domenica 13 giugno 2021

Un cattolico liberale

Sassari, 24/09/2020

Rivolgo un saluto molto cordiale a tutti i presenti, al Presidente della Regione, al Sindaco e, attraverso di lui, a tutti i suoi concittadini.

Al Magnifico Rettore un saluto e un ringraziamento per l’accoglienza, pregandolo di trasmettere al Corpo docente, agli studenti e al personale tecnico-amministrativo il saluto e gli auguri che non mi è stato possibile recare direttamente in occasione dell’apertura dell’Anno accademico.

Ricordare Francesco Cossiga nell’Università che lo vide studente e poi brillantissimo e apprezzato docente è un omaggio alle sue radici, umane e intellettuali, e allo spessore con cui si è reso protagonista della vita politica e istituzionale del nostro Paese nell’arco di mezzo secolo.

Al tempo stesso è un tributo a questo Ateneo – che vive il suo quinto secolo, e lo vive bene, verso il futuro - il solo tra gli atenei d’Italia ad aver avuto nel proprio corpo docente due presidenti della Repubblica, Francesco Cossiga e Antonio Segni, che è stato - come abbiamo ascoltato e come sapevamo – Magnifico Rettore di questo Ateneo.

Desidero ricordare anche che questa Università ha avuto tra i suoi docenti tre Presidenti della Corte Costituzionale e un Premio Nobel.

Il legame tra Cossiga, Sassari e la Sardegna è sempre stato forte e profondo, andando ben oltre la pur rilevante dimensione familiare e affettiva.

Del rilievo di queste origini il presidente Cossiga ha sempre parlato come di un insieme di valori etici e culturali, del retaggio di una comunità capace di tenere insieme ruvidità nel linguaggio e pudore nei sentimenti, contrasto nelle idee e amicizia tra le persone.

La famiglia, inserita in una ampia e feconda rete di relazioni nella società sassarese, è stata per lui anche la palestra dove ha potuto coltivare, sin da giovane, la passione politica. Palestra nella quale si è allenato al pluralismo, al confronto, alla laicità delle scelte e dove, ha poi sottolineato lo stesso presidente Cossiga, “l’antifascismo era un fatto discriminante non solo dal punto di visto politico ma morale”.

È in questo ambiente che ha sviluppato quella “sensibilità per l’unità delle forze democratiche”, che nel tempo si è affermata come tratto qualificante del suo impegno politico.

Francesco Cossiga si iscrisse alla Democrazia Cristiana nel 1945, quando aveva appena 16 anni.

Volle notare, nel suo discorso di insediamento come Capo dello Stato, di essere il primo Presidente a non appartenere “alla generazione di coloro che meritatamente si possono definire padri della Patria, cioè a quegli uomini che hanno lottato per la libertà, per l’indipendenza e per la democrazia dell’Italia e che hanno contribuito in questo segno alla nascita della Costituzione repubblicana”.

Fu nel crogiuolo di idealità e speranze del dopoguerra, alimentate dalla libertà appena riconquistata e dalla responsabilità che si avvertiva nei confronti della rinata democrazia, che Cossiga formò il suo pensiero e cominciò a prendere parte al confronto pubblico.

Agli studi di diritto si affiancarono, già in età giovanile, le letture di Jacques Maritain e Antonio Rosmini, di Tommaso Moro e Gabriel-Honoré Marcel. Sentiva di voler misurare la sua fede cristiana nella costruzione di una società libera, democratica e pluralista e la Fuci fu anche per lui, come per altri prestigiosi dirigenti della Dc, una scuola di umanesimo, in cui il sapere teologico – da Sant’Agostino a San Tommaso – veniva portato al confronto con la modernità incalzante di una società che usciva dalla guerra e desiderava dare solidità a un percorso di sviluppo civile.

Al principio di laicità dello Stato Cossiga è rimasto sempre fedele. Nel suo dichiararsi “cattolico liberale” c’era un ossequio, un rispetto per la casa comune e per la sovranità delle istituzioni della Repubblica, che non concedeva spazio a tentazioni confessionali o integralismi di sorta.

Convincimenti che approfondiva volentieri anche attraverso gli amati classici del diritto e della filosofia anglosassone, ragioni non secondarie della sua capacità di dialogo, nel partito in cui militava e con personalità di partiti avversari.

Laureatosi giovanissimo in giurisprudenza, mentre cominciava a inoltrarsi nell’impegno politico a partire dalla realtà cittadina, Francesco Cossiga intraprese la carriera accademica come docente di diritto costituzionale, avendo come maestro Giuseppe Guarino.

Grande attenzione manifestò, nel suo primo lavoro pubblicato nel 1950, al tema dell’autonomia regionale e alla pari dignità di ogni assemblea legislativa, fosse essa il Parlamento nazionale o i Consigli regionali.

È stato osservato come, già in questi scritti, emergesse in Cossiga un’idea di Costituzione fondata su presupposti di valore che ne orientavano l’attuazione e l’interpretazione.

In un saggio del 1951, dedicato al diritto di petizione, il professor Cossiga sottolineava la necessità del contributo della partecipazione attiva dei cittadini alla costante rigenerazione democratica, necessaria per consolidare i principi della Carta: “La caratteristica peculiare degli ordinamenti democratici – scriveva infatti Cossiga – prima e più ancora che da una organizzazione formale degli organi costituzionali, è data da una effettiva partecipazione della base popolare alla vita dello Stato”.

Una tensione che dal giovane studioso si è poi trasmessa nell’azione all’uomo di Stato e di cui troviamo traccia anche nella dichiarata aspirazione, all’atto del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica, di essere espressione della gente comune.

Francesco Cossiga bruciò i tempi anche in politica, assumendo dal ’56 la responsabilità della guida provinciale del suo partito, insieme a un gruppo che promosse a Sassari un cambio generazionale e che prese il nome, provocatorio, di “giovani turchi”.

A dire il vero, Cossiga spiegò in seguito come la provocazione fosse in realtà un’ironia e una sfida che il gruppo rivolgeva a se stesso, “una sofisticheria intellettuale un po’ velenosa per ricordare ai giovani congiurati sardi che, tornato al potere, il sultano turco aveva decapitato tutti gli ufficiali ribelli senza pietà”.

Cossiga fu eletto per la prima volta deputato nel 1958, a trent’anni. Idealità e pragmatismo, fedeltà ai principi e attenzione alla concretezza della vita sociale divennero i parametri del suo lavoro parlamentare e della sua militanza politica.

A questa scuola si formava la classe dirigente di governo: nel confronto talvolta aspro sui principi ma sempre orientato a composizioni – sul piano delle norme come su quello dei riflessi sociali - capaci di evitare conflitti laceranti e di sospingere il Paese sulla strada della stabilità e di un maggior benessere.

Dirà Francesco Cossiga il giorno del giuramento come Presidente della Repubblica, citando Elias Canetti: “Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano”. E questa fu la sua chiosa personale: “Sotto le motivazioni ingannevoli di avventurose spedizioni intellettuali in terre remote, spesso si nasconde il tentativo ‘di evitare quanto ci sta dappresso’, l’incapacità di volgerci a quanto vi è di più vicino a noi e di più concreto”.

L’alleanza atlantica e la scelta europea furono pilastri nelle convinzioni di Cossiga e del suo impegno, anche istituzionale. In questo si può cogliere quella saldatura tra ideale e reale, tra progettualità e concretezza, che ha caratterizzato il profilo dell’uomo politico Cossiga come, del resto, le parti più qualificate della sua generazione di governo.

La sua prima esperienza nell’esecutivo cominciò nel 1966, come sottosegretario alla Difesa, e da subito gli vennero affidati incarichi particolarmente delicati.

I problemi aperti dalla vicenda del “Piano Solo” lo videro impegnato nella promozione di un rinnovamento della struttura stessa dei Servizi di informazione e sicurezza, in coerenza con l’ordinamento democratico del Paese.

Del processo di riforma dei Servizi, sollecitato anche dal Parlamento, Cossiga fu indubbiamente tra i maggiori artefici.

