giovedì 30 gennaio 2014

Ingiurie sessiste

“Voi donne del Pd siete qui perché siete brave solo a fare i pompini”. Massimo Felice De Rosa del Movimento 5 Stelle si sarebbe rivolto così alle colleghe democratiche in Commissione giustizia alla Camera. Parole che hanno spinto alcune deputate a querelarlo per ingiuria (leggi). Tra loro c’è anche Alessandra Moretti, ex portavoce di Pierluigi Bersani. Lui replica così: “Dicono il falso. Ho detto che qua dentro [in commissione, ndr] sono entrati solo perché conoscevano qualcuno di importante o avevano fatto qualche favore sessuale. Mi riferivo a tutti: uomini e donne. Non mi riferivo a nessuno in particolare, neanche alla Moretti”. Sull’episodio interviene anche il presidente della Camera Laura Boldrini che definisce “gravissime” le “ingiurie sessiste nei confronti delle deputate”. 

Tutto è accaduto nella serata del 29 gennaio, quando alle 21 era stata convocata la commissione “per la discussione e votazione sugli emendamenti al decreto 146/13″, che riguarda i “diritti fondamentali dei detenuti e la riduzione controllata della popolazione carceraria”. Le parlamentari che hanno sporto denuncia hanno spiegato ai pubblici ufficiali che “i deputati del Movimento 5 Stelle impedivano il regolare svolgimento dell’attività parlamentare, bloccando i lavori della Commissione e occupando l’aula stessa”.

Tra loro c’era De Rosa che aveva “un casco da moto in mano e che veniva trattenuto da due commessi in servizio perché molto agitato”. Il parlamentare, nel corso della seduta, si è quindi rivolto alle colleghe con quelle parole. Una scena a cui hanno assistito anche Massimiliano Fedriga e Nicola Molteni della Lega Nord oltre ai piddini Walter Verini, Ivan Scalfarotto, Franco Vazio e David Ermini. A firmare la querela, oltre a Moretti, ci sono le deputate democratiche Micaela Campana, Fabrizia Giuliani, Maria Marzano, Assunta Tartaglione, Chiara Gribaudo e Giuditta Pini.

De Rosa replica con la sua versione dei fatti: “Mi sono trovato a essere accusato di cose che non sono né in cielo né in terra. Dicono il falso. Stanno facendo una battaglia sul sessismo che non esiste”. E risponde alle deputate Pd che lo accusano di “offese sessiste”. “Non è vero – afferma De Rosa – La commissione era finita e non è vero che io l’ho bloccata. Siamo rimasti in tre del M5S e stavamo lavorando al pc. Una ventina di parlamentari del Pd, uomini e donne, ci hanno stuzzicato facendo cori ed insultandoci. Abbiamo chiesto di lasciarci in pace perché già aveva picchiato Loredana Lupo. Abbiamo preso le nostre cose e siamo andati fuori mentre continuavano i cori”. Poi è rientrato “per prendere il casco” e ha detto quella frase. E, dice, si rivolgeva a tutti “uomini e donne”.

Se il deputato non si scusa, lo fa per lui il capo della comunicazione M5s della Camera Nicola Biondo che spiega: “Massimo De Rosa ha detto frasi non consone, molto poco riguardose. Dettate dalla rabbia e dalla paura. Gli è stato urlato ‘fascista, fascista’. Lui ha un nonno che è stato deportato per essersi rifiutato di passare dall’esercito italiano a quello nazista e questo lo ha colpito moltissimo, così tanto da fargli dire qualcosa di cui si pente e per cui chiede scusa”. 

fonte: Il fatto quotidiano

venerdì 24 gennaio 2014

Lo stranguglione

« Il vero tema è rimodulare la pressione fiscale. L’immagine della foto di Varese è devastante: la gente in coda per pagare le tasse ti fa venire uno stranguglione al cuore. È allucinante che su un tema su cui avevano detto che non si sarebbe pagato, poi si paga». (Matteo Renzi, 24 gennaio 2014)

Il miracolo degli agnelli devoti


Le Fonti francescane raccontano che
«durante un soggiorno a Roma, il Santo
aveva tenuto con sé un agnellino, mosso
dalla sua devozione a Cristo, amatissimo Agnello.

