli, il Prof. Stella. 

Ho deposto questa mattina una corona di fiori sulla tomba di Alessandro Manzoni, in questo 150° anniversario della sua morte. Un grande scrittore, un grande italiano, un grande milanese. Perché, caro sindaco, non si può spiegare Manzoni senza Milano e, penso che si possa dire, Milano senza Manzoni. 

Con questa cerimonia – così raccolta e partecipata, per questo sarebbe piaciuta certamente a Manzoni – vogliamo rendere testimonianza di quanto l’Italia gli sia debitrice, in termini di pensiero, di produzione letteraria, di esempio morale, di evoluzione della lingua. Manzoni, uno degli spiriti più nobili del nostro Ottocento, protagonista del Romanticismo e del Risorgimento italiano. Definito, a ragione, il padre del romanzo italiano e maestro indiscusso di tante generazioni di letterati e di patrioti.

La lettura dei “Promessi Sposi” ci riserva, ogni volta, nuovi e sorprendenti aspetti, per finezza, per arguzia, per profondità, per vividezza delle descrizioni, per il tratteggio psicologico dei personaggi; talmente autentici che i loro nomi, ancora oggi, definiscono caratteri esemplari. 

Abbiamo appena ascoltato, con una lettura particolarmente intensa – che qui la ringraziamo tutti - da parte Eleonora Giovanardi, l’episodio dell’incontro a quattr’occhi di fra’ Cristoforo con don Rodrigo. Sono eccezionali, in quel momento e in quel passaggio del romanzo, il gioco degli sguardi, quasi cinematografico, il movimento scenico, il dialogo drammatico, che si intreccia tra i rappresentanti di due concezioni del mondo così diverse: l’umiltà, la sete di giustizia, l’umanità da un lato; l’arroganza, la protervia, la prepotenza dall’altro.

Nello sterminato territorio che separa l’universo valoriale di fra’ Cristoforo da quello, turpe, di don Rodrigo si muove - sembra dirci Manzoni - la storia, cammino dolente ma inarrestabile dell’umanità verso il futuro.

Genti e popoli in marcia, con le loro speranze, i loro progressi, le loro miserie, le loro cadute. Un percorso che - come è stato ricordato poc’anzi - Manzoni affida nelle mani della Divina Provvidenza. Ma che è quanto di più lontano da un rassegnato fatalismo, perché gli uomini, mediante la loro forza e le loro debolezze, sono e restano i costruttori del proprio presente e del proprio avvenire.

Figlio del suo secolo, Manzoni ha avuto la peculiarità   - che appartiene soltanto ai grandi - di gettare sulla società e sulla realtà storica del suo tempo uno sguardo lungimirante, capace di andare oltre, collegandosi – e spesso ispirandole - alle forze più vive e dinamiche della cultura italiana ed europea, pervase dall’aspirazione alla libertà, all’indipendenza, all’autodeterminazione. Un’aspirazione che non può essere disgiunta dall’opposizione e dalla ripugnanza nei confronti della tirannide, dell’abuso di potere, della violenza, dell’ingiustizia, specialmente contro i poveri, gli umili, gli indifesi.

Manzoni si è sempre sottratto, per la sua proverbiale riservatezza e anche per ragioni di salute, alla militanza politica in senso stretto. Ma è considerato, ben a ragione, un ispiratore e un propulsore del nostro Risorgimento e dell’Unità d’Italia. Ed è, a tutti gli effetti, un padre della nostra Patria.

Ricollegandosi alla grande tradizione della poesia civile, di Dante, Petrarca, Foscolo, ambiva a un’Italia unita, che non fosse una mera espressione geografica, una addizione a freddo di diversi Stati e staterelli, ma la sintesi alta di un unico popolo, forte, orgoglioso della sua cultura, della sua storia, della sua lingua, delle sue radici. Ve ne è traccia, efficace e di rimpianto, nel Coro dell’Adelchi.

Al poeta Lamartine, che aveva parlato sprezzante di “diversità” di “popoli” italiani, Manzoni rispose con una lettera sdegnata: «No, non c’è più differenza tra l’uomo delle Alpi e quello di Palermo che tra l’uomo sulle rive del Reno e quello dei Pirenei.»

Cattolico integrale, ma mai integralista, Manzoni ha affrontato la questione dell’ingresso e della presenza delle masse cattoliche all’interno del processo risorgimentale e di formazione nazionale, respingendo ogni tentazione di mantenimento di forme di potere temporale della Chiesa, da lui considerato storicamente superato, origine di corruzione e fonte di gravi mali. Fu Paolo VI, Prof. Bazoli, a ricordare che fu provvidenziale la perdita del potere temporale ad opera dello Stato italiano.