Esperienze e competenze che rafforzarono in Cossiga la convinzione che le questioni di sicurezza nazionale non fossero di ordine puramente interno, bensì anche temi cruciali dell’azione di governo e della sua politica estera.

L’atlantismo di Cossiga restò un punto fermo, anche nel suo tenace europeismo.

La convergenza sulla politica estera tra i partiti costruttori della Costituzione era ancora di là da venire negli anni Settanta, eppure Cossiga continuò a esprimere una propensione al confronto sia verso i partiti laici e socialisti, alleati della Dc, sia rispetto all’oppositore Partito comunista.

Nel 1976, il suo dialogo, da Ministro dell’Interno, con il gruppo dirigente del Pci divenne uno degli snodi più importanti della collaborazione nella maggioranza di solidarietà nazionale.

Una relazione che, pur tra robuste differenze che persistevano, favorì in misura significativa quell’unità di popolo, indubbiamente decisiva per la vittoria sul terrorismo.

Cossiga assolse al suo mandato al Viminale in un clima di violenza che aveva superato il livello di guardia.

La minaccia brigatista puntava a condizionare, a impedire, il regolare svolgimento dei processi ai terroristi. L’aggressione colpiva magistrati, uomini delle forze dell’ordine, giovani, giornalisti, dirigenti.

Cossiga fronteggiò l’attacco alla Repubblica e difese le istituzioni democratiche con il consenso del Parlamento, nel rispetto dello Stato di diritto e cercando di preservare, come bene indispensabile, l’unità delle forze democratiche nella lotta al terrore e all’eversione.

Il ricorso a norme e a strumenti nuovi restò sempre iscritto nel solco della difesa dei valori e dell’ordine costituzionale. E il contrasto alle vulgate insurrezionaliste, così come alla inaccettabile predicazione equidistante di fautori del “né con lo Stato, né con le Br”, fu da parte di Cossiga sempre netto e scevro da ipocrisie e opportunismi.

Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, con la strage degli uomini di scorta, fu un colpo tremendo e uno spartiacque nella sua vita. Come fu uno spartiacque nella storia della Repubblica.

Il Ministro Cossiga si adoperò per la liberazione di Moro, suo amico e punto di riferimento politico, ma gli sforzi non giunsero al risultato sperato e la sofferenza fu acuita da quel susseguirsi di lettere di cui ebbe a riconoscere tratti di autenticità.

Al momento del ritrovamento del corpo dello statista assassinato dette esecuzione al suo proposito di dimissioni, “assumendosi la piena responsabilità politica dell’operato del dicastero”.

Tenne comunque a precisare: “Sono in coscienza convinto di non essermi fatto guidare nella mia azione di governo da nient’altro che non fosse l’interesse dello Stato ed il bene della comunità civile”.

Cossiga restò lontano da ogni incarico pubblico per poco più di un anno. Fu richiamato dal Presidente Pertini, come Presidente del Consiglio, per risolvere la difficile crisi di inizio legislatura nel 1979.

Anche quella fu una stagione di profondi cambiamenti geopolitici: l’occupazione dell’ambasciata statunitense a Teheran fece seguito alla rivoluzione iraniana; l’Urss decise l’invasione dell’Afghanistan; in ambito internazionale si aprì un ciclo neo-liberale che avrebbe dispiegato i suoi effetti nel processo di globalizzazione.

Il governo Cossiga, che - dopo la chiusura dell’esperienza della solidarietà nazionale - si muoveva verso una ricomposizione dell’alleanza tra la Dc, il Psi e i partiti laici, si trovò di fronte a una scelta rilevante, conseguente alla rinnovata competizione Est-Ovest sugli armamenti.

La decisione sovietica di procedere alla installazione di nuovi missili a corto raggio in Cecoslovacchia e Germania dell’Est aveva suscitato forti preoccupazioni in alcuni governi occidentali, per la possibilità del divampare di un conflitto con armi nucleari limitato al teatro europeo, creando così un potenziale sganciamento in ambito Nato tra difesa statunitense e difesa degli alleati europei. Una preoccupazione particolarmente avvertita dai governi di Paesi come la Repubblica Federale Tedesca e quelli del Benelux che si sentivano più direttamente minacciati.

In sede di Alleanza Atlantica si decise per una risposta collegiale di cui l’Italia si rese co-protagonista, decidendo di ospitare - nella base di Comiso - unitamente alla Germania Federale, al Belgio e ai Paesi Bassi, i missili Cruise, mentre i Pershing2 furono destinati in Gran Bretagna.

Un atto di volontà che contribuì, unitamente all’impegno italiano nell’ambito della missione Onu in Libano, a profilare l’Italia repubblicana come capace di assumere responsabilità geostrategiche di rilievo.

Una scelta, quella del governo guidato da Francesco Cossiga che consolidò, fra l’altro, l’amicizia con il cancelliere Helmut Schmidt e il rapporto italo-tedesco, e ribadì il valore strategico di scelte comuni di deterrenza in ambito europeo.

La questione tedesca fu sempre presente al leader sardo che si spese in favore della riunificazione delle due Germanie e questo gli venne riconosciuto nella solenne occasione della cerimonia ufficiale per la riunificazione tedesca, il 3 ottobre 1990: il Presidente della Repubblica italiana fu, infatti, il Capo di Stato straniero invitato nell’occasione.

Nel 1983 Francesco Cossiga che, con il suo secondo governo, aveva ripreso il dialogo con il Partito Socialista, venne eletto Presidente del Senato con una larghissima maggioranza.

Alla guida di Palazzo Madama, Cossiga si fece apprezzare per solidità e imparzialità.

Questa fu premessa all’elezione a Presidente della Repubblica, il 24 giugno 1985, che avvenne al primo scrutinio – cui posso ricordare di aver personalmente partecipato - con il consenso di oltre tre quarti dei grandi elettori, espressione di volontà unitaria nel sostenere la Presidenza della Repubblica come presidio di coesione del Paese attorno ai valori della Costituzione.

Alla metà degli anni Ottanta, pur con un ciclo economico espansivo, si affacciavano interrogativi sulla modernità del sistema politico e istituzionale, con tensioni crescenti nel rapporto con la società civile.

Il Presidente Cossiga visse dal Quirinale una stagione di intensi fermenti e di grandi mutamenti, che interessarono la valenza stessa della politica, la fiducia nelle istituzioni, le funzioni della rappresentanza, i limiti del potere.

La caduta del Muro di Berlino, nel 1989, simboleggiò la modifica degli equilibri dell’Europa e del mondo, chiudendo il lungo dopoguerra e aprendo la porta alla società globale.

Cossiga colse con acuta sensibilità che caduta del Muro e fine della potenza sovietica avrebbero avuto conseguenze anche sulla vita politica del nostro Paese, mettendo in discussione non solo i vecchi equilibri ma anche le rendite di posizione di chi supponeva di riceverne vantaggio in quanto estraneo all’ideologia sconfitta.

La fine dell’equilibrio di Yalta, a giudizio del Presidente, non poteva non riflettersi sul sistema politico italiano.

Secondo la testimonianza di uno dei suoi più stretti collaboratori - Ludovico Ortona - Cossiga non gradiva il ruolo di Presidente notaio ma, ancor meno, aspirava a quello di Presidente “imperatore”.

Si riassume in questo la ricerca e la evoluzione dei rilievi che, dapprima in modo assolutamente misurato e, via via, in modo più vivace, rivolse sulla questione che animava anche il dibattito tra le forze politiche: quella di una stagione di riforme istituzionali.

Il Presidente partiva dalla considerazione che nuocesse al Paese una visione che giudicasse le istituzioni esistenti fragili perché in attesa di riforma, richiamando al rispetto di una indeclinabile finalità: “Le riforme istituzionali - disse nel tradizionale messaggio di fine anno nel 1987 - devono condurre all’obiettivo essenziale di promuovere la crescita della democrazia”.

Un obiettivo che faceva tutt’uno con la “nuova ed esaltante primavera della Repubblica”, da lui auspicata, con quelle parole, in occasione del discorso di insediamento quale Capo dello Stato.