Nel partire, lo affidò a una nobile matrona,
madonna Jacopa dei Sette Soli, perché lo custodisse
in casa sua. E l’Agnello, quasi ammaestrato
dal Santo nelle cose dello spirito, non si staccava
mai dalla compagnia della signora, quando andava
in chiesa, quando vi restava o ne ritornava. Al
mattino, se la signora tardava ad alzarsi, l’agnello
saltava su e la colpiva con i suoi cornetti, la
svegliava con i suoi belati, esortandola con gesti
e cenni ad affrettarsi alla chiesa. Per questo
la signora teneva con ammirazione e amore
quell’agnello, discepolo di Francesco e ormai
diventato maestro di devozione. […]

Un giorno,
trovandosi San Francesco in cammino nei pressi
di Siena, incontrò un grande gregge di pecore
al pascolo. Secondo il suo solito, le salutò
benevolmente, e quelle, smettendo di brucare,
corsero tutte insieme da lui, sollevando il muso
e fissandolo con gli occhi alzati. Gli fecero tanta
festa che i frati e i pastori ne rimasero stupefatti,
vedendo gli agnelli e perfino gli arieti saltellargli
intorno in modo così meraviglioso. […]


In un’altra circostanza, 




a Santa Maria della Porziuncola, portarono in dono
all’uomo di Dio, una pecora, che egli accettò
con gratitudine, perché amava l’innocenza e la
semplicità che, per sua natura, la pecora dimostra.
L’uomo di Dio ammoniva la pecorella a lodare
Dio e a non infastidire assolutamente i frati.
La pecora, a sua volta, quasi sentisse la pietà
dell’uomo di Dio, metteva in pratica i suoi
ammaestramenti con grande cura. Quando sentiva
i frati cantare in coro, entrava anche lei in chiesa
e, senza bisogno di maestro, piegava le ginocchia,
emettendo teneri belati davanti all’altare della
Vergine, Madre dell’Agnello, come se fosse
impaziente di salutarla. Durante la celebrazione
della Messa, al momento dell’elevazione, si curvava
con le ginocchia piegate, quasi volesse,
quell’animale devoto, rimproverare agli uomini
poco devoti la loro irriverenza e volesse incitare i
devoti alla reverenza verso il Sacramento».


La sua carità si estendeva con cuore di fratello non solo agli uomini provati dal bisogno, ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a tutte le creature sensibili e insensibili. Aveva però una tenerezza particolare per gli agnelli, perché nella Scrittura Gesù Cristo è paragonato, spesso e a ragione, per la sua umiltà al mansueto agnello. Per lo stesso motivo il suo amore e la sua simpatia si volgevano in modo particolare a tutte quelle cose che potevano meglio raffigurare o riflettere l'immagine del Figlio di Dio.
Attraversando una volta la Marca d'Ancona, dopo aver predicato nella stessa città, e dirigendosi verso Osimo, in compagnia di frate Paolo, che aveva eletto ministro di tutti i frati di quella provincia, incontrò nella campagna un pastore, che pascolava il suo gregge di montoni e di capre. In mezzo al branco c'era una sola pecorella, che tutta quieta e umile brucava l'erba. Appena la vide, Francesco si fermò, e quasi avesse avuto una stretta al cuore, pieno di compassione disse al fratello: «Vedi quella pecorella sola e mite tra i caproni? Il Signore nostro Gesù Cristo, circondato e braccato dai farisei e dai sinedriti, doveva proprio apparire come quell'umile creatura. Per questo ti prego, figlio mio, per amore di Lui, sii anche tu pieno di compassione, compriamola e portiamola via da queste capre e da questi caproni ».

Frate Paolo si sentì trascinato dalla commovente pietà del beato padre; ma non possedendo altro che le due ruvide tonache di cui erano vestiti, non sapevano come effettuare l'acquisto; ed ecco sopraggiungere un mercante e offrir loro il prezzo necessario. Ed essi, ringraziandone Dio, proseguirono il viaggio verso Osimo prendendo con sé la pecorina. Arrivati a Osimo si recarono dal vescovo della città, che li accolse con grande riverenza. Non seppe però celare la sua sorpresa nel vedersi davanti quella pecorina che Francesco si tirava dietro con tanto affetto. Appena tuttavia il servo del Signore gli ebbe raccontato una lunga parabola circa la pecora, tutto compunto il vescovo davanti alla purezza e semplicità di cuore del servo di Dio, ne ringraziò il Signore. Il giorno dopo, ripreso il cammino, Francesco pensava alla maniera migliore di sistemare la pecorella, e per suggerimento del fratello che l'accompagnava, l'affidò alle claustrali di San Severino, che accettarono il dono della pecorina con grande gioia come un dono del cielo, ne ebbero amorosa cura per lungo tempo, e poi con la sua lana tesserono una tonaca che mandarono a Francesco mentre teneva un capitolo alla Porziuncola. Il Santo l'accolse con devozione e festosamente si stringeva la tonaca al cuore e la baciava, invitando tutti ad allietarsi con lui.
 

