venerdì 15 gennaio 2021

Molti non parlano degli Angeli

Molti non parlano degli Angeli. Sarebbe invece opportuno ricordarli più spesso come ministri della Provvidenza nel governo del mondo e degli uomini, cercando di vivere, come han fatto i santi da Agostino a Newman in familiarità con essi.


Giovanni Paolo I


San Jonh Henry Newman, canonizzato da Papa Francesco il 13 ottobre 2019 in piazza san Pietro, è noto per i sermoni tenuti, quando era ancora un giovane parroco anglicano, (dunque prima della conversione al cattolicesimo) nella chiesa di St. Mary di Oxford. In quei sermoni, che costituiscono una summa teologica, moderna e per taluni aspetti assai originale, un tema che ritorna con costanza, è certamente quello degli angeli. Newman non si accontenta di affermarne l’esistenza. Si collega a quella convinzione che gli angeli sono gli strumenti dell’economia della salvezza stabilita dal Signore, che essi gioiscono del mistero dei loro doni soprannaturali, cui ogni credente deve esservi attento, in breve che bisogna “realizzare” la presenza di questi esseri predestinati. Non ci sarebbe dunque da meravigliarsi del posto e del rilievo dati agli angeli nella predicazione di Newman. “Essere concreti e viventi” Il suo scritto sugli angeli più importante è probabilmente il sermone del 1831, “Le potenze della natura”. Newman non si risparmia nessun rigo della Bibbia disegnando il loro profilo di realtà ed il loro contorno di vita. Cita spesso la scala di Giacobbe, che è come il simbolo di quel mondo invisibile abitato dagli angeli di cui il credente deve avere la convinzione. L’angelo che visita Agar nel deserto, colui che raggiunge i tre giovani nella fornace, l’angelo che vigila alla piscina di Betesda“senza rinunciare alla sua purezza né alla sua perfetta felicità”, e le scene molteplici della vita di Cristo, delle prime predicazioni degli apostoli, sono troppo pregnanti del ministero tenuto dagli angeli per non aprire gli occhi della fede alla loro realtà ed alla loro missione. Con gli angeli, un mondo reale è dato, costituito da esseri concreti e viventi, soprannaturali, benché inaccessibili ai sensi ed alla ragione. “Vigilano sui più umili” Gli angeli, ragiona Newman, abitano il mondo invisibile, e noi siamo meglio istruiti nei loro riguardi anziché a proposito delle anime dei fedeli defunti perché: “questi ultimi si riposano dei loro duri lavori, nel mentre che gli angeli sono attivi in mezzo a noi nella Chiesa. Non c’è nessun cristiano, per umile che sia, che non sia assistito dagli angeli, purché egli viva nella fede e nell’amore. Benché siano così grandi, così gloriosi, così puri, così belli, che la loro vista, se potessimo vederli, ci atterrerebbe, come l’ha vissuto il profeta Daniele, eppure sono nostri compagni di servizio e di lavoro, essi vigilano sui più umili tra di noi e ci difendono, dal momento che noi siamo di Cristo“. Questo perché gli angeli dimorano “nello stato perfetto al quale tendono i veri cristiani: una intera sottomissione a Dio in pensiero ed in azione che fa la loro felicità; la volontà di fondo e radicalmente prigioniera di quella di Dio, è la pienezza della loro gioia e della loro vita per sempre”. Quali non devono essere la deferenza ed il rispetto quando si entra in una chiesa, poiché essa è il posto in cui Dio è presente, e “gli angeli tutto intorno, che vanno e vengono”. L’angelo custode Il “realismo della fede” inclina soprattutto Newman ad insistere sul servizio di assistenza morale e di sostegno spirituale, reso dagli angeli presso quelli che sono fedeli al Vangelo: “I santi angeli sono là, presenti. Quando noi preghiamo, essi sono come dei custodi vicino a noi, quando simpatizzano coi nostri bisogni, quando si uniscono a noi per la lode”. E’ lo stesso realismo che conduce Newman ad evocare la presenza dell’angelo custode. Ancora timido al tempo di Oxford, questa prenderà la sua dimensione spirituale dopo la conversione a Roma. Che un dialogo segreto si sia snodato tra l’oratore di Birmingham ed il suo angelo custode, noi ne abbiamo un indizio in una lettera indirizzata al suo vescovo alla fine della sua vita in cui egli dice la sua emozione nel rivedere Oxford ed il suo vecchio collegio di Trinità che l’ha eletto fellow onorario: “Rivedere prima di morire il posto in cui ho iniziato la lotta della mia vita, col mio buon angelo a fianco, è una prospettiva quasi troppo dura da sopportare”. Il Sogno di Geronzio Come, infine, su questo tema dell’angelo custode, negligere il celebre poema, Il Sogno di Geronzio che, nell’ultimo passaggio della morte, fa dell’angelo l’iniziatore e la guida verso l’eternità. Con questa evocazione degli angeli, la predicazione scava, oltre che la sua verità, tutta una parte del suo fascino e della sua seduzione. Chi resisterebbe alla bellezza di taluni quadri che schizzano la presenza ed il movimento degli angeli intorno al Trono celeste?
fonte: Aleteia