Resta come atto impegnativo il suo messaggio alle Camere sulle riforme costituzionali, che reca la data del 26 giugno 1991.

Ne inviò altri otto, se contiamo il saluto al Parlamento all’atto delle sue dimissioni, annunciate il 25 aprile 1992, per ovviare a quello che, giornalisticamente, venne definito “l’ingorgo istituzionale” per la contestualità dell’insediamento delle Camere dopo le elezioni, della formazione del nuovo governo e, appunto, della vicina elezione del suo successore.

Uno strumento, quello del messaggio ai sensi dell’art. 87 della Costituzione, utilizzato in precedenza una volta dal Presidente Segni nel 1963 e una dal Presidente Leone nel 1975.

Le proposte che il Presidente Cossiga formulò sono un capitolo del lungo percorso di transizione che la nostra Repubblica ha compiuto tra rallentamenti e accelerazioni. Cossiga suggerì, prima delle trasformazioni che hanno riguardato la stessa identità dei partiti storici, una stagione costituente, con ampie riforme della seconda parte della Carta, riaffermando il vincolo morale e civile tra gli italiani e i principi della Costituzione.

Il Presidente Cossiga esercitò le prerogative costituzionali con le qualità che derivavano dalla sua lunga esperienza, e anche con la puntualità di uno studioso del diritto.

Ribadì, con lettera al Presidente del Consiglio incaricato Andreotti, i poteri che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato nella nomina dei ministri e descrisse il vaglio presidenziale come non comprimibile.

Diverse leggi furono rinviate dal Presidente Cossiga e le motivazioni addotte nei relativi messaggi di rinvio alle Camere hanno riguardato diversi profili, suscitando anche vivaci dibattiti tra gli studiosi.

Inaugurò la prassi dei rinvii di leggi di conversione di decreti, trovandosi a operare, del resto, in un contesto in cui, prima della nota sentenza della Consulta contro la prassi di reiterare i decreti legge, la decretazione d’urgenza aveva assunto caratteri abnormi, tali da stravolgere i rapporti tra Governo e Parlamento.

Agli storici del diritto e ai costituzionalisti ha offerto molti spunti e molti materiali per gli studi e per fornire alla vita delle istituzioni quel supporto di teoria e di cultura che è necessario per la sua qualità.

La sua testimonianza civile e politica ha contribuito al patrimonio democratico degli italiani.

Nel discorso di insediamento aveva assunto la gente comune come punto di riferimento per saldare – come disse - passato e futuro, auspicando una nuova solidarietà “per valori non solo personali ma soprattutto comunitari”.

Per avere speranza civile - disse - “c’è bisogno di una giustizia sociale che non sia calata dall’alto ma condivisa e prodotta dai cittadini”. Aggiungendo che “lo sviluppo non si traduce in speranza civile se non si unisce alla capacità di risolvere i due grandi problemi della nostra vita nazionale: la disoccupazione e l’arretratezza delle aree meridionali “.

Parole lungimiranti di un italiano che ha servito il Paese con tutta la forza di cui è stato capace e del quale oggi, a dieci anni dalla scomparsa, onoriamo la memoria.


Sergio Mattarella

 

Il valore dello Stato

 "Io sono un cattolico liberale e resto convinto che lo Stato sia un valore. Moro era un cattolico sociale, di quelli che credono che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile"

Francesco Cossiga

sabato 1 maggio 2021

E voi, diletti figli, amate e abbiate caro Dante

 Diletti figli, salute e Apostolica Benedizione.

Nella illustre schiera dei grandi personaggi, che con la loro fama e la loro gloria hanno onorato il cattolicesimo in tanti settori ma specialmente nelle lettere e nelle belle arti, lasciando immortali frutti del loro ingegno e rendendosi altamente benemeriti della civiltà e della Chiesa, occupa un posto assolutamente particolare Dante Alighieri, della cui morte si celebrerà tra poco il sesto centenario. Mai, forse, come oggi fu posta in tanta luce la singolare grandezza di questo uomo, mentre non solo l’Italia, giustamente orgogliosa di avergli dato i natali, ma tutte le nazioni civili, per mezzo di appositi comitati di dotti, si accingono a solennizzarne la memoria, affinché questo eccelso genio, che è vanto e decoro dell’umanità, venga onorato dal mondo intero.

Noi pertanto, in questo magnifico coro di tanti buoni, non dobbiamo assolutamente mancare, ma presiedervi piuttosto, spettando soprattutto alla Chiesa, che gli fu madre, il diritto di chiamare suo l’Alighieri.

Quindi, come al principio del Nostro Pontificato, con una lettera diretta all’Arcivescovo di Ravenna, Ci siamo fatti promotori dei restauri del tempio presso cui riposano le ceneri dell’Alighieri, così ora, quasi ad iniziare il ciclo delle feste centenarie, Ci è parso opportuno rivolgere la parola a voi tutti, diletti figli, che coltivate le lettere sotto la materna vigilanza della Chiesa, per dimostrare ancor meglio l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro, e come le lodi tributate a così eccelso nome ridondino necessariamente in non piccola parte ad onore della fede cattolica.

In primo luogo, poiché il nostro Poeta durante l’intera sua vita professò in modo esemplare la religione cattolica, si può dire consentaneo ai suoi voti che questa commemorazione solenne si faccia, come si farà, sotto gli auspici della religione; e che se essa avrà compimento in San Francesco di Ravenna, s’inizi però a Firenze, in quel suo bellissimo San Giovanni, a cui negli ultimi anni di sua vita egli, esule, con intensa nostalgia ripensava, bramando e sospirando di essere incoronato poeta sul fonte stesso dove, bambino, era stato battezzato.

Nato in un’epoca nella quale fiorivano gli studi filosofici e teologici per merito dei dottori scolastici, che raccoglievano le migliori opere degli antichi e le tramandavano ai posteri dopo averle illustrate secondo il loro metodo, Dante, in mezzo alle varie correnti del pensiero, si fece discepolo del principe della Scolastica Tommaso d’Aquino; e dalla sua mente di tempra angelica attinse quasi tutte le sue cognizioni filosofiche e teologiche, mentre non trascurava nessun ramo dell’umano sapere e beveva largamente alle fonti della Sacra Scrittura e dei Padri. Appreso così quasi tutto lo scibile, e nutrito specialmente di sapienza cristiana, quando si accinse a scrivere, dallo stesso mondo della religione egli trasse motivo per trattare in versi una materia immensa e di sommo respiro.

In questa vicenda si deve ammirare la prodigiosa vastità ed acutezza del suo ingegno, ma si deve anche riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina, e che quindi poté abbellire il suo immortale poema della multiforme luce delle verità rivelate da Dio, non meno che di tutti gli splendori dell’arte.

Infatti tutta la sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio, che governa il mondo nel tempo e nell’eternità, premia e punisce gli uomini, sia individualmente, sia nelle comunità, secondo le loro responsabilità. Quindi in questo poema, conformemente alla rivelazione divina, risplendono la maestà di Dio Uno e Trino, la Redenzione del genere umano operata dal Verbo di Dio fatto uomo, la somma benignità e liberalità di Maria Vergine Madre, Regina del Cielo, e la superna gloria dei santi, degli angeli e degli uomini. Ad esso si contrappone la dimora delle anime che, una volta consumato il periodo di espiazione previsto per i peccatori, vedono aprirsi il cielo davanti a loro. Ed emerge che una sapientissima mente governa in tutto il poema l’esposizione di questi e di altri dogmi cattolici.