giovedì 23 gennaio 2014

Dove sta andando il Movimento 5 Stelle?

Il fatto quotidiano:
 
Dove sta andando il Movimento 5 Stelle? La sensazione, ora più che mai, è che stia fermo. Percezione tanto pericolosa quanto in buona parte sbagliata. Affermare che M5S sa dire solo no è un falso storico: le loro proposte sono continue e la fase costruttiva esiste. Non si può neanche accusare il Movimento di essere incoerente, anzi l'errore è casomai quello di perseguire una ipercoerenza così granitica da sfociare talora nel duropurismo un po' autistico. Matteo Renzi, al contrario, non è coerente. Sia perché ha le fondamenta ideologiche di Peppa Pig e sia perché ha unicamente a cuore la vittoria. E Renzi vince solo se riconquista anche quei voti di confine che un anno fa abbandonarono il Pd per premiare una forza del tutto inedita.

Una forza che, oggi, per molti è restata troppo a guardare. Bravissima a fare opposizione, e non è poco (nessuno, tranne Di Pietro, l'ha fatta veramente durante il ventennio berlusconiano). Ma troppo immobile, e pure compiaciuta nel suo autocongelarsi, ogni volta che poteva realmente incidere: per esempio nel secondo giro di consultazioni a marzo, quando non venne fatto il nome di Rodotà (o Zagrebelsky, o Settis); e per esempio in questi giorni. Grillo e Casaleggio non hanno imposto alcuna scelta: la maggioranza dei parlamentari 5 Stelle è d'accordo con la loro linea dura. Non è d'accordo invece la maggioranza degli elettori, e una delle anomalie del M5S è proprio questa sfasatura tra rappresentanti e votanti.
Non c'è nulla di strano nell'incontro di Renzi con Berlusconi: è solo l'allievo che omaggia il maestro, nei confronti del quale prova "profonda sintonia". Berlusconi non ha bisogno di chiedere alla figlia Marina di candidarsi per avere un erede in politica: lo ha già trovato nel sindaco part-time di Firenze. Renzi ha però ragione, e tanta, quando dice che prima di incontrare Berlusconi ha bussato alla porta dei 5 Stelle. I quali, con aria saputella, hanno risposto sdegnati: "Le leggi si discutono in Parlamento e non al Nazareno", "Renzi caccia i soldi", bla bla bla. É molto bella, e molto nobile, l'idea dei 5 Stelle di consultare la base online per capire quale legge elettorale sia preferibile. Se lo facesse anche Renzi, scoprirebbe che il suo "Italicum" (o piuttosto "Verdinum") piace assai poco a chi un mese fa gli ha regalato una investitura plebiscitaria.

Solo che, mentre i 5 Stelle stanno sopra gli alberi come tanti baroni rampanti di calviniana memoria, gli altri non perdono tempo: nuova legge elettorale, e già che ci sono Titolo V da cambiare, e pure il Senato da abolire. Sotto la foto del Che Guevara, al Nazareno, si è seduto Berlusconi: se Ernesto lo avesse saputo, avrebbe certo evitato di andare in Bolivia (se non in villeggiatura). Se al suo posto ci fossero stati Di Maio o Morra, Di Battista o Taverna, avremmo ora una storia diversa: una storia migliore. E il bluff renziano sarebbe oggi manifesto.
Invece, mentre buona parte dei giornalisti si esibisce nel suo sport preferito (l'inchino al potente, ieri Berlusconi e oggi Berluschino), i 5 Stelle stanno alla finestra. Come a marzo. Non solo: ora che Renzi prosegue spedito nella sua guerra lampo, così accecato dalla sua ambizione da non accorgersi che il "Verdinum" può regalare un'altra vittoria a Berlusconi (costringendo Ncd e Lega ad accordarsi con lui), Grillo fa ironia. Parla di "Pregiudicatellum", e fa bene, perché è allucinante che la cosiddetta Terza Repubblica abbia come padre costituente un pregiudicato. Ieri Piero Calamandrei, oggi Silvio Berlusconi: roba da suicidarsi.