giovedì 14 gennaio 2021

A qualunque costo

“Vi sorregga il cuore, la voce del povero, che ha sempre ragione: non vi seduca la voce della popolarità ‘a qualunque costo’.

‘A qualunque costo’ c’è soltanto il proprio dovere”.

(don Primo Mazzolari, Parole ai politici, La Locusta, Vicenza).

venerdì 1 gennaio 2021

2021: si comincia con Francesco Guccini

 Francesco Guccini, qual è il suo primo ricordo?

«Un pacco di fichi secchi arrivato dalla Grecia. Me lo mandava mio padre Ferruccio, soldato della seconda guerra mondiale».

Lei è nato quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra del Duce.

«Il babbo aveva già combattuto in Africa nel 1935. Fu subito richiamato. Dopo l’8 settembre venne fatto prigioniero a Corinto e portato in campo di concentramento: prima a Leopoli, poi ad Amburgo. Con lui c’erano Giovanni Guareschi e Gianrico Tedeschi, l’attore. Rifiutarono di combattere per i nazisti; ma della prigionia mio padre non parlava mai. Tornò nell’agosto del 1945».

Come fu il vostro incontro?

«Prima arrivò una cartolina da Milano, con la foto di una fontana. La ritagliai, mi diedero un sacco di botte. C’era scritto: “Sono un commilitone di Guccini, mi incarica di dirvi che sta rientrando a casa”. Era una domenica, ero con mia madre Ester alla messa delle 11, qui a Pavana, quando entrò in chiesa la prozia Rina, la moglie del prozio Enrico, con il grembiule, gridando: “Sta arrivando Ferruccio!”. Me lo vidi davanti con lo zaino e la divisa».

Cosa fece suo padre per prima cosa?

«Si spogliò e si gettò nel bottaccio, il serbatoio d’acqua del mulino. Gli chiesi: “Babbo, mi insegni a nuotare?”. Lui mi buttò in acqua. Rischiai di affogare».

Non la abbracciò?

«Mio padre non mi ha mai abbracciato in vita sua. Ogni tanto in tv vedo persone che si lamentano: “Ho avuto una famiglia anaffettiva, da bambino mi facevano pochi regali…”. Io non ho mai avuto regali. Non ho mai festeggiato il mio compleanno. Guai se lasciavo qualcosa nel piatto: il babbo era stato in campo di concentramento, il cibo era sacro».

Un regalo di Natale suo padre gliel’avrà pur fatto…

«Una volta mi regalò “Senza famiglia” di Hector Malot: libro di una tristezza allucinante. Un venditore ambulante l’aveva convinto a comprarlo. Un altro Natale mi passò un rasoio elettrico con cui non si trovava bene».