Se il progresso delle scienze astronomiche dimostrò poi che non aveva fondamento quella concezione del mondo, e che non esistono le sfere supposte dagli antichi, trovando che la natura, il numero e il corso degli astri e dei pianeti sono assolutamente diversi da quanto quelli ne pensavano, non venne meno però il principio fondamentale, che l’universo, qualunque sia l’ordine che lo sostiene nelle sue parti, è opera del cenno creatore e conservatore di Dio onnipotente, il quale tutto muove, e la cui gloria risplende in una parte più, e meno altrove; questa terra che noi abitiamo, quantunque non sia il centro dell’universo, come un tempo si credeva, tuttavia è sempre stata la sede della felicità dei nostri progenitori, e testimone in seguito della loro miserrima caduta, che segnò per essi la perdita di quella felice condizione che fu poi restituita dal sangue di Gesù Cristo, eterna salvezza degli uomini. Perciò Dante, che aveva costruito nel proprio pensiero la triplice condizione delle anime, immaginando prima del giudizio finale sia la dannazione dei reprobi, sia l’espiazione delle anime pie, sia la felicità dei beati, deve essere stato ispirato dalla luce della fede.

In verità Noi riteniamo che gl’insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice carme, possano servire quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo. Innanzi tutto i cristiani debbono somma riverenza alla Sacra Scrittura e accettare con assoluta docilità quanto essa contiene. In ciò l’Alighieri è esplicito: « Sebbene gli scrivani della divina parola siano molti, tuttavia il solo che detta è Dio, il quale si è degnato di esprimerci il suo messaggio di bontà attraverso le penne di molti ». Espressione splendida e assolutamente vera! E così pure la seguente: « Il Vecchio e il Nuovo Testamento, emessi per l’eternità, come dice il Profeta » contengono « insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana », impartiti « dallo Spirito Santo, il quale attraverso i Profeti, gli Scrittori di cose sacre, nonché attraverso Gesù Cristo, coeterno Figlio di Dio, e i suoi discepoli rivelò la verità soprannaturale e a noi necessaria ». Pertanto Dante dice giustamente che da quell’eternità che verrà dopo il corso della vita mortale « noi traiamo la certezza che viene dall’infallibile dottrina di Cristo, la quale è Via, Verità e Luce: Via, perché attraverso essa giungiamo senza ostacoli alla beatitudine eterna; Verità, perché essa è priva di qualsiasi errore; Luce, perché ci illumina nelle tenebre terrene dell’ignoranza » . Egli onora di non minore rispetto « quei venerandi Concìli principali, ai quali tutti i fedeli credono senza alcun dubbio che Cristo abbia partecipato ». Oltre a questi, Dante tiene in grande stima « le scritture dei dottori, di Agostino e di altri ». In proposito, egli dice: « Chi dubita che essi siano stati aiutati dallo Spirito Santo, o non ha assolutamente visto i loro frutti o, se li ha visti, non li ha mai gustati ».

Per la verità, l’Alighieri ha una straordinaria deferenza per l’autorità della Chiesa Cattolica e per il potere del Romano Pontefice, tanto che a suo parere sono valide tutte le leggi e tutte le istituzioni della Chicaa che dallo stesso sono state disposte. Da qui quell’energica ammonizione ai cristiani: dal momento che essi hanno i due Testamenti, e contemporaneamente il Pastore della Chiesa dal quale sono guidati, si ritengano soddisfatti di questi mezzi di salvezza. Perciò, afflitto dai mali della Chiesa come fossero suoi, mentre deplora e stigmatizza ogni ribellione dei cristiani al Sommo Pontefice dopo il trasferimento dell’Apostolica Sede da Roma [ad Avignone], così scrive ai Cardinali Italiani: « Noi, dunque, che confessiamo il medesimo Padre e Figliuolo: il medesimo Dio e uomo, e la medesima Madre e Vergine; noi, per i quali e per la salvezza dei quali fu detto a colui che era stato interrogato tre volte a proposito della carità: “ Pasci, o Pietro, il sacrosanto ovile ”; noi che di Roma (cui, dopo le pompe di tanti trionfi, Cristo con le parole e con le opere confermò l’imperio sul mondo, e che Pietro ancora e Paolo, l’Apostolo delle genti, consacrarono quale Sede Apostolica col proprio sangue), siamo costretti con Geremia, facendo lamenti non per i futuri ma per i presenti, a piangere dolorosamente, di essa, quale vedova e derelitta; noi siamo affranti nel vedere lei così ridotta, non meno che il vedere la piaga deplorevole delle eresie ».

Dunque egli definisce la Chiesa Romana quale « Madre piissima » o « Sposa del Crocifisso », e Pietro quale giudice infallibile della verità rivelata da Dio, cui è dovuta da tutti assoluta sottomissione in materia di fede e di comportamento ai fini della salvezza eterna. Pertanto, quantunque ritenga che la dignità dell’Imperatore venga direttamente da Dio, tuttavia egli dichiara che « questa verità non va intesa così strettamente che il Principe Romano non si sottometta in qualche caso al Pontefice Romano, in quanto la felicità terrena e in un certo modo subordinata alla felicità eterna ». Principio davvero ottimo è sapiente, che se fosse fedelmente osservato anche oggi recherebbe certamente copiosi frutti di prosperità agli Stati.

Ma, si dirà, egli inveì con oltraggiosa acrimonia contro i Sommi Pontefici del suo tempo. È vero; ma contro quelli che dissentivano da lui nella politica e che egli credeva stessero dalla parte di coloro che lo avevano cacciato dalla patria. Tuttavia si deve pur compatire un uomo, tanto sbattuto dalla fortuna, se con animo esulcerato irruppe talvolta in invettive che passavano il segno, tanto più che ad esasperarlo nella sua ira non furono certo estranee le false notizie propalate, come suole accadere, da avversari politici sempre propensi ad interpretare tutto malignamente. Del resto, poiché la debolezza è propria degli uomini, e « nemmeno le anime pie possono evitare di essere insudiciate dalla polvere del mondo », chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero, per cui un animo così devoto alla Chiesa, come quello di Dante, ne doveva essere assai disgustato, quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente?

Tuttavia, per quanto si scagliasse nelle sue invettive veementi, a ragione o a torto, contro persone ecclesiastiche, però non venne mai meno in lui il rispetto dovuto alla Chiesa e la riverenza alle Somme Chiavi; per cui nella sua opera politica intese difendere la propria opinione « con quell’ossequio che deve usare un figlio pio verso il proprio padre, pio verso la madre, pio verso Cristo, pio verso la Chiesa, pio verso il Pastore, pio verso tutti coloro che professano la religione Cristiana, per la tutela della verità ».

Pertanto, avendo egli basato su questi saldi principi religiosi tutta la struttura del suo poema, non stupisce se in esso si riscontra un vero tesoro di dottrina cattolica; cioè non solo il succo della filosofia e della teologia cristiana, ma anche il compendio delle leggi divine che devono presiedere all’ordinamento ed all’amministrazione degli Stati; infatti l’Alighieri non era uomo che per ingrandire la patria o compiacere ai prìncipi potesse sostenere che lo Stato può misconoscere la giustizia e i diritti di Dio, perché egli sapeva perfettamente che il mantenimento di questi diritti è il principale fondamento delle nazioni.

Indicibile, dunque, è il godimento che procura l’opera del Poeta; ma non minore è il profitto che lo studioso ne ricava, perfezionando il suo gusto artistico ed accendendosi di zelo per la virtù, a condizione però che egli sia spoglio di pregiudizi, ed aperto alla verità. Anzi, mentre non è scarso il numero dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana sapienza; né alcuno ignora che egli apertamente dichiara di aver composto il suo poema per apprestare a tutti vitale nutrimento. Infatti sappiamo che alcuni, anche recentemente, lontani sì, ma non avversi a Cristo, studiando con amore la Divina Commedia, per divina grazia, prima cominciarono ad ammirare la verità della fede cattolica e poi finirono col gettarsi entusiasti tra le braccia della Chiesa.

