domenica 10 febbraio 2013

A capo del popolarismo europeo in Italia

“Monti è in politica per unire”. L’allusione è cauta, democristiana com’è democristiano l’uomo che la pronuncia, ma Andrea Riccardi, pur felpato e mediorientale, in realtà ci pensa eccome. E infatti quando gli si suggeriscono le parole “grande” e “coalizione” lui sorride e dice che “è una possibilità che non escludo affatto”.
La verità è che la grande coalizione è proprio l’obiettivo auspicato dai montiani che si figurano un rapporto col Pd (depurato da Nichi Vendola) e con il Pdl (depurato dalla Lega e dagli ultrà berlusconiani). Non a caso l’immagine di un taglio delle estreme fa brillare gli occhi del ministro Riccardi: “Mi piace molto”, confessa. Ma poi arretra, e fa esercizio di modestia: “Adesso dobbiamo prendere i voti e occuparci della campagna elettorale. Saranno i numeri a darci la base per decidere cosa fare. Senza orientamenti precostituiti”. Il che potrebbe significare una cosa molto importante. Qualora i montiani fossero decisivi per la costituzione della prossima maggioranza e del prossimo governo, il professore potrebbe porre una condizione decisiva: l’allargamento della maggioranza alle forze responsabili del Pdl.
“L’Italia ha bisogno di riforme incisive”, dice Riccardi mentre viaggia in macchina verso Latina, dove terrà un incontro pubblico con i sostenitori della lista Monti. “Ma per fare delle riforme incisive come quella elettorale – spiega – sono necessarie larghe intese tra le forze politiche. Noi lavoriamo per costruire unità”. Anche nel Pd guardano al centro montiano con attenzione, malgrado i battibecchi e le baruffe episodiche. Nella carta degli intenti, il documento fondativo della coalizione guidata da Pier Luigi Bersani, c’è pure scritto: “I progressisti dovranno cercare un terreno di collaborazione con le forze del centro liberale e si impegnano a promuovere un accordo di legislatura con queste forze”. Commenta Riccardi: “E’ molto interessante. Ma quando è stato siglato questo documento?”. Il 13 ottobre. “Ecco, noi siamo nati a novembre. Forse significa che la sinistra voleva che nascessimo. Ma noi non abbiamo orientamenti prestabiliti rispetto alle forze con cui potremmo allearci dopo”. C’è anche il Pdl.
Ma che significa non avere orientamenti prestabiliti? “Non faremo la politica dei due forni, ma cercheremo alleanze per governare. Non staremo con chi ci darà più spazio. Non possiamo immaginare oggi la maggioranza di domani, ma staremo con chi ci aiuterà a realizzare l’agenda Monti”. E’ lecito immaginare che l’alleanza possa comprendere il Pdl, o una parte di esso. Ma ecco il discrimine: “Mai con chi vuole dividere il Paese” (niente Maroni). E “mai con chi difende lobby e privilegi” (niente Vendola), perché “se troppo grande – dice il ministro montiano – la grande coalizione può diventare un freno alle riforme”.
A Riccardi e a Monti non piacciono i populisti “che si agitano contro l’Europa”, e Silvio Berlusconi in questo momento è uno di quelli. Non è “coalizzabile”, almeno per come appare adesso in capagna elettorale. Ma poi? La risposta di Riccardi è sorprendente, il ministro fa capire che un pezzo del partito del Cavaliere finirà a sedersi con Monti in Aula. “Il Pdl era quasi esploso”, dice. “Poi si è un po’ ricompattato, nella confusione, ancora una volta attorno al carisma di Berlusconi. Ma dopo il voto come sarà gestibile questo partito e questo mondo disgregato?”. Ampi segmenti del Pdl molleranno il Cavaliere appena insediati in Parlamento. “Il gruppo montiano – dice Riccardi – sarà un polo attrattivo, anche perché dentro il Pdl c’è già stato un profondo divorzio politico e culturale”. E dunque a voler essere maliziosi, il ministro in realtà sta descrivendo l’equilibrio e la meccanica della grande coalizione a venire. Questa la scena un minuto dopo il voto: il Pdl si spacca e un pezzo di cattolici e liberali va a sedersi in Aula a ingrossare i banchi del montismo. A questo punto, forte di questo passaggio, Monti sarà il  capo del popolarismo europeo in Italia, il leader della destra accettabile e legittimata all’estero, l’artefice di un rapporto di grande coalizione che il Pd ha di fatto già teorizzato nella sua carta degli intenti.

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