domenica 9 ottobre 2011

Diverse interpretazioni del concetto di sussidiarietà

Confesso la mia diffidenza verso una certa retorica bipartisan. Specie in una stagione politica nella quale l'oggettiva esigenza di fronteggiare l'emergenza e di invocare il senso di una responsabilità comune può condurre a offuscare le differenze politiche e a misconoscere la funzione costituzionale dell'opposizione. Alla quale compete sì di non sottrarsi al dovere di cooperare alla fuoriuscita dalla crisi, ma anche di porre le premesse di un'alternativa. La qualità e la forza di una democrazia si misurano anche dalla sua capacità di non rinunciare, pure dentro le emergenze, ai fondamentali della stessa democrazia. 
Tra questi appunto la funzione costituzionale di un'opposizione degna di questo nome. Tanto più diffido della retorica bipartisan in tema di sussidiarietà. Un principio prezioso, sia chiaro, che, con la riforma del titolo quinto, abbiamo messo in Costituzione. Un principio cardine anche dell'insegnamento sociale della Chiesa sin dalla enciclica "Quadragesimo Anno" di Pio XI del 1931. Ma anche una parola decisamente inflazionata e dal significato mobile e spesso equivocato. E' la ragione per la quale non ho mai aderito alla pur affollata associazione parlamentare bipartisan per la sussidiarietà. Associazione sulla quale cercano di mettere il cappello gli uomini di Formigoni, che teorizza e soprattutto pratica una sua visione della sussidiarietà. Si pensi al sistema sanitario lombardo. Una visione legittima, ma che non può essere spacciata come "la" sussidiarietà. Semmai come una interpretazione politica di essa. Dalla quale è lecito dissentire.

La sussidiarietà cosiddetta orizzontale corrisponde a un'idea del rapporto tra società e Stato che riconosce e valorizza tutte le espressioni sane dell'autonomia sociale. Delle comunità naturali, a cominciare dalla famiglia, e dei corpi intermedi (appunto posti in mezzo tra il cittadino singolo e le istituzioni politiche). Di più: come recita il nuovo art. 118, lo Stato favorisce lo stesso esercizio di funzioni pubbliche da parte delle formazioni sociali. Vi sottende una visione dello Stato in senso personalistico e pluralistico. Personalistico in quanto subordinato e servente le persone singole e associate, impegnato verso i loro diritti e sollecito verso i loro bisogni. L'opposto delle visioni statalistiche o addirittura statolatriche. Pluralistico perché riconosce e promuove quella ricca trama di esperienze associative che si dipanano tra la persona e le istituzioni e le responsabilizza nello stesso soddisfacimento delle domande di prestazioni e di servizi pubblici che ad essi fanno capo. Sin qui tutti d'accordo. Ma proprio qui si innesta una distinzione. Il principio di sussidiarietà, che certo incorpora la suddetta visione e le connesse opzioni di valore, si qualifica tuttavia come principio regolativo dei rapporti tra persona-società-Stato che attiene al modo e ai mezzi del soddisfacimento dei bisogni attraverso l'esercizio di funzioni pubbliche. Esso va orientato e subordinato a un fine che lo trascende. Quello fissato solennemente nell'art. 2 della nostra Carta fondamentale che così si esprime: la Repubblica riconosce e garantisce i diritti fondamentali della persona sia come singolo sia nelle formazioni nella quali si sviluppa la sua personalità. Attenzione ai verbi impegnativi: riconosce la preesistenza di quei diritti rispetto alla stessa comunità politica e soprattutto - ecco il punto - garantisce il soddisfacimento di quei diritti. Questo è il fine, questo è ciò che ultimamente conta sotto il profilo costituzionale. Non è precisazione di poco momento. Pena celebrare enfaticamente la sussidiarietà (che, ripeto, è principio regolativo prezioso e tuttavia servente il fine), magari sottacendo appunto la sua finalizzazione: quella di garantire l’effettività di diritti fondamentali. Qui si fonda il diritto-dovere dello Stato e delle sue articolazioni a un sano, virtuoso interventismo. 
L'opposto di una visione angustamente liberista dello Stato (minimo e residuale) o confederativa della società ove gruppi e comunità, magari omogenei ideologicamente, si organizzano nel segno della separatezza e dell'autosufficienza, pretendendo dalle istituzioni solo provvidenze o beni strumentali. Misconoscendo da un lato il preciso dovere dello Stato di assicurare che tali beni-diritti siano garantiti a tutti i cittadini e dall’altro rapportandosi ad esso solo in termini rivendicavi e particolaristici. In definitiva denegando il valore simbolico ed etico dell'appartenenza alla Repubblica intesa, al modo dei costituenti, come casa comune. Una cosa è rifiutare lo Stato etico, tutt'altra cosa è negare la valenza etica dell'appartenenza alla Repubblica. La quale a sua volta si impegna a garantire effettività e universalità all'esercizio dei diritti di cittadinanza anche quando i privati e le formazioni sociali da se soli non sono in grado di farlo. In sintesi, una visione sociale e solidaristica dello Stato nella quale inscrivere lo stesso principio di sussidiarietà. Il quale non contrasta con un ben inteso primato della politica e del suo compito di regolazione e di indirizzo della dinamica civile.

Come poi in concreto raccordare domanda sociale e risposta istituzionale, con quali mezzi e in quali forme, è questione affidata anche alle legittime e diverse visioni politiche. Ecco perché non si deve esagerare nell'immaginare che il principio di sussidiarietà sortisca una e una sola azione politica. Ci sono modi diversi di interpretarlo e di tradurlo politicamente. Non saranno né il tavolo parlamentare bipartisan, né il meeting di Rimini ad esonerarci dal dovere di elaborare politicamente una nostra idea della sussidiarietà. Che è francamente diversa da quella praticata da Formigoni.
Franco Monaco, Tamtàm

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