Quanto abbiamo esposto fino ad ora è sufficiente per dimostrare quanto sia opportuno che, in occasione di questo centenario che interessa tutto il mondo cattolico, ciascuno alimenti il suo zelo per conservare quella fede che sì luminosamente si rivelò, se in altri mai, nell’Alighieri, quale fautrice della cultura e dell’arte. Infatti, in lui non va soltanto ammirata l’altezza somma dell’ingegno, ma anche la vastità dell’argomento che la religione divina offerse al suo canto. Se la natura gli aveva fornito un ingegno tanto acuto, affinato nel lungo studio dei capolavori degli antichi classici, maggiore acutezza egli trasse, come abbiamo detto, dagli scritti dei Dottori e dei Padri della Chiesa, che consentirono al suo pensiero di elevarsi e di spaziare in orizzonti ben più vasti di quelli racchiusi nei limiti ristretti della natura. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra; e certamente è assai più moderno di certi vati recenti, esumatori di quell’antichità che fu spazzata via da Cristo, trionfante sulla Croce. Spira nell’Alighieri la stessa pietà che è in noi; la sua fede ha gli stessi sentimenti, e degli stessi veli si riveste « la verità a noi venuta dal cielo e che tanto ci sublima ». Questo è il suo elogio principale: di essere un poeta cristiano e di aver cantato con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore, comprendendoli mirabilmente e dei quali egli stesso viveva. Conseguentemente, coloro che osano negare a Dante tale merito e riducono tutta la sostanza religiosa della Divina Commedia ad una vaga ideologia che non ha base di verità, misconoscono certo nel Poeta ciò che è caratteristico e fondamento di tutti gli altri suoi pregi.

Dunque, se Dante deve alla fede cattolica tanta parte della sua fama e della sua grandezza, valga solo questo esempio, per tacere gli altri, a dimostrare quanto sia falso che l’ossequio della mente e del cuore a Dio tarpi le ali dell’ingegno, mentre lo sprona e lo innalza; e quanto male rechino al progresso della cultura e della civiltà coloro che vogliono bandita dall’istruzione ogni idea di religione. È, infatti, assai deplorevole il sistema ufficiale odierno di educare la gioventù studiosa come se Dio non esistesse e senza la minima allusione al soprannaturale. Poiché sebbene in qualche luogo il « poema sacro » non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati, esso però non suole per lo più recare ai giovani quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità della fede come sarebbe necessario.

Volesse il cielo che queste celebrazioni centenarie facessero in modo che ovunque si impartisse l’insegnamento letterario, che Dante fosse tenuto nel dovuto onore e che egli stesso pertanto fosse per gli studenti un maestro di dottrina cristiana, dato che egli, componendo il suo poema, non ebbe altro scopo che « sollevare i mortali dallo stato di miseria », cioè del peccato, e « di condurli allo stato di beatitudine », cioè della grazia divina.

E voi, diletti figli, che avete la fortuna di coltivare lo studio delle lettere e delle belle arti sotto il magistero della Chiesa, amate e abbiate caro, come fate, questo Poeta, che Noi non esitiamo a definire il cantore e l’araldo più eloquente del pensiero cristiano. Quanto più vi dedicherete a lui con amore, tanto più la luce della verità illuminerà le vostre anime, e più saldamente resterete fedeli e devoti alla santa Fede.

Quale auspicio dei celesti favori ed a testimonianza della Nostra paterna benevolenza, impartiamo con affetto a voi tutti, diletti figli, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 aprile 1921, nell’anno settimo del Nostro Pontificato. 

BENEDICTUS PP. XV

lunedì 26 aprile 2021

Succeda quel che succeda

 Succeda quel che succeda, persevera nel tuo cammino; persevera, allegro e ottimista, perché il Signore si impegna a spazzare via tutti gli ostacoli. Ascoltami bene: sono sicuro che, se lotti, sarai santo!

mercoledì 24 marzo 2021

E non sento per quattro ore di tempo alcuna noia

 

«Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo de Principatibus»


Niccolò Machiavelli

(Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513)

martedì 23 marzo 2021

The readiness is all

 The readiness is all 

 “la prontezza è tutto”


  Amleto ad Orazio (atto 5, scena 2)

domenica 21 marzo 2021

I conservatori sono dei fossili

   “I conservatori sono dei fossili per noi, fossero pure dei cattolici: non possiamo assumerne alcuna responsabilità. Ci si dirà: ciò scinderà le forze cattoliche. Se è così, che avvenga (…).

 Due forze contrarie che si elidono, arrestano il movimento e paralizzano la vita. Tutto lo sforzo enorme dei cattolici italiani è stato concentrato nell’affermazione di un principio sociale democratico, che comprende tutte le forze sociali della vita presente e le riprova al fuoco del cristianesimo per purificarle dalle scorie egoistiche, dalle infiltrazioni materialistiche, dal tufo socialista o liberalista. (…). 

È logico dunque l’affermare che il neo partito cattolico dovrà avere un contenuto necessariamente democratico sociale, ispirato ai princìpi cristiani. Fuori di questi termini non avrà mai il diritto ad una vita propria: esso diverrà una appendice del partito moderato”.

Don Luigi Sturzo

Discorso di Caltagirone, 24 dicembre 1905:

venerdì 12 febbraio 2021

La predizione che si avvera

«Coloro che dicono che il mondo andrà sempre così come è andato finora [...] contribuiscono a far sì che l'oggetto della loro predizione si avveri»

 Immanuel Kant

venerdì 15 gennaio 2021

Molti non parlano degli Angeli

Molti non parlano degli Angeli. Sarebbe invece opportuno ricordarli più spesso come ministri della Provvidenza nel governo del mondo e degli uomini, cercando di vivere, come han fatto i santi da Agostino a Newman in familiarità con essi.


Giovanni Paolo I


San Jonh Henry Newman, canonizzato da Papa Francesco il 13 ottobre 2019 in piazza san Pietro, è noto per i sermoni tenuti, quando era ancora un giovane parroco anglicano, (dunque prima della conversione al cattolicesimo) nella chiesa di St. Mary di Oxford. In quei sermoni, che costituiscono una summa teologica, moderna e per taluni aspetti assai originale, un tema che ritorna con costanza, è certamente quello degli angeli. Newman non si accontenta di affermarne l’esistenza. Si collega a quella convinzione che gli angeli sono gli strumenti dell’economia della salvezza stabilita dal Signore, che essi gioiscono del mistero dei loro doni soprannaturali, cui ogni credente deve esservi attento, in breve che bisogna “realizzare” la presenza di questi esseri predestinati. Non ci sarebbe dunque da meravigliarsi del posto e del rilievo dati agli angeli nella predicazione di Newman. “Essere concreti e viventi” Il suo scritto sugli angeli più importante è probabilmente il sermone del 1831, “Le potenze della natura”. Newman non si risparmia nessun rigo della Bibbia disegnando il loro profilo di realtà ed il loro contorno di vita. Cita spesso la scala di Giacobbe, che è come il simbolo di quel mondo invisibile abitato dagli angeli di cui il credente deve avere la convinzione. L’angelo che visita Agar nel deserto, colui che raggiunge i tre giovani nella fornace, l’angelo che vigila alla piscina di Betesda“senza rinunciare alla sua purezza né alla sua perfetta felicità”, e le scene molteplici della vita di Cristo, delle prime predicazioni degli apostoli, sono troppo pregnanti del ministero tenuto dagli angeli per non aprire gli occhi della fede alla loro realtà ed alla loro missione. Con gli angeli, un mondo reale è dato, costituito da esseri concreti e viventi, soprannaturali, benché inaccessibili ai sensi ed alla ragione. “Vigilano sui più umili” Gli angeli, ragiona Newman, abitano il mondo invisibile, e noi siamo meglio istruiti nei loro riguardi anziché a proposito delle anime dei fedeli defunti perché: “questi ultimi si riposano dei loro duri lavori, nel mentre che gli angeli sono attivi in mezzo a noi nella Chiesa. Non c’è nessun cristiano, per umile che sia, che non sia assistito dagli angeli, purché egli viva nella fede e nell’amore. Benché siano così grandi, così gloriosi, così puri, così belli, che la loro vista, se potessimo vederli, ci atterrerebbe, come l’ha vissuto il profeta Daniele, eppure sono nostri compagni di servizio e di lavoro, essi vigilano sui più umili tra di noi e ci difendono, dal momento che noi siamo di Cristo“. Questo perché gli angeli dimorano “nello stato perfetto al quale tendono i veri cristiani: una intera sottomissione a Dio in pensiero ed in azione che fa la loro felicità; la volontà di fondo e radicalmente prigioniera di quella di Dio, è la pienezza della loro gioia e della loro vita per sempre”. Quali non devono essere la deferenza ed il rispetto quando si entra in una chiesa, poiché essa è il posto in cui Dio è presente, e “gli angeli tutto intorno, che vanno e vengono”. L’angelo custode Il “realismo della fede” inclina soprattutto Newman ad insistere sul servizio di assistenza morale e di sostegno spirituale, reso dagli angeli presso quelli che sono fedeli al Vangelo: “I santi angeli sono là, presenti. Quando noi preghiamo, essi sono come dei custodi vicino a noi, quando simpatizzano coi nostri bisogni, quando si uniscono a noi per la lode”. E’ lo stesso realismo che conduce Newman ad evocare la presenza dell’angelo custode. Ancora timido al tempo di Oxford, questa prenderà la sua dimensione spirituale dopo la conversione a Roma. Che un dialogo segreto si sia snodato tra l’oratore di Birmingham ed il suo angelo custode, noi ne abbiamo un indizio in una lettera indirizzata al suo vescovo alla fine della sua vita in cui egli dice la sua emozione nel rivedere Oxford ed il suo vecchio collegio di Trinità che l’ha eletto fellow onorario: “Rivedere prima di morire il posto in cui ho iniziato la lotta della mia vita, col mio buon angelo a fianco, è una prospettiva quasi troppo dura da sopportare”. Il Sogno di Geronzio Come, infine, su questo tema dell’angelo custode, negligere il celebre poema, Il Sogno di Geronzio che, nell’ultimo passaggio della morte, fa dell’angelo l’iniziatore e la guida verso l’eternità. Con questa evocazione degli angeli, la predicazione scava, oltre che la sua verità, tutta una parte del suo fascino e della sua seduzione. Chi resisterebbe alla bellezza di taluni quadri che schizzano la presenza ed il movimento degli angeli intorno al Trono celeste?
fonte: Aleteia