Un rasoio? A Guccini?

«Fino a trent’anni non portavo la barba. Mi feci crescere barba e capelli quando tornai dall’America, ma non per motivi politici. Non era la contestazione, era una delusione d’amore».

E sua mamma cosa le regalava?

«Mia mamma non mi ha mai regalato niente».

Il prozio è quello della canzone “Amerigo”, che andò negli Stati Uniti?

«Lui. In America si iscrisse al circolo socialista Giordano Bruno. Era il fratello giovane di mio nonno Pietro. Lo ricordo biascicare un po’ di inglese».

Portava “un cinto d’ernia che sembrava la fondina per la pistola…”.

«Si era rovinato la schiena in miniera, ma per me era un eroe del Far West, come quelli dei film. A Pavana c’era il cinema. E in pochi chilometri c’erano cinque sale da ballo: liscio, ma anche boogie-woogie e ritmi latini, samba e rumba. Erano passati gli americani, e pure i soldati brasiliani. Dopo la guerra c’era una voglia di ballare che faceva luce. Un po’ come adesso, che la gente sta esplodendo per uscire di casa e andare da tutte le parti».

Della guerra cosa ricorda?

«La linea gotica passava subito a Nord di Pavana. Gli americani avevano messo le tende attorno al mulino dei nonni. Avevano quattro carri armati: sparavano ogni giorno a orari regolari, pareva che i carristi andassero in ufficio. Io ero sempre in mezzo a loro: è evidente che mi mancava il padre. Canticchiavo le prime canzoni: Lay that pistol down, che pronunciavo leichepistoldà: l’ho risentita in un film di Woody Allen, Radio days. In cambio mi diedero i gradi da sergente e il cioccolato, che mangiavo di nascosto in riva al fiume, che era in realtà un torrente, il Limentra. E mi fecero assaggiare una bevanda scura, misteriosa, buonissima: la coca-cola. Un mondo radicalmente diverso da quello dei tedeschi».

Ricorda anche loro?

«Vagamente. Due dormivano nell’androne del mulino, sotto un tavolo. Avevano sempre una fame terribile, razziavano tutto, pretendevano frittate gigantesche da venti uova. In casa avevamo un maialino: riuscimmo a sottrarglielo e a nasconderlo in una casetta. Una mattina fummo svegliati da un’altra pattuglia tedesca. Tememmo per il maialino; invece cercavano i prigionieri russi che erano scappati. Uno era finito nel campo di granturco dei nonni: ferito a una gamba, fu caricato in una gorgola, enorme paniere per il trasporto del fieno, e condotto in una capanna, dove lo recuperarono i partigiani».

E il maialino?

«Fu sacrificato per nobili scopi».

Suo padre era toscano di Pavana, sua madre emiliana di Carpi. Come si incontrarono?

«Mio padre aveva vinto un concorso alle Poste di Modena. Mamma aveva tre fratelli e tre sorelle. Un suo collega, zio Walter, era fidanzato con una di loro, e disse al babbo: vieni a Carpi con me, ci sono un mucchio di donne. Arrivarono in bicicletta. Ricordo quando andavamo a trovare i nonni, che parlavano solo dialetto emiliano: mio padre restava in disparte. Tutti pensavano che fosse serio, severo; in realtà non capiva una parola. Un po’ serio però lo era. Dava del voi a sua mamma».

I partigiani come li ricorda?

«C’era di tutto. Un’amica mi mostrò il tavolo bucherellato dai proiettili con cui una banda di irregolari aveva ucciso suo padre, comandante partigiano: arrivarono, bloccarono il paese, Gaggio Montano, assediarono la caserma dei carabinieri, spararono. Fu una guerra civile, ne accaddero di tutti i colori. Intendiamoci: io ho sempre tifato per i partigiani, preferivo i libri di Bocca a quelli di Pansa; però ho sempre approfondito anche le testimonianze dell’altro fronte, ho letto i libri di Pisanò».