C'è però poco da ironizzare, perché quello dei 5 Stelle è se va bene cinismo sperticato e se va male miopia politica clamorosa. Se l'obiettivo dei 5 Stelle è fare opposizione in eterno, o vincere il premio dei mejo fighi del bigoncio, hanno pochi rivali; se però si intende anche cambiare davvero le cose, ogni tanto occorrerebbe essere appena elastici. Per meglio dire concreti. E - sì - anche un po' furbi (che non vuol dire incoerenti). Il "Verdinum" è un obbrobrio, ma sono stati anche i 5 Stelle a consegnare Renzi all'abbraccio di Berlusconi. Grillo e Casaleggio tutto sono fuorché stupidi. Sanno, per esempio, che il "Verdinum" potrebbe paradossalmente agevolarli. Al ballottaggio potrebbero finirci pure loro, se nel frattempo Renzi e Renzi (pardon Berlusconi) deluderanno. E al ballottaggio tutto è possibile. Grillo, dal canto suo, pare orientato a un nuovo tour (a pagamento).

Forse perché si sta annoiando della politique politicienne, forse perché ha bisogno dell'adrenalina da palcoscenico, forse - come sostengono i detrattori - per far cassa. I "dissidenti", come Lorenzo Battista, ammettono che una grande occasione è stata persa, e nel loro dissenso non si scorgono le fattezze del voltagabbanismo à la Favia o Gambaro, ma piuttosto un naturale buon senso. Sono giorni decisivi, e spiace che i 5 Stelle si siano messi all'angolo da soli. Hanno meriti enormi e potenzialità considerevoli. Ogni tanto, però, quando il treno passa, bisognerebbe provare a salirci. Non solo limitarsi a prendere a schiaffi i viaggiatori che si sporgono dal finestrino, come tanti Ugo Tognazzi 2.0.

Da ‘Il Foglio'
Smacchiare o non smacchiare Beppe Grillo, questo il dilemma per il Fatto, quotidiano che da un lato voleva un M5s duro e puro e dall'altro un M5s duro ma aperto al dialogo (evitare di mettersi "in freezer", era il consiglio di Marco Travaglio). E infatti, nell'ultimo anno, il Fatto è passato dall'endorsement convinto al sostegno guardingo (con fastidio per "i nomi non fatti" nelle consultazioni con Giorgio Napolitano), alla critica occasionale per gaffe ed epurazioni ("suicidio di massa", aveva scritto Travaglio dopo l'allontanamento di Adele Gambaro), allo sconcerto per i vertici del M5s che sconfessano gli eletti sul reato di clandestinità (in autunno).

Ma poi il Fatto, in nome dell'anticasta e del "no" al governo "Letta-Napo", sempre perdonava l'imperfezione del Grillo. Solo che adesso, con Matteo Renzi in accelerazione sulla scena, s'è fatta evidente la disillusione nei confronti di colui che "non va a vedere le carte" (già a fine dicembre Travaglio si rammaricava per il sonoro "vaffa" di Beppe alle prime offerte di dialogo di Renzi). E domenica scorsa l'entente cordiale Fatto-Grillo ha subìto il grande scossone: "Renzi", ha scritto Travaglio, "s'è rivolto innanzitutto a Grillo che ha commesso un grave errore nel rispondere picche, rinchiudendosi autisticamente nel web-referendum fra gli iscritti...".
Ieri il bis, pur con bastonate a Renzi: "... il M5s poteva andare a vedere le sue carte sul Mattarellum e portarlo a casa". E se il Fatto, già chiamato "falso amico" sul blog del comico, è in linea con i cosiddetti dissidenti a cinque stelle, questo non scioglie il rompicapo: il Grillo smacchiato scontenta i puristi, ma il Grillo non smacchiato rischia l'irrilevanza.