giovedì 14 gennaio 2021

A qualunque costo

“Vi sorregga il cuore, la voce del povero, che ha sempre ragione: non vi seduca la voce della popolarità ‘a qualunque costo’.

‘A qualunque costo’ c’è soltanto il proprio dovere”.

(don Primo Mazzolari, Parole ai politici, La Locusta, Vicenza).

venerdì 1 gennaio 2021

2021: si comincia con Francesco Guccini

 Francesco Guccini, qual è il suo primo ricordo?

«Un pacco di fichi secchi arrivato dalla Grecia. Me lo mandava mio padre Ferruccio, soldato della seconda guerra mondiale».

Lei è nato quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra del Duce.

«Il babbo aveva già combattuto in Africa nel 1935. Fu subito richiamato. Dopo l’8 settembre venne fatto prigioniero a Corinto e portato in campo di concentramento: prima a Leopoli, poi ad Amburgo. Con lui c’erano Giovanni Guareschi e Gianrico Tedeschi, l’attore. Rifiutarono di combattere per i nazisti; ma della prigionia mio padre non parlava mai. Tornò nell’agosto del 1945».

Come fu il vostro incontro?

«Prima arrivò una cartolina da Milano, con la foto di una fontana. La ritagliai, mi diedero un sacco di botte. C’era scritto: “Sono un commilitone di Guccini, mi incarica di dirvi che sta rientrando a casa”. Era una domenica, ero con mia madre Ester alla messa delle 11, qui a Pavana, quando entrò in chiesa la prozia Rina, la moglie del prozio Enrico, con il grembiule, gridando: “Sta arrivando Ferruccio!”. Me lo vidi davanti con lo zaino e la divisa».

Cosa fece suo padre per prima cosa?

«Si spogliò e si gettò nel bottaccio, il serbatoio d’acqua del mulino. Gli chiesi: “Babbo, mi insegni a nuotare?”. Lui mi buttò in acqua. Rischiai di affogare».

Non la abbracciò?

«Mio padre non mi ha mai abbracciato in vita sua. Ogni tanto in tv vedo persone che si lamentano: “Ho avuto una famiglia anaffettiva, da bambino mi facevano pochi regali…”. Io non ho mai avuto regali. Non ho mai festeggiato il mio compleanno. Guai se lasciavo qualcosa nel piatto: il babbo era stato in campo di concentramento, il cibo era sacro».

Un regalo di Natale suo padre gliel’avrà pur fatto…

«Una volta mi regalò “Senza famiglia” di Hector Malot: libro di una tristezza allucinante. Un venditore ambulante l’aveva convinto a comprarlo. Un altro Natale mi passò un rasoio elettrico con cui non si trovava bene».

Un rasoio? A Guccini?

«Fino a trent’anni non portavo la barba. Mi feci crescere barba e capelli quando tornai dall’America, ma non per motivi politici. Non era la contestazione, era una delusione d’amore».

E sua mamma cosa le regalava?

«Mia mamma non mi ha mai regalato niente».

Il prozio è quello della canzone “Amerigo”, che andò negli Stati Uniti?

«Lui. In America si iscrisse al circolo socialista Giordano Bruno. Era il fratello giovane di mio nonno Pietro. Lo ricordo biascicare un po’ di inglese».

Portava “un cinto d’ernia che sembrava la fondina per la pistola…”.

«Si era rovinato la schiena in miniera, ma per me era un eroe del Far West, come quelli dei film. A Pavana c’era il cinema. E in pochi chilometri c’erano cinque sale da ballo: liscio, ma anche boogie-woogie e ritmi latini, samba e rumba. Erano passati gli americani, e pure i soldati brasiliani. Dopo la guerra c’era una voglia di ballare che faceva luce. Un po’ come adesso, che la gente sta esplodendo per uscire di casa e andare da tutte le parti».

Della guerra cosa ricorda?

«La linea gotica passava subito a Nord di Pavana. Gli americani avevano messo le tende attorno al mulino dei nonni. Avevano quattro carri armati: sparavano ogni giorno a orari regolari, pareva che i carristi andassero in ufficio. Io ero sempre in mezzo a loro: è evidente che mi mancava il padre. Canticchiavo le prime canzoni: Lay that pistol down, che pronunciavo leichepistoldà: l’ho risentita in un film di Woody Allen, Radio days. In cambio mi diedero i gradi da sergente e il cioccolato, che mangiavo di nascosto in riva al fiume, che era in realtà un torrente, il Limentra. E mi fecero assaggiare una bevanda scura, misteriosa, buonissima: la coca-cola. Un mondo radicalmente diverso da quello dei tedeschi».

Ricorda anche loro?

«Vagamente. Due dormivano nell’androne del mulino, sotto un tavolo. Avevano sempre una fame terribile, razziavano tutto, pretendevano frittate gigantesche da venti uova. In casa avevamo un maialino: riuscimmo a sottrarglielo e a nasconderlo in una casetta. Una mattina fummo svegliati da un’altra pattuglia tedesca. Tememmo per il maialino; invece cercavano i prigionieri russi che erano scappati. Uno era finito nel campo di granturco dei nonni: ferito a una gamba, fu caricato in una gorgola, enorme paniere per il trasporto del fieno, e condotto in una capanna, dove lo recuperarono i partigiani».

E il maialino?

«Fu sacrificato per nobili scopi».

Suo padre era toscano di Pavana, sua madre emiliana di Carpi. Come si incontrarono?

«Mio padre aveva vinto un concorso alle Poste di Modena. Mamma aveva tre fratelli e tre sorelle. Un suo collega, zio Walter, era fidanzato con una di loro, e disse al babbo: vieni a Carpi con me, ci sono un mucchio di donne. Arrivarono in bicicletta. Ricordo quando andavamo a trovare i nonni, che parlavano solo dialetto emiliano: mio padre restava in disparte. Tutti pensavano che fosse serio, severo; in realtà non capiva una parola. Un po’ serio però lo era. Dava del voi a sua mamma».

