domenica 21 luglio 2013

Un'amicizia mancata

Non sbaglia l’arcivescovo di Ferrara Luigi Negri a definirlo nella sua effervescente introduzione «uno straordinario testo». È il saggio su Paul Claudel e Charles Péguy, esaminati quasi al microscopio da Henri De Lubac, uno dei padri del Concilio Vaticano II, e Jean Bastaire, giornalista e discepolo del grande gesuita francese. Il primo morirà cardinale nel 1991. Il secondo, classe 1927, approdato al cristianesimo grazie a Péguy, ha consacrato la vita allo studio del poeta di Orléans, caduto in guerra il 5 settembre 1914, primo giorno della battaglia della Marna. Così, allo scoccare dei quarant’anni dell’edizione francese, arriva finalmente la prima traduzione italiana di un saggio tanto penetrante quanto avvincente sulle relazioni, al tempo stesso di stima e di allergia reciproca, tra i due maggiori scrittori cristiani del secolo scorso.
 
Edito dalla fondazione veneziana (Marcianum) voluta dal patriarca e ora arcivescovo di Milano Angelo Scola, il volume fu concepito in vista del centenario della nascita di Péguy e doveva essere una presentazione del carteggio custodito presso il Centro Charles Péguy di Orléans. Quattro lettere di Claudel, una di Péguy e quattro dediche di Péguy a Claudel. «Così verso la fine – annoterà De Lubac – ho avuto l’occasione di salutare due geni che ho abbinato (quasi di nascosto, perché intorno a me nessuno sembrava riconoscerne il valore) fin dall’inizio del mio noviziato nel 1913, in un taccuino che mi ha accompagnato per lungo tempo. La lettura di Claudel mi esaltava e mi esauriva; quella di Péguy, anche nelle sue polemiche più fumose, mi rilassava sempre».

Problemi di salute impediranno a De Lubac di proseguire l’impresa oltre il centinaio di pagine introduttive. Così toccò a Bastaire annodare il filo dell’opera. Il risultato appare così convincente che l’unica domanda che sorge nel lettore è: com’è possibile che un gioiello del genere sia rimasto insabbiato per quasi mezzo secolo? Il peguyano Antonio Socci risponderebbe: «Sono le curie che interessano ai media, non i cristiani (e neanche i santi). Come diceva Péguy, le “curie clericali” e le “curie anticlericali” si trovano sempre accomunate dal loro orizzonte, che infine è un orizzonte politico e di potere. Paradossalmente fra coloro che si possono definire “non clericali” ci sono proprio Joseph Ratzinger e Jorge M. Bergoglio». È talmente giusta questa osservazione che, a fronte dell’irrilevanza culturale dell’editoria cattolica, la sorpresa di questo libro sembra della stessa luminosa natura dell’imprevedibilità di papa Francesco e dell’amicizia tra i due, Bergoglio e Ratzinger.

Cosa dice la Lumen Fidei a proposito dell’amore se non, essenzialmente, che «non esiste amore senza verità»? Sembra l’enciclica fatta apposta per illuminare ciò che ha unito anche Péguy e Claudel, pur nel contrasto di temperamenti così apparentemente opposti. «Mi spiace non averlo conosciuto», scriverà all’indomani della morte dell’autore del trittico dei Misteri il poeta ambasciatore Claudel. «Aveva una cattiva opinione di me. Credeva fossi un franco-massone», aveva sospettato Péguy. «Claudel è un grande artista, ma non è intelligente». E in un certo senso il giudizio sembrava cogliere nel segno se è vero che l’autore dell’Annuncio a Maria una volta confidò a un amico: «Ma in fin dei conti, chi è questo Péguy? E cosa vuole? I suoi figli non sono neppure battezzati ma li affida alla Santa Vergine. Non riesco proprio a capire».

In realtà l’intelligenza di Claudel, che era stato avvicinato alla lettura di Péguy niente meno che dal giovane André Gide, aveva capito una cosa essenziale dell’anarco-socialista e cattolico escluso da tutti i sacramenti: «Definire Péguy un convertito… Sarebbe più giusto affermare che un giorno egli si accorse di essere diventato cristiano. È così che il Cher o l’Indro avvertono impercettibilmente di essere confluiti nella Loira e di avere iniziato a dare impulso ai suoi flutti e al suo corso». Solo Péguy fu più esatto. «È per un approfondimento costante del mio cuore sul medesimo cammino e non è affatto per un’evoluzione né per un ripensamento che ho trovato la strada del cristianesimo». Una volta sola Péguy chiese appuntamento a Claudel. E quell’unica volta Claudel non rispose. «Onoro Péguy ma con distacco. Camminiamo su due binari completamente separati che si incontrano solo idealmente». Era il 1930. L’amministratore dei Cahiers era morto da sedici anni. E dire che lui, l’«istitutore sporco d’inchiostro fino alla punta del naso» come lo chiamava Claudel, ci ha avvertiti: «Dobbiamo guardarci dai parroci. Essi non hanno fede o ne hanno poca. La fede, quando c’è, si può trovare nei laici».

Sconvolgente Péguy che condivideva con Cartesio la ripugnanza per l’inazione e anche per la sola esitazione. «Qualunque cosa è meglio che girare a vuoto. Muoversi, avanzare, arrivare da qualche parte. Arrivare altrove piuttosto che non arrivare… L’errore più grande ancora una volta è errare». Comprensibile che l’ultima parola di Claudel su Péguy sia stata la conferma di una fraternità vera, ma nella radicale diversità. «Siamo ambedue cristiani giunti alla religione in maniera particolare… non per la via abituale. Ma devo riconoscere che non abbiamo scalato dallo stesso lato, eravamo su versanti differenti… avremmo potuto incontrarci soltanto in cima».

Contrasti apparenti, insisterà a spiegare il gesuita Pierre Ganne. «Claudel, che si definiva un “uomo d’ordine”, era profondamente anarchico; Peguy, il “rivoluzionario”, portava in sé quasi l’ossessione dell’“ordine organico” della “città Armoniosa”». Il fatto curioso è che doveva arrivare De Lubac a puntualizzare con dovizia di particolari il controverso quadro culturale e la filologia degli opposti che convivevano nei Cahiers (i grandi della letteratura francese sono passati di lì, ma per decenni il loro editore restò un signor nessuno). E dimostrare che piuttosto che una “rivista” letteraria «i Cahiers non cesseranno mai di essere uno strumento di lotta».

fonte: Tempi

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