sabato 4 gennaio 2014

La santa e bella inquietudine

Chiesa del Gesù, Roma Venerdì, 3 gennaio 2014
 
San Paolo ci dice, lo abbiamo sentito: «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2, 5-7). Noi, gesuiti, vogliamo essere insigniti del nome di Gesù, militare sotto il vessillo della sua Croce, e questo significa: avere gli stessi sentimenti di Cristo. Significa pensare come Lui, voler bene come Lui, vedere come Lui, camminare come Lui. Significa fare ciò che ha fatto Lui e con i suoi stessi sentimenti, con i sentimenti del suo Cuore.
Il cuore di Cristo è il cuore di un Dio che, per amore, si è «svuotato». Ognuno di noi, gesuiti, che segue Gesù dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso. Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli «svuotati». Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa. E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta. Per questo, essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Questa santa e bella inquietudine!
Ma, perché peccatori, possiamo chiederci se il nostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca o se invece si è atrofizzato; se il nostro cuore è sempre in tensione: un cuore che non si adagia, non si chiude in se stesso, ma che batte il ritmo di un cammino da compiere insieme a tutto il popolo fedele di Dio. Bisogna cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo ancora e sempre. Solo questa inquietudine dà pace al cuore di un gesuita, una inquietudine anche apostolica, non ci deve far stancare di annunciare il kerygma, di evangelizzare con coraggio. È l’inquietudine che ci prepara a ricevere il dono della fecondità apostolica. Senza inquietudine siamo sterili.
È questa l’inquietudine che aveva Pietro Favre, uomo di grandi desideri, un altro Daniele. Favre era un «uomo modesto, sensibile, di profonda vita interiore e dotato del dono di stringere rapporti di amicizia con persone di ogni genere» (Benedetto XVI, Discorso ai gesuiti, 22 aprile 2006). Tuttavia, era pure uno spirito inquieto, indeciso, mai soddisfatto. Sotto la guida di sant’Ignazio ha imparato a unire la sua sensibilità irrequieta ma anche dolce, direi squisita, con la capacità di prendere decisioni. Era un uomo di grandi desideri; si è fatto carico dei suoi desideri, li ha riconosciuti. Anzi per Favre, è proprio quando si propongono cose difficili che si manifesta il vero spirito che muove all’azione (cfr Memoriale, 301). Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo. Ecco la domanda che dobbiamo porci: abbiamo anche noi grandi visioni e slancio? Siamo anche noi audaci? Il nostro sogno vola alto? Lo zelo ci divora (cfr Sal 69,10)? Oppure siamo mediocri e ci accontentiamo delle nostre programmazioni apostoliche di laboratorio? Ricordiamolo sempre: la forza della Chiesa non abita in se stessa e nella sua capacità organizzativa, ma si nasconde nelle acque profonde di Dio. E queste acque agitano i nostri desideri e i desideri allargano il cuore. E’ quello che dice Sant’Agostino: pregare per desiderare e desiderare per allargare il cuore. Proprio nei desideri Favre poteva discernere la voce di Dio. Senza desideri non si va da nessuna parte ed è per questo che bisogna offrire i propri desideri al Signore. Nelle Costituzioni si dice che «si aiuta il prossimo con i desideri presentati a Dio nostro Signore» (Costituzioni, 638).
Favre aveva il vero e profondo desiderio di «essere dilatato in Dio»: era completamente centrato in Dio, e per questo poteva andare, in spirito di obbedienza, spesso anche a piedi, dovunque per l’Europa, a dialogare con tutti con dolcezza, e ad annunciare il Vangelo. Mi viene da pensare alla tentazione, che forse possiamo avere noi e che tanti hanno, di collegare l’annunzio del Vangelo con bastonate inquisitorie, di condanna. No, il Vangelo si annunzia con dolcezza, con fraternità, con amore. La sua familiarità con Dio lo portava a capire che l’esperienza interiore e la vita apostolica vanno sempre insieme. Scrive nel suo Memoriale che il primo movimento del cuore deve essere quello di «desiderare ciò che è essenziale e originario, cioè che il primo posto sia lasciato alla sollecitudine perfetta di trovare Dio nostro Signore» (Memoriale, 63). Favre prova il desiderio di «lasciare che Cristo occupi il centro del cuore» (Memoriale, 68). Solo se si è centrati in Dio è possibile andare verso le periferie del mondo! E Favre ha viaggiato senza sosta anche sulle frontiere geografiche tanto che si diceva di lui: «pare che sia nato per non stare fermo da nessuna parte» (MI, Epistolae I, 362). Favre era divorato dall’intenso desiderio di comunicare il Signore. Se noi non abbiamo il suo stesso desiderio, allora abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera e, con fervore silenzioso, chiedere al Signore, per intercessione del nostro fratello Pietro, che torni ad affascinarci: quel fascino del Signore che portava Pietro a tutte queste “pazzie” apostoliche.
Noi siamo uomini in tensione, siamo anche uomini contraddittori e incoerenti, peccatori, tutti. Ma uomini che vogliono camminare sotto lo sguardo di Gesù. Noi siamo piccoli, siamo peccatori, ma vogliamo militare sotto il vessillo della Croce nella Compagnia insignita del nome di Gesù. Noi che siamo egoisti, vogliamo tuttavia vivere una vita agitata da grandi desideri. Rinnoviamo allora la nostra oblazione all’Eterno Signore dell’universo perché con l’aiuto della sua Madre gloriosa possiamo volere, desiderare e vivere i sentimenti di Cristo che svuotò se stesso. Come scriveva san Pietro Favre, «non cerchiamo mai in questa vita un nome che non si riallacci a quello di Gesù» (Memoriale, 205). E preghiamo la Madonna di essere messi con il suo Figlio.