I partigiani come li ricorda?

«C’era di tutto. Un’amica mi mostrò il tavolo bucherellato dai proiettili con cui una banda di irregolari aveva ucciso suo padre, comandante partigiano: arrivarono, bloccarono il paese, Gaggio Montano, assediarono la caserma dei carabinieri, spararono. Fu una guerra civile, ne accaddero di tutti i colori. Intendiamoci: io ho sempre tifato per i partigiani, preferivo i libri di Bocca a quelli di Pansa; però ho sempre approfondito anche le testimonianze dell’altro fronte, ho letto i libri di Pisanò».

L’hanno criticata per la sua versione di Bella ciao, in cui si augura che i partigiani portino via Salvini, Berlusconi e la Meloni. Che le ha risposto: dove ci vorrebbe portare Guccini?

«Hanno la coda di paglia: subito hanno pensato a piazzale Loreto. Ma io non avevo intenzioni malevole. Mi basta mandare Salvini al mare con il mojito, e restituire Berlusconi alle sue tv e alle sue fidanzate. Nel frattempo la Meloni potrebbe spezzare le reni alla Grecia».

Lei cosa vota?

«Pd».

E prima?

«Partito socialista».

Non Pci?

«Non sono mai stato comunista. Tutti credono che lo sia; ma non è vero. Anche Igor Taruffi, il consigliere regionale di Liberi e Uguali cui ho dato due volte l’endorsement, era convinto che fossi comunista; quando gli ho rivelato la verità ci è rimasto malissimo. Mi viene da dire, come a quei razzisti che sostengono di avere molti amici di colore, che ho molti amici comunisti. Ma lo stalinismo non poteva piacere a uno come me: libertario, azionista. I miei eroi sono i fratelli Rosselli e Duccio Galimberti, che in realtà si chiamava Tancredi: Tancreduccio. Semmai, lo dico con grande ritegno, mi sentivo anarcoide. Avvertivo il fascino dell’anarchia, dal punto di vista romantico più che reale».

E scrisse la Locomotiva.

«Una suggestione letteraria, non politica».

Ma ha composto anche una ballata per Che Guevara.

«Appunto. Il ribelle che lascia la Cuba di Castro e il potere per continuare a combattere. In Mozambico, in Bolivia, dove lo ammazzarono. Ma se avessi discusso con il Che, non ci saremmo trovati d’accordo. Tra l’altro è nato il 14 giugno. Come me e come, purtroppo, anche Trump».

Mai un corteo, mai uno scontro con la polizia?

«Nel ’68 avevo 28 anni, ero già grande. Un corteo l’ho fatto ad Amsterdam. Partii con un amico per andare a conoscere i provos, che ci portarono a una manifestazione non autorizzata contro la guerra del Vietnam. Ci spiegarono che la polizia li avrebbe attaccati, e quindi sarebbe stato un grande successo. Avevo una chitarra, un giornalista mi chiese chi fossi, cominciai a suonare una canzone di Bob Dylan. Poi la polizia arrivò davvero. E ci caricò. Mi misi in salvo».

E adesso? Conte come lo trova?

«Non mi dispiace».

Con i 5 Stelle però lei è stato critico.

«Abbastanza. Mi sono sempre sembrati integralisti: troppo convinti delle proprie idee, troppo pronti a mandare gli altri sul rogo. Forse ora stanno cambiando. Io sono per il dubbio, non per la certezza. Tendo a farmi domande; diffido di chi coltiva sicurezze ferree, immarcescibili, a volte violente».

Ha conosciuto il Papa.

«Mi ha portato da lui il cardinale Zuppi, un grande personaggio. Francesco mi piace. Gli ho recitato la prima strofa di Martin Fierro, il poema nazionale argentino. Avrà pensato che fossi pazzo».

Quando comincia la musica?

«All’inizio dell’estate 1957. Il padre di un nostro amico, Pier Farri, possedeva due cinema a Modena e ogni tanto, preso da improvvisa generosità, ci invitava. Vedemmo un film dove una band suonava in un campo scout femminile: cinque ragazzi e tremila ragazze. All’uscita ci dicemmo: mettiamo su un complesso pure noi. Victor Sogliani, il futuro fondatore dell’Equipe 84, scelse il sax, che non aveva mai suonato in vita sua. Un altro affittò un contrabbasso. Pier, che era il più dovizioso di denaro, volle la batteria. Io comprai una chitarra con le 5 mila lire che mi passò mia nonna Amabilia».

La sapeva suonare?

«Imparai da solo. Me l’aveva costruita Celestino, un falegname di Porretta Terme, che mi aveva dato anche un quadernetto con i pallini che mostravano dove mettere le dita per gli accordi. Ero felicissimo: alla fine di quel pomeriggio sapevo già accompagnare due canzoni. Celestino poi emigrò in Olanda. Ora vive in Romagna, ogni tanto ci sentiamo».

Ha fatto il magistero per lo stesso motivo, le ragazze?

«Ma no. Era il liceo dei poveri. E durava un anno in meno: così avrei potuto lavorare prima. Purtroppo ho grandi lacune. Ho anche dato tutti gli esami all’università, ma non mi sono mai laureato: ho preferito suonare e gozzovigliare».

Quale fu il primo lavoro?

«Istitutore al collegio Villa Marina di Pesaro per orfani di post-telegrafonici. Un camerone enorme, un paravento, un letticciuolo. Una tristezza. E poi non amo il mare d’estate; figurarsi d’inverno. Per fortuna dopo due mesi e mezzo mi cacciarono».

E divenne giornalista.

«Due anni alla Gazzetta di Modena. Sognavo di fare lo scrittore. Un collega, un certo Cavicchioli, aveva pubblicato un romanzo, “Il volo del tacchino”: lo invidiavo moltissimo».

E’ vero che intervistò Modugno?

«Me ne vergogno ancora adesso. Ero giovane e saputello: lo attaccai; feci, come dicono a Bologna, lo sborone. Non pensavo affatto che la musica potesse essere il mio mestiere. Me ne andai perché mi pagavano poco: 20 mila lire al mese, lavorando tutti i giorni; e quando feci le prime due settimane di vacanze, mi dimezzarono lo stipendio. Guadagnavo molto di più sotto le armi».

Dove ha fatto il militare?

«Sottotenente a Trieste: 90 mila lire al mese, che mandavo per metà a casa, più 5 mila di indennità di frontiera. L’atmosfera era pesante. La notte gli sciavi, gli sloveni, scrivevano il nome di Tito sui muri della caserma».

Nel 1967 Caterina Caselli la fece esordire in tv.

«La Caselli era capitata a Porretta Terme subito dopo il successo di Sanremo. Qualcuno le disse che c’era un ragazzo che scriveva canzoni. Ascoltò Per fare un uomo, che poi ha cantato lei, e Auschwitz, che mi fece portare in tv. L’altro presentatore della trasmissione era Giorgio Gaber, che aveva invitato un ragazzo di Catania: Francesco Battiato. Non si chiamava ancora Franco».

Siete diventati amici?

«Con Gaber sì. Quando veniva a Bologna dopo lo spettacolo andavamo insieme da Vito. Non mi è piaciuto però che abbia scritto “la mia generazione ha perso”. Ha perso la generazione di mio padre, che si è fatto due guerre. Noi siamo figli del boom: abbiamo potuto studiare, siamo riusciti a fare quello che volevamo. Gaber era un ragioniere ed è diventato Gaber, io sono un maestro elementare…».

E Battiato?

Lo ritrovai al Club Tenco: era un barzellettaro formidabile. Come Bruno Lauzi. Io adoro le barzellette; ma ora non ce ne sono quasi più. Una delle migliori del mio repertorio me l’ha raccontata Baglioni. Anche se lui nega, perché si vergogna».

Quale barzelletta?

«E’ troppo lunga…».

Non può non raccontare la barzelletta di Baglioni.

«Sia; ma l’ha voluto lei. Va detta con l’accento toscano».

Vada per l’accento toscano.