L’hanno criticata per la sua versione di Bella ciao, in cui si augura che i partigiani portino via Salvini, Berlusconi e la Meloni. Che le ha risposto: dove ci vorrebbe portare Guccini?

«Hanno la coda di paglia: subito hanno pensato a piazzale Loreto. Ma io non avevo intenzioni malevole. Mi basta mandare Salvini al mare con il mojito, e restituire Berlusconi alle sue tv e alle sue fidanzate. Nel frattempo la Meloni potrebbe spezzare le reni alla Grecia».

Lei cosa vota?

«Pd».

E prima?

«Partito socialista».

Non Pci?

«Non sono mai stato comunista. Tutti credono che lo sia; ma non è vero. Anche Igor Taruffi, il consigliere regionale di Liberi e Uguali cui ho dato due volte l’endorsement, era convinto che fossi comunista; quando gli ho rivelato la verità ci è rimasto malissimo. Mi viene da dire, come a quei razzisti che sostengono di avere molti amici di colore, che ho molti amici comunisti. Ma lo stalinismo non poteva piacere a uno come me: libertario, azionista. I miei eroi sono i fratelli Rosselli e Duccio Galimberti, che in realtà si chiamava Tancredi: Tancreduccio. Semmai, lo dico con grande ritegno, mi sentivo anarcoide. Avvertivo il fascino dell’anarchia, dal punto di vista romantico più che reale».

E scrisse la Locomotiva.

«Una suggestione letteraria, non politica».

Ma ha composto anche una ballata per Che Guevara.

«Appunto. Il ribelle che lascia la Cuba di Castro e il potere per continuare a combattere. In Mozambico, in Bolivia, dove lo ammazzarono. Ma se avessi discusso con il Che, non ci saremmo trovati d’accordo. Tra l’altro è nato il 14 giugno. Come me e come, purtroppo, anche Trump».

Mai un corteo, mai uno scontro con la polizia?

«Nel ’68 avevo 28 anni, ero già grande. Un corteo l’ho fatto ad Amsterdam. Partii con un amico per andare a conoscere i provos, che ci portarono a una manifestazione non autorizzata contro la guerra del Vietnam. Ci spiegarono che la polizia li avrebbe attaccati, e quindi sarebbe stato un grande successo. Avevo una chitarra, un giornalista mi chiese chi fossi, cominciai a suonare una canzone di Bob Dylan. Poi la polizia arrivò davvero. E ci caricò. Mi misi in salvo».

E adesso? Conte come lo trova?

«Non mi dispiace».

Con i 5 Stelle però lei è stato critico.

«Abbastanza. Mi sono sempre sembrati integralisti: troppo convinti delle proprie idee, troppo pronti a mandare gli altri sul rogo. Forse ora stanno cambiando. Io sono per il dubbio, non per la certezza. Tendo a farmi domande; diffido di chi coltiva sicurezze ferree, immarcescibili, a volte violente».

Ha conosciuto il Papa.

«Mi ha portato da lui il cardinale Zuppi, un grande personaggio. Francesco mi piace. Gli ho recitato la prima strofa di Martin Fierro, il poema nazionale argentino. Avrà pensato che fossi pazzo».

Quando comincia la musica?

«All’inizio dell’estate 1957. Il padre di un nostro amico, Pier Farri, possedeva due cinema a Modena e ogni tanto, preso da improvvisa generosità, ci invitava. Vedemmo un film dove una band suonava in un campo scout femminile: cinque ragazzi e tremila ragazze. All’uscita ci dicemmo: mettiamo su un complesso pure noi. Victor Sogliani, il futuro fondatore dell’Equipe 84, scelse il sax, che non aveva mai suonato in vita sua. Un altro affittò un contrabbasso. Pier, che era il più dovizioso di denaro, volle la batteria. Io comprai una chitarra con le 5 mila lire che mi passò mia nonna Amabilia».