Papa Francesco
fonte: www.vatican.va

La spending review nella visione di Cottarelli

I processi di revisione della spesa sono spesso visti in Italia come pure operazioni di riduzione della spesa. Certo, nello specifico contesto italiano il risparmio di spesa è un obiettivo di questa revisione della spesa (visto il bisogno, reiterato dal Presidente del Consiglio Letta anche nella conferenza stampa di fine anno, di rinvenire risorse per ridurre la tassazione sul lavoro senza sfasciare i conti pubblici). Ma le spending review (mi si consenta di utilizzare, al contrario di quello che faccio solitamente, questo e altri termini in inglese visto che farò riferimento a pratiche di bilancio internazionali) mirano in primo luogo ad una valutazione della qualità della spesa pubblica, di quello che nei paesi anglosassoni si chiama "value for money", l'uso delle risorse pubbliche per produrre servizi che servano davvero al cittadino e che valgano il carico che inevitabilmente essi richiedono per il cittadino-contribuente. L'enfasi è quindi sulla qualità della spesa e non necessariamente sul suo volume.
Valutare se interventi di spesa producono effettivamente valore per la collettività - e non solo per qualcuno - e se sono davvero delle priorità (rispetto ad altri utilizzi, compresa la riduzione del carico fiscale) richiede una analisi attenta che deve coinvolgere l'intera gestione del bilancio delle pubbliche amministrazioni. In effetti le spending review sono una componente di un nuovo approccio alla gestione della spesa pubblica che ha ormai preso piede in molti paesi avanzati. Mi riferisco al "performance budgeting", la preparazione del bilancio sulla base della performance, cioè dei risultati che si vogliono ottenere e non semplicemente dell'allocazione dei fondi a diversi percettori pubblici e privati. Questo approccio richiede di:
  • definire - in modo chiaro e trasparente - gli obiettivi che si vogliono raggiungere con i vari programmi di spesa (da qui il termine di "program budgeting" che viene pure usato per descrivere questo processo);
  • chiarire perché tali obiettivi sono importanti;
  • definire degli indicatori (o altri processi equivalenti) per capire ex post se gli obiettivi sono stati raggiunti e se il programma di spesa è stato effettivamente utile.
La spending review è solo l'ultima fase di questo processo di gestione della spesa pubblica. E' la fase in cui si valuta se i programmi di spesa siano stati validi, se vadano continuati o se le risorse debbano essere destinate ad un miglior uso.
Seguendo questo approccio si evitano interventi di spesa che:
  • definiscano il percettore delle risorse ma di norma non i risultati che ci si vogliono ottenere;
  • non siano accompagnati da alcuna analisi comparata sull'uso alternativo delle risorse;
  • non facciano parte di una strategia volta a risultati significativi ma sono "episodici";
  • siano troppo piccoli per fare una differenza effettiva a livello collettivo (ma, nel loro complesso possano comunque avere un peso rilevante sul bilancio pubblico).
Vista la necessità di focalizzare le decisioni di spesa su una analisi, anche complessa, degli obiettivi che si intendono raggiungere, il performance budgeting è anche tipicamente accompagnato ad una riduzione della frequenza di interventi episodici: valutare la qualità della spesa è un esercizio che obbliga ad un intervento di elevata qualità ma parsimonioso in termini di frequenza degli interventi. In altri termini, fa premio la spesa di alta qualità in progetti strategici rispetto ad un approccio di continua aggiunta di nuovi programmi di spesa.
Si noti che, in linea di principio, la legge 196 del 2009 sul bilancio dello Stato introduceva il "performance budgeting" anche in Italia (in realtà i primi tentativi di introdurre indicatori di qualità della spesa risalgono al 1999, se non prima). Ma in pratica i processi di preparazione del bilancio, e i processi di spesa in generale, non sono cambiati e seguono ancora spesso la logica dell'individuazione della destinazione della spesa piuttosto che quella dei risultati che si vogliono ottenere. Il bilancio dello Stato viene presentato in termini di programmi, ai quali sono associati indicatori di risultato. Ma programmi e indicatori sono spesso definiti in modo inadeguato. Inoltre, i principi del performance budgeting dovrebbero essere applicati ad ogni decisione di spesa, anche a quelle che vengono prese al di fuori del ciclo regolare di bilancio (che dovrebbero comunque essere minimizzate per consentire una valutazione comparata del merito di vari programmi di spesa e per garantire l'unitarietà del bilancio). 
Come indicato nel mio programma di lavoro, approvato dal Comitato interministeriale per la Revisione della Spesa, l'attività di RS appena iniziata è anche volta a rendere effettiva la riforma del 2009. Non sarà facile, ma migliorare la gestione della spesa pubblica è essenziale perché servizi pubblici di alta qualità, forniti al più basso costo possibile, sono essenziali per la crescita.