Anche quando queste tentazioni temporalistiche o neotemporalistiche si presentavano nella forma temperata e accattivante proposta da animi illuminati, come Gioberti o il suo amico, e padre spirituale, Rosmini. Da senatore, infatti, Manzoni non ebbe alcuna remora nel votare a favore di Roma capitale, nonostante la minaccia di scomunica papale. 

Si è molto parlato e discusso - a proposito di Manzoni – del suo cattolicesimo liberale; del suo punto di vista sulle masse popolari, del suo interesse - del suo amore, in realtà - per gli umili e per gli oppressi.

Francesco De Sanctis, in pagine illuminanti, definisce la concezione manzoniana come “eminentemente democratica”: «Non è il titolo - scriveva De Sanctis - e non la ricchezza, e non la dignità e neppure la scienza che crea l’interesse estetico; è il carattere morale, non privilegio di classe o di professione, ma partecipe a tutti: ideale democratico – aggiungeva De Sanctis - che è la negazione di ogni aristocrazia di convenzione.»

Conosciamo le riserve di Gramsci e di altri studiosi sul cosiddetto “paternalismo” manzoniano o sul suo vero o presunto “moderatismo”. Non spetta certo a me rievocare o valutare queste controversie politico-letterarie, peraltro influenzate dallo spirito dei tempi in cui si svilupparono. Ma vorrei condividere qualche breve riflessione sul Manzoni civile.

A proposito del Romanticismo e del Risorgimento italiano si cita spesso la triade Dio, Patria, Famiglia, quasi in contrapposizione alla triade della Rivoluzione Francese, Libertà, Eguaglianza, Fraternità. È una cesura eccessivamente schematica.

Il romantico e cattolico Manzoni, in verità, non rinnega i valori della Rivoluzione Francese, anzi, li approva e li condivide, insistendo soprattutto sul quello più trascurato, la fraternità. La Rivoluzione Francese, secondo Manzoni, aveva tradito questi valori, perché, con il giacobinismo, si era trasformata nell’ideologia del Terrore e della violenza.

Nulla, per l’autore dei Promessi Sposi, è più nefasto delle teorie politiche astratte che immolano sull’altare della ragion di Stato i diritti di uomini o di intere popolazioni. Nulla, per lui, è più sacro della vita umana. La verità deve prevalere sulla menzogna, la tolleranza sull’odio, la pietà sulla violenza, la morale sul calcolo di convenienza.

A differenza di molti suoi contemporanei, che vagheggiavano improbabili ritorni a ere classiche e pre-cristiane, scrive che non bisogna provare alcuna nostalgia per “la barbarie degli antichi”, un’epoca caratterizzata da guerre di conquista, stermini, distruzioni, sopraffazioni, riduzione in schiavitù.

Non c’è alcun quietismo, alcuna rassegnazione: Manzoni sostiene i moti di indipendenza nazionale, incoraggia i venti di libertà che spirano in Italia e in tante altre parti del mondo – non a caso nella Pentecoste ricorda America Latina, Irlanda, Libano e Haiti – giungendo, davanti alle aggressioni e alle ingiustizie, a teorizzare la legittimità della resistenza.

Ma - nella sua visione - è la persona, in quanto figlia di Dio, e non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale, a essere destinataria di diritti universali, di tutela e protezione. È l’uomo in quanto tale, non solo in quanto appartenente a una nazione, in quanto cittadino, a essere portatore di dignità e di diritti.

Colpisce quanto ricordato da Margherita Provana di Collegno, assidua frequentatrice di Manzoni, a proposito del triste fenomeno della schiavitù: Manzoni le confidò, infatti, che “benché l'America abbia il Governo più libero ed il Re di Napoli il più tirannico, pure, se gli avessero fatto scegliere di rinascere, o americano, o napoletano, avrebbe preferito di nascere napoletano, perché nulla esiste di peggio della mostruosa schiavitù.”

Nell’idea manzoniana di libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà si può scorgere una anticipazione della visione di fondo della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948.