La sapeva suonare?

«Imparai da solo. Me l’aveva costruita Celestino, un falegname di Porretta Terme, che mi aveva dato anche un quadernetto con i pallini che mostravano dove mettere le dita per gli accordi. Ero felicissimo: alla fine di quel pomeriggio sapevo già accompagnare due canzoni. Celestino poi emigrò in Olanda. Ora vive in Romagna, ogni tanto ci sentiamo».

Ha fatto il magistero per lo stesso motivo, le ragazze?

«Ma no. Era il liceo dei poveri. E durava un anno in meno: così avrei potuto lavorare prima. Purtroppo ho grandi lacune. Ho anche dato tutti gli esami all’università, ma non mi sono mai laureato: ho preferito suonare e gozzovigliare».

Quale fu il primo lavoro?

«Istitutore al collegio Villa Marina di Pesaro per orfani di post-telegrafonici. Un camerone enorme, un paravento, un letticciuolo. Una tristezza. E poi non amo il mare d’estate; figurarsi d’inverno. Per fortuna dopo due mesi e mezzo mi cacciarono».

E divenne giornalista.

«Due anni alla Gazzetta di Modena. Sognavo di fare lo scrittore. Un collega, un certo Cavicchioli, aveva pubblicato un romanzo, “Il volo del tacchino”: lo invidiavo moltissimo».

E’ vero che intervistò Modugno?

«Me ne vergogno ancora adesso. Ero giovane e saputello: lo attaccai; feci, come dicono a Bologna, lo sborone. Non pensavo affatto che la musica potesse essere il mio mestiere. Me ne andai perché mi pagavano poco: 20 mila lire al mese, lavorando tutti i giorni; e quando feci le prime due settimane di vacanze, mi dimezzarono lo stipendio. Guadagnavo molto di più sotto le armi».

Dove ha fatto il militare?

«Sottotenente a Trieste: 90 mila lire al mese, che mandavo per metà a casa, più 5 mila di indennità di frontiera. L’atmosfera era pesante. La notte gli sciavi, gli sloveni, scrivevano il nome di Tito sui muri della caserma».

Nel 1967 Caterina Caselli la fece esordire in tv.

«La Caselli era capitata a Porretta Terme subito dopo il successo di Sanremo. Qualcuno le disse che c’era un ragazzo che scriveva canzoni. Ascoltò Per fare un uomo, che poi ha cantato lei, e Auschwitz, che mi fece portare in tv. L’altro presentatore della trasmissione era Giorgio Gaber, che aveva invitato un ragazzo di Catania: Francesco Battiato. Non si chiamava ancora Franco».

Siete diventati amici?

«Con Gaber sì. Quando veniva a Bologna dopo lo spettacolo andavamo insieme da Vito. Non mi è piaciuto però che abbia scritto “la mia generazione ha perso”. Ha perso la generazione di mio padre, che si è fatto due guerre. Noi siamo figli del boom: abbiamo potuto studiare, siamo riusciti a fare quello che volevamo. Gaber era un ragioniere ed è diventato Gaber, io sono un maestro elementare…».

E Battiato?

Lo ritrovai al Club Tenco: era un barzellettaro formidabile. Come Bruno Lauzi. Io adoro le barzellette; ma ora non ce ne sono quasi più. Una delle migliori del mio repertorio me l’ha raccontata Baglioni. Anche se lui nega, perché si vergogna».

Quale barzelletta?

«E’ troppo lunga…».

Non può non raccontare la barzelletta di Baglioni.

«Sia; ma l’ha voluto lei. Va detta con l’accento toscano».

Vada per l’accento toscano.