Carlo Cottarelli
www.revisionedellaspesa.gov.it

mercoledì 1 gennaio 2014

Preavviso

Si riaccende la polemica sui decreti Milleproroghe, all’indomani del via libera del Capo dello Stato Giorgio Napolitano. In particolare, lo scontro verte sulla norma “affitti d’oro”, che permette alle amministrazioni pubbliche di recedere dai contratti di locazione passiva entro il 30 giugno. “Una legge truffaldina“, attacca il Movimento 5 Stelle, cui risponde a stretto giro il governo, per bocca del sottosegretario Pierpaolo Baretta: “Non c’è nessun errore”.
“Abbiamo scoperto una nuova porcata sugli affitti d’oro: il milleproroghe non dà il tempo materiale per poter esercitare il recesso dai contratti”, si legge in una nota diffusa dal gruppo M5s della Camera che fa riferimento ad un post del portavoce Riccardo Fraccaro. “È una legge truffaldina che ha l’effetto di neutralizzare la norma anticasta del M5S, rendendo di fatto impossibile disdire le locazioni milionarie. Con questo provvedimento i 26 milioni di euro l’anno per l’affitto dei palazzi Marini, ad oggi costati quasi 500 milioni di euro ai contribuenti, continueranno ad essere sperperati dalla Camera”.
L’accusa dei Cinque Stelle entra nel merito del decreto: “L’articolo 2 del provvedimento prevede che si possa rinunciare alle locazioni degli immobili entro il 30 giugno 2014 ma con un preavviso di 180 giorni. Il recesso, quindi, dev’essere chiesto entro 6 mesi, ma bisogna dare un preavviso di 6 mesi per poterlo esercitare: i due termini coincidono, facendo così saltare i tempi tecnici per il recesso”.
Ma il sottosegretario Baretta respinge le accuse al mittente. Ai microfoni di SkyTg24, il sottosegretario all’Economia precisa che quei 180 giorni indicano l’arco di tempo minimo che deve passare tra la richiesta di recesso e la scadenza del contratto. Una richiesta che è possibile avanzare nella finestra compresa tra l’approvazione del decreto e il 30 giugno 2014. ”Il decreto – conferma poi Palazzo Chigi con un tweet – prevede 6 mesi da 1 gennaio 2014 per disdire. Da quel giorno scattano 6 mesi entro cui rilasciare immobile”.

fonte: Il fatto quotidiano.it

La peggior forma di governo

  " La democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate " Winston Churchill a...