Una carta fondamentale, nata dopo gli orrori della Seconda Guerra mondiale, che individua la persona umana in sé, senza alcuna differenza, come soggetto portatore di diritti, sbarrando così la strada a nefaste concezioni di supremazia basate sulla razza, sull’appartenenza, e, in definitiva, sulla sopraffazione, sulla persecuzione, sulla prevalenza del più forte. Concetti e assunti che – come ben sappiamo - sono espressamente posti alla base della nostra Costituzione repubblicana.     

Dai diritti dell’uomo la concezione manzoniana si allarga a quella del diritto internazionale e dei rapporti tra gli Stati, dove si ritrova una critica lucida e serrata al nazionalismo esasperato. Perché la moralità, la fraternità e la giustizia devono prevalere sugli odi, sugli egoismi, sulle inutili e controproducenti rivalità.

Scrive Manzoni in un frammento delle Osservazioni sulla Morale Cattolica, pubblicato postumo: “Bisogna sentire e ripetere che la somiglianza che ci dà l’essere d’uomo è ben più forte che la diversità di nazione; che il Vangelo ci ha fatto conoscere che abbiamo un cuore grande abbastanza per amar tutti gli uomini; che gli sforzi di una nazione contro l’altra (…) son sempre piccioli, perché fondati sulla passione e non sulla ragione e sulla verità; sono inutili, perché non ottengono stabilmente nemmeno il fine che si propongono quelli che li fanno; sono impolitici, perché producono (…) l’indebolimento e il pervertimento dei popoli”.

Manzoni si spinge anche oltre, prefigurando la illiceità di accordi internazionali ratificati sulla testa dei popoli e degli Stati: in una lettera al genero Giovan Battista Giorgini, del marzo 1861, parla esplicitamente della “ingiustizia e la nullità morale di trattati stipulati da alcuni sugli affari d’altri, senza sentirli e con il solo titolo della forza, e dell’inaudita e iniquissima teoria che attribuiva a quegli alcuni … il diritto di costituire un diritto sopra gli altri.”

Per concludere, vorrei segnalare un ultimo aspetto che mi sembra di particolare attualità.

Sono state scritte pagine illuminanti sulla sua vicinanza, sull’empatia, sulla condivisione nei confronti delle masse popolari, che per la prima volta diventano protagoniste di un romanzo. Utilizzando una terminologia moderna, di oggi, possiamo parlare di un Manzoni certamente “popolare”, ma non “populista”.

Il legame controverso che Manzoni stabilisce tra potere e opinione pubblica, tra giustizia e sentimenti diffusi, ci induce a riflettere - sia pure in tempi incommensurabilmente distanti - sui pericoli che oggi corrono le società democratiche di fronte alla diffusione del distorto e aggressivo uso dei social media, dell’accentramento dei mezzi di comunicazione nelle mani di pochi, della disinformazione organizzata e dei tentativi di sistematica manipolazione della realtà.

E, anche, sulla tendenza, registrabile in tutto il mondo, di classi dirigenti di assecondare la propria base elettorale o di consenso e i suoi mutevoli umori, registrati di giorno in giorno tramite i sondaggi, piuttosto che dedicarsi a costruire politiche di ampio respiro, capaci di resistere agli anni e di definire, in tal modo, il futuro.

Già nei Promessi Sposi, nei capitoli dedicati alla peste, Manzoni scriveva icasticamente a proposito di questi rischi: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.

La “Storia della Colonna infame” - un capolavoro di letteratura civile, compreso e rivalutato soltanto a partire dal secolo scorso - ci ammonisce di quanto siano perniciosi gli umori delle folle anonime, i pregiudizi, gli stereotipi; e di quali rischi si corrano quando i detentori del potere - politico, legislativo, giudiziario - si adoperino per compiacerli a ogni costo, cercando soltanto un consenso effimero. Un combinato micidiale, che invece di produrre giustizia, ordine e prosperità - che è il compito precipuo di chi è chiamato a dirigere - produce tragedie, lutti e rovine.

Autorità, care studentesse, cari studenti,

Alessandro Manzoni ci ha regalato alcune delle pagine più belle e intense della nostra letteratura. Il suo altissimo senso morale, la sua ispirazione ideale, insieme umana e cristiana, ci è continuamente di riferimento e di sprone.

Come tutti gli spiriti eletti e gli artisti universali, Manzoni parla tuttora all’uomo di oggi, alle sue inquietudini e alle sue ricerche di senso, con voce autorevole, ferma e appassionata.

Anche per questo, oggi, gli rendiamo omaggio.


Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia in occasione del 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni - Milano, 22 maggio 2023




 

 

La peggior forma di governo

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