venerdì 19 dicembre 2014

I Promessi Sposi nella lettura del Vescovo

Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, rilegge I promessi sposi. Quella che segue è l’illustrazione dell’iniziativa che si è svolta nel teatro cittadino di Ferrara, in cui l’arcivescovo ha affrontato il testo del capolavoro manzoniano in chiave non tanto letteraria, ma pastorale e catechetica. Da essa è stato tratto un libro e un video, edito da Mimep. Insieme al cofanetto con le conferenze di Negri, Mimep ripropone per il Natale 2015 con una nuova sovracopertina la riproduzione anastatica della edizione integrale del 1840 de I promessi sposi e Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Il volume contiene tutte le illustrazioni originali di Francesco Gonin realizzate sotto l’attento controllo del Manzoni.
 
Uno degli insegnamenti più preziosi che ho ricevuto, dalla lunghissima convivenza con Mons. Giussani e dai fervidi anni vissuti in seminario a Venegono, è che la grande letteratura costituisce uno strumento formidabile per approfondire il senso della fede e per comunicarlo in modo suggestivo. Ho pensato, così, di utilizzare il romanzo de “I Promessi Sposi” per aiutare il popolo cristiano di Ferrara-Comacchio, e non solo, a ritrovare le linee fondamentali del cristianesimo come annuncio di vita vera e quindi la possibilità di essere educato a sperimentarla e viverla in pienezza, comunicandola a tutti gli uomini.

Ho scelto come esergo delle sette lezioni, seguendo alcuni dei protagonisti di questa grande epopea del popolo cristiano, il brano in cui don Rodrigo afferma che “Lucia, Agnese e Renzo sono gente perduta sulla terra che non hanno neanche un padrone”. Tale scelta tematica vuole mostrare come si può anche non avere padrone sulla terra ma, se si vive da figli di Dio, si può fare un’esperienza di novità umana e cristiana tale da costituire la più vera e grande contestazione al nulla, rappresentato dal potere e dai suoi orgogliosi epigoni.

L’incontro con Cristo, nel mistero della Chiesa, è l’incontro con l’uomo così com’è, nelle sue circostanze positive, con le sue aperture d’animo e di cuore ma anche con le sue grettezze e meschinità, che sono il peso inesorabile dei condizionamenti sociali in cui ciascuno di noi vive.
Si può essere nella fede, come Lucia, quasi per una buonissima e istintiva consuetudine. Si può aver recuperato la fede, come padre Cristoforo, sotto l’urto di vicende drammatiche e tragiche. Si può pensare che la fede sia semplicemente il contesto, anche scenografico, di una vita dominata dal potere, come la concepiscono tutti i potenti che compaiono nel romanzo fino al più turpe e mellifluo: il Conte Zio del consiglio segreto. Si può essere povera gente sballottata e manipolata dai più forti di questo mondo.

L’uomo così com’è può vivere una vita chiusa al mistero, e avviarsi verso il suo annullamento, ma può anche vivere attento ai segni che Dio gli manda e agli incontri che gli fa fare, e questa è la grande esperienza di una vita cristiana che diventa inesorabilmente consapevole di sé.
Da qualsiasi punto si parte, l’incontro con la fede è qualche cosa di radicalmente nuovo, nel quale si annodano i fili di una lontana innocenza dimenticata. Lo dimostra il dialogo straordinario fra l’Innominato e Lucia.

Nell’incontro con una semplice contadina quest’uomo, detentore del potere e dominato dal potere, ritrova il significato più profondo della sua esistenza, che aveva inopinatamente dimenticato e tradito. Nella figura di padre Cristoforo l’incontro con la fede, l’obbedienza alla fede e la dedizione caritatevole agli uomini in nome della fede, raggiungono le vette più alte dentro la concretezza di ogni giorno. Un gigante della fede nella vita quotidiana – che, attraverso di lui, viene inesorabilmente trasformata -, un uomo di fede che diventa, per tutti quelli che l’incontrano, un segno di novità. Gli insegnamenti più grandi che ho colto da questa serie d’incontri, in cui il popolo di Ferrara-Comacchio ha saputo implicarsi in maniera profondamente cordiale, sono stati quelli che peraltro ho imparato nel cammino ecclesiale e catechetico che ho fatto con Mons. Giussani.

Come punto di partenza c’è l’inevitabilità del senso religioso che, anche quando sembra eliminato, ritrova la sua esistenza e la sua vivacità proprio nell’incontro con la testimonianza della fede. La fede è un avvenimento di novità di vita dentro un popolo nel quale la persona è chiamata a vedere per la prima volta la sua fisionomia vera e cominciare a perseguirla ogni giorno; educata, sfidata, qualche volta messa in questione gravemente dalle circostanze e dalla malvagità che si annida inesorabilmente in tanti incontri. Una vita nuova che si vede presente come un ideale vivente da perseguire e da attuare, e contemporaneamente convive con l’esperienza del limite, della meschinità, dell’egoismo, della soggezione alla mentalità dominante, di quella diffusa vigliaccheria che trova in don Abbondio una delle immagini più negativamente emblematiche.

Si diventa cristiani anche partendo da queste situazioni – se si ama l’incontro fatto più di quanto non si ami se stessi – e se non si rende nessuna circostanza come obiezione. Nella gigantesca statura del cardinale Federigo, e nel suo dialogo di straordinaria importanza umana e cristiana con don Abbondio, sta il fatto che il Manzoni non ha chiuso la vita di nessuno. Tutte le vite, anche quelle che sembravano segnate dalla negatività, rimangono sospese ad un ultima possibilità, non soltanto quella evidente dell’Innominato che cambia vita e diventa cristiano, ma anche quella della monaca di Monza il cui futuro è celato da una discrezione che rivela quello che avvenne effettivamente, ovvero che questa donna, dopo una lunga mortificazione, morì veramente cristiana.

Penso inoltre a don Rodrigo, alla cui inerte e silenziosa presenza di uomo che ha perduto qualsiasi capacità di intendere e di volere non è preclusa la possibilità che infine Dio gli tocchi il cuore. Penso a don Abbondio che nel dialogo con il Cardinale Federigo ritrova una possibilità di freschezza come adesione alla fede che non aveva mai sperimentato nei lunghi anni in cui aveva servito, comunque malamente, la Chiesa del Signore.

Benedetto XVI ci ha tante volte insegnato che la vita cristiana è una vita vera, buona e perciò bella: solenne proclamazione del tutto di Dio di fronte al nulla del demonio. Credo di aver incominciato ad insegnare al mio popolo che il cristianesimo è l’unica possibilità di una vita vera, buona e bella, e che la sua stessa presenza contesta la presunta forza del potere del nulla.

È quel sentiero luminoso verso la vita di cui ha parlato spesso il grande filosofo Robert Spaemann, grande amico di papa Benedetto. Questo sentiero della vita, bella e buona è l’unica alternativa al sentiero polveroso del nulla nel quale si annichilisce ogni autentico desiderio di umanità.

Luigi Negri

fonte: Tempi.it

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