«Favola morale di La Fontaine: la formica e la cicala. Tutte le formicoline lavorano nei campi, mentre le cicale cantano felici. Babbo formicolone ammonisce la su’ figliola: tu lascia che la canti; verrà l’inverno, la cicala ti chiederà il cibo, e tu niente: oh bischera, tu mangi quello che hai cantato! Viene l’inverno, e le formiche continuano a lavorare, tutte sudate, a riporre i fili d’erba, le molliche di pane. Finalmente ecco la cicala, di certo venuta a mendicare. La formicola si prepara la risposta – oh bischera, tu mangi quello che hai cantato! -; ma in realtà la cicala è venuta a salutare, tutta abbronzata e impellicciata. Con il canto ha fatto un mucchio di quattrini: il suo disco è primo in hit-parade, e lei è in partenza per le Hawaii; prima però farà tappa a Parigi. Al che la formicola le fa: oh cicala, se a Parigi trovi un certo La Fontaine, lo mandi affanculo a nome mio?».

Insospettabile Baglioni… Con De André invece che rapporto avevate?

Normale. Rispetto reciproco. Sono stato molto amico di Claudio Lolli, lui sì comunista convinto. Grande poeta, grandissimo autore di canzoni, meglio di me. Ha avuto la sfortuna di non riuscire ad accattivarsi il pubblico».

Anche con Dalla eravate amici?

«No, non sono mai stato veramente amico di Lucio. Vedevamo la vita in modo troppo diverso. Lui era molto cittadino, io abbastanza montanaro. Mi chiedeva: ma cosa fai tutto il giorno in montagna? E io gli rispondevo: niente. In realtà facevo un sacco di cose: camminavo, andavo a funghi… In città tiravo le 4 del mattino a giocare a carte. Mai d’azzardo, non si vinceva neppure un caffè. Briscola, tresette, scopone scientifico. E poi un gioco bellissimo e dimenticato, il tarocchino bolognese, che stiamo cercando di mantenere in vita, fondando una scuola… Però sulla barca di Dalla, a Capri, sono diventato amico di Zucchero».

Cosa ci faceva a Capri?

«Avevo cantato una canzone la sera prima. Andai sulla barca di Lucio a mangiare gli spaghetti, e c’era Zucchero, che componeva il suo disco. Lui ama comporre in luoghi esotici: Cuba, l’America. Io scrivevo a Bologna o a Pavana nel mulino dei nonni».

Ligabue?

«Non ci conoscevamo, mi chiamò lui per farmi recitare in Radiofreccia».

Vasco?

«Una sera capitò da Vito, per dirmi che era entusiasta dell’Avvelenata».

E lei?

«Io detesto l’Avvelenata. Una canzoncina. Non capisco perché abbia avuto tutto questo successo, mentre una canzone come Odysseus, che è ottocento volte meglio, ne ha avuto molto meno».

Odysseus è bellissima. Un Ulisse dantesco.

«Un mito letterario, un viaggio magico e misterioso, carico di simboli, di ritorni affascinanti, di personaggi incredibili. E’ una canzone sottovalutata. Composta in due giorni, anzi due pomeriggi».

In Gulliver invece lei scrive che “da tempo e mare non si impara niente”.

«Tutto quell’album, che si intitola Guccini, è dedicato all’inutilità di viaggiare. Ho un’amica che è stata in tutti i Paesi, ha anche piantato una bandierina sulla mappa; ma in ognuno è rimasta tre giorni. I veri viaggiatori erano i nobili inglesi del Grand Tour, o gli emigranti: gente che non sapeva quando e se tornava. Gli altri sono turisti continui».

Nello stesso album c’è un’altra canzone di culto, Argentina.

«Argentina è il racconto di un déjà-vu. Mi pareva di esserci già stato. Vedevo strade già conosciute, bar già frequentati. In qualcuno forse ero già entrato davvero. Non penso ad altre vite, ma a impressioni letterarie fugaci. Con Raffaella, mia moglie, abbiamo fatto anche un corso di tango».

La storia struggente di Scirocco è vera?