«Favola morale di La Fontaine: la formica e la cicala. Tutte le formicoline lavorano nei campi, mentre le cicale cantano felici. Babbo formicolone ammonisce la su’ figliola: tu lascia che la canti; verrà l’inverno, la cicala ti chiederà il cibo, e tu niente: oh bischera, tu mangi quello che hai cantato! Viene l’inverno, e le formiche continuano a lavorare, tutte sudate, a riporre i fili d’erba, le molliche di pane. Finalmente ecco la cicala, di certo venuta a mendicare. La formicola si prepara la risposta – oh bischera, tu mangi quello che hai cantato! -; ma in realtà la cicala è venuta a salutare, tutta abbronzata e impellicciata. Con il canto ha fatto un mucchio di quattrini: il suo disco è primo in hit-parade, e lei è in partenza per le Hawaii; prima però farà tappa a Parigi. Al che la formicola le fa: oh cicala, se a Parigi trovi un certo La Fontaine, lo mandi affanculo a nome mio?».

Insospettabile Baglioni… Con De André invece che rapporto avevate?

Normale. Rispetto reciproco. Sono stato molto amico di Claudio Lolli, lui sì comunista convinto. Grande poeta, grandissimo autore di canzoni, meglio di me. Ha avuto la sfortuna di non riuscire ad accattivarsi il pubblico».

Anche con Dalla eravate amici?

«No, non sono mai stato veramente amico di Lucio. Vedevamo la vita in modo troppo diverso. Lui era molto cittadino, io abbastanza montanaro. Mi chiedeva: ma cosa fai tutto il giorno in montagna? E io gli rispondevo: niente. In realtà facevo un sacco di cose: camminavo, andavo a funghi… In città tiravo le 4 del mattino a giocare a carte. Mai d’azzardo, non si vinceva neppure un caffè. Briscola, tresette, scopone scientifico. E poi un gioco bellissimo e dimenticato, il tarocchino bolognese, che stiamo cercando di mantenere in vita, fondando una scuola… Però sulla barca di Dalla, a Capri, sono diventato amico di Zucchero».

Cosa ci faceva a Capri?

«Avevo cantato una canzone la sera prima. Andai sulla barca di Lucio a mangiare gli spaghetti, e c’era Zucchero, che componeva il suo disco. Lui ama comporre in luoghi esotici: Cuba, l’America. Io scrivevo a Bologna o a Pavana nel mulino dei nonni».

Ligabue?

«Non ci conoscevamo, mi chiamò lui per farmi recitare in Radiofreccia».

Vasco?

«Una sera capitò da Vito, per dirmi che era entusiasta dell’Avvelenata».

E lei?

«Io detesto l’Avvelenata. Una canzoncina. Non capisco perché abbia avuto tutto questo successo, mentre una canzone come Odysseus, che è ottocento volte meglio, ne ha avuto molto meno».

Odysseus è bellissima. Un Ulisse dantesco.

«Un mito letterario, un viaggio magico e misterioso, carico di simboli, di ritorni affascinanti, di personaggi incredibili. E’ una canzone sottovalutata. Composta in due giorni, anzi due pomeriggi».

In Gulliver invece lei scrive che “da tempo e mare non si impara niente”.

«Tutto quell’album, che si intitola Guccini, è dedicato all’inutilità di viaggiare. Ho un’amica che è stata in tutti i Paesi, ha anche piantato una bandierina sulla mappa; ma in ognuno è rimasta tre giorni. I veri viaggiatori erano i nobili inglesi del Grand Tour, o gli emigranti: gente che non sapeva quando e se tornava. Gli altri sono turisti continui».

Nello stesso album c’è un’altra canzone di culto, Argentina.

«Argentina è il racconto di un déjà-vu. Mi pareva di esserci già stato. Vedevo strade già conosciute, bar già frequentati. In qualcuno forse ero già entrato davvero. Non penso ad altre vite, ma a impressioni letterarie fugaci. Con Raffaella, mia moglie, abbiamo fatto anche un corso di tango».

La storia struggente di Scirocco è vera?

«Sì. E’ la storia di un amico poeta, da me soprannominato Baudelaire. Non riuscendo a decidere tra la sposa e la fidanzata, fu lasciato da entrambe. Se si fosse messo con quella nuova, forse sarebbe stato felice i primi tempi, ma poi avrebbe litigato. Meglio svanire nel ricordo. Meglio una cosa mai avvenuta, di una cosa che avviene e poi ti delude. Come Gozzano: le rose che non colsi. Le storie non finite, non concluse, conservano un sapore particolare. Se si fossero sviluppate magari sarebbero finite male; o in ogni caso sarebbero finite».

Qual è la delusione d’amore per cui si fece crescere la barba?

«Lasciai in Italia Roberta, la ragazza che sarebbe diventata la mia prima moglie, e fuggii in America con una mia allieva del Dickinson College di Bologna, Eloise».

E’ la vicenda di 100 Pennsylvania Avenue?

«Sì. Finì malissimo: l’italiano non era piaciuto. Fui processato dall’intera famiglia, con la madre che mi urlava: “I hate you”, ti odio!, ed Eloise che le rispondeva: “But I love him”, ma io lo amo!».

Anche “Il pensionato” è esistito davvero?

«Abitava accanto a me: io al 43 di via Paolo Fabbri, lui al 41. A casa sua, infilata in una vetrinetta, vidi una busta con la scritta: da aprire solo in caso di mia morte. La cosa mi colpì».

«E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena/ soltanto un’impressione che ricorderemo appena…».

«Un idraulico per scherzo fece la spia alla famiglia che abitava al numero 45. Una mattina presto vennero a bussare: “Sappiamo che farà una canzone sui vicini di casa. Noi preferiremmo non comparire…”».

Sul web c’è davvero la “foto sul pallaio” di lei e Cencio vicini: il nano con cui giocava a bocce.

«In realtà si chiamava Vincenzo, detto Cengio. Nella canzone divenne Cencio. Ci siamo persi di vista. Chissà se è ancora vivo. Lo spero, ma di solito i nani non vivono a lungo».

«In morte di S.F.» divenne «Canzone per un’amica». Chi è S.F.?

«Silvana Fontana, morta in un incidente stradale accanto al fidanzato, che si salvò: l’ho rivisto qualche anno fa. La notizia mi addolorò e scrissi la canzone in mezz’ora, con un errore di cui ancora mi vergogno: “Se presto hai dovuto partire”, invece di “sei dovuta partire”».

La ascolto da quarant’anni e non me n’ero mai accorto. Culodritto invece è la canzone dedicata a sua figlia, Teresa.

«Mi commuove cantarla. Ora con mia figlia il rapporto si è un po’ raffreddato».

Com’è la vita a ottant’anni?

«A volte non me li sento. Non sto male. Certo, ho perso agilità. Ma, a pensarci, quando mai sono stato agile? Purtroppo mi è andata via la vista, non riesco più a leggere libri. Li ascolto. Però l’audiolibro è un surrogato. Mi manca la carta: sottolineare, prendere appunti».

Come ha passato questi mesi?

«Come al solito: ho scritto, ho guardato la tv con Raffaella. Ci hanno fatto compagnia i nostri tre gatti, in particolare Bianchina, la trovatella cui avevano tagliato le orecchie. Mi è mancato uscire a cena con mia moglie, con gli amici. Ma ora si ricomincia».

In una canzone lei immagina di essere assunto in cielo con i suoi amici veri. Crede nell’aldilà?

«No. E’ un mio sogno panteistico. Ma i sogni non sono destinati tutti ad avverarsi; anche se mi piacerebbe tanto rivedere nonna Amabilia, nonno Pietro che morì quando avevo tredici anni, il prozio Enrico che morì quando ne avevo ventitré: ero militare e non mi diedero la licenza. E mio padre e mia madre».

La morte le fa paura?

«Adesso un po’ sì. L’uomo è l’unico animale che sa di dover morire; ma da giovane è convinto di essere immortale. A ottant’anni però comincia ad avere qualche dubbio».

fonte: Aldo Cazzullo per Corriere della Sera 

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