«Sì. E’ la storia di un amico poeta, da me soprannominato Baudelaire. Non riuscendo a decidere tra la sposa e la fidanzata, fu lasciato da entrambe. Se si fosse messo con quella nuova, forse sarebbe stato felice i primi tempi, ma poi avrebbe litigato. Meglio svanire nel ricordo. Meglio una cosa mai avvenuta, di una cosa che avviene e poi ti delude. Come Gozzano: le rose che non colsi. Le storie non finite, non concluse, conservano un sapore particolare. Se si fossero sviluppate magari sarebbero finite male; o in ogni caso sarebbero finite».

Qual è la delusione d’amore per cui si fece crescere la barba?

«Lasciai in Italia Roberta, la ragazza che sarebbe diventata la mia prima moglie, e fuggii in America con una mia allieva del Dickinson College di Bologna, Eloise».

E’ la vicenda di 100 Pennsylvania Avenue?

«Sì. Finì malissimo: l’italiano non era piaciuto. Fui processato dall’intera famiglia, con la madre che mi urlava: “I hate you”, ti odio!, ed Eloise che le rispondeva: “But I love him”, ma io lo amo!».

Anche “Il pensionato” è esistito davvero?

«Abitava accanto a me: io al 43 di via Paolo Fabbri, lui al 41. A casa sua, infilata in una vetrinetta, vidi una busta con la scritta: da aprire solo in caso di mia morte. La cosa mi colpì».

«E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena/ soltanto un’impressione che ricorderemo appena…».

«Un idraulico per scherzo fece la spia alla famiglia che abitava al numero 45. Una mattina presto vennero a bussare: “Sappiamo che farà una canzone sui vicini di casa. Noi preferiremmo non comparire…”».

Sul web c’è davvero la “foto sul pallaio” di lei e Cencio vicini: il nano con cui giocava a bocce.

«In realtà si chiamava Vincenzo, detto Cengio. Nella canzone divenne Cencio. Ci siamo persi di vista. Chissà se è ancora vivo. Lo spero, ma di solito i nani non vivono a lungo».

«In morte di S.F.» divenne «Canzone per un’amica». Chi è S.F.?

«Silvana Fontana, morta in un incidente stradale accanto al fidanzato, che si salvò: l’ho rivisto qualche anno fa. La notizia mi addolorò e scrissi la canzone in mezz’ora, con un errore di cui ancora mi vergogno: “Se presto hai dovuto partire”, invece di “sei dovuta partire”».

La ascolto da quarant’anni e non me n’ero mai accorto. Culodritto invece è la canzone dedicata a sua figlia, Teresa.

«Mi commuove cantarla. Ora con mia figlia il rapporto si è un po’ raffreddato».

Com’è la vita a ottant’anni?

«A volte non me li sento. Non sto male. Certo, ho perso agilità. Ma, a pensarci, quando mai sono stato agile? Purtroppo mi è andata via la vista, non riesco più a leggere libri. Li ascolto. Però l’audiolibro è un surrogato. Mi manca la carta: sottolineare, prendere appunti».

Come ha passato questi mesi?

«Come al solito: ho scritto, ho guardato la tv con Raffaella. Ci hanno fatto compagnia i nostri tre gatti, in particolare Bianchina, la trovatella cui avevano tagliato le orecchie. Mi è mancato uscire a cena con mia moglie, con gli amici. Ma ora si ricomincia».

In una canzone lei immagina di essere assunto in cielo con i suoi amici veri. Crede nell’aldilà?

«No. E’ un mio sogno panteistico. Ma i sogni non sono destinati tutti ad avverarsi; anche se mi piacerebbe tanto rivedere nonna Amabilia, nonno Pietro che morì quando avevo tredici anni, il prozio Enrico che morì quando ne avevo ventitré: ero militare e non mi diedero la licenza. E mio padre e mia madre».

La morte le fa paura?

«Adesso un po’ sì. L’uomo è l’unico animale che sa di dover morire; ma da giovane è convinto di essere immortale. A ottant’anni però comincia ad avere qualche dubbio».

fonte: Aldo Cazzullo per Corriere della Sera 

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