giovedì 28 novembre 2013
Disarcionato
Senza parole. Alle 17.43 le lancette della storia si fermano per
sempre. Suona a morto la campana della democrazia. È il minuto di
silenzio della libertà. Il lasciapassare definitivo alla cavalcata
giudiziaria di un organo dello Stato che s’è fatto partito e che presto
colpirà - perché tanto colpirà (e noi garantisti saremo lì a difendervi,
ma quanto ci farà godere quel momento) - chi oggi brinda alla fine di
Berlusconi. Senza parole per lo spettacolo offerto all’estero da un
Paese allo sfascio. Senza parole per i vili e gli sciacalli, per chi non
ha palle e dignità. Senza parole per Renzo Piano, senatore a vita
sempre assente ma ricomparso per ghigliottinare il Cav. Senza parole per
chi straparla di legge uguale per tutti quando per uno, è dimostrato,
non esserlo stata. Senza parole. Le uniche sensate le riproduciamo da un
sms di un amico, vecchio comunista, disgustato dai 195 schierati nel
piazzale Loreto del Senato: «È così triste e deprimente, dopo 40 anni di
militanza politica, dover prendere atto della deriva giustizialista
della sinistra italiana». Senza parole pure lui. Senza più speranza
tutti noi.
Gian Marco Chiocci per il Tempo
mercoledì 27 novembre 2013
Le porte riaperte
La Chiesa riapre le porte a Romano Prodi, accogliendo il Professore
con quattro, prestigiosi appuntamenti, programmati uno dopo l'altro. Per
Prodi sta così per concludersi una emarginazione durata 17 anni e
«ordinata» a suo tempo dalla Cei di Camillo Ruini nei confronti di un
«cattolico adulto» che ha sempre rivendicato l'autonomia delle proprie
scelte politiche.
Le porte si riaprono venerdì: il Professore riceverà una laurea
honoris causa in Vaticano, all'interno della Pontificia Accademia delle
Scienze, l'empireo della cultura cattolica, dove terrà anche una lectio
magistralis; in serata Prodi è atteso alla Università Gregoriana, la
«fabbrica» dei Papi che è anche l'ateneo dei Gesuiti, l'ordine di papa
Francesco per una conferenza; l'indomani, presso Civiltà Cattolica,
sempre sotto l'egida gesuita, l'ex premier discuterà assieme ad Alberto
Melloni su un tema eloquente, «La svolta di Papa Francesco».
Un trittico che, per Prodi, si completerà il 5 dicembre, sempre
dentro la Città del Vaticano con un workshop aperto dal cardinale
Turkson, ministro vaticano del Welfare e grande elettore di Francesco.
Una sorta di «riabilitazione» che potrebbe essere stata preannunciata da
un'espressione usata a fine luglio da papa Francesco che, parlando ai
vescovi sudamericani, sconsigliò loro di far politica, incoraggiandoli
ad accompagnare i cristiani che, «da adulti», devono assumere le loro
scelte.
Naturalmente quella del Papa non era una citazione della frase di
Prodi, ma il sofisticato lessico pontificio è sembrato emancipare dalla
eterodossia quella espressione usata anni prima dal Professore. I
quattro eventi programmati nei prossimi giorni idealmente segnano una
«redenzione» per un personaggio che in questi anni ha vissuto con
amarezza la progressiva marginalizzazione.
Anche se, a dispetto dell'interdetto, Prodi ha continuato ad avere
una intensa vita nel mondo cattolico di base italiano (da anni è
invitato da parroci, vescovi e associazioni), ma anche all'estero, come
testimoniano gli inviti alla Settimana sociale dei cattolici tedeschi o
le interviste a quotidiani cattolici come la Croix.
A dispetto di questa partecipazione mai interrotta, Prodi non ha mai
digerito l'atteggiamento imposto dal vertice della Cei soprattutto
perché ha vissuto quell'allontanamento come una drastica cesura rispetto
alla propria storia personale.
Dopo aver frequentato in giovinezza Giuseppe Dossetti e Camillo Ruini
( futuro capo dei vescovi italiani, che nel 1969 celebrò le nozze del
giovane Romano con Flavia Franzoni), fin dagli anni Settanta Prodi si è
proposto come figura originale rispetto alla tradizionale élite
cattolica: non ha mai fatto parte di alcuna associazione e la sua
identità è sempre stata determinata dal suo stile di vita, dal suo modo
di parlare, di vestirsi, dalla sua grande famiglia, dal rapporto
paritario con la moglie Flavia.
Eppure, in occasione delle elezioni del 1996 Prodi subì l'improvvisa
freddezza del suo (ex) confessore Camillo Ruini, che vide nel Professore
l'artefice della fine dell'unità politica dei cattolici. Anche se la
vera svolta si ebbe col ritorno di Prodi da Bruxelles, nel 2005. In
quella occasione la Chiesa italiana gli preferì una personalità dalla
vita privata e famigliare eterodosse come Berlusconi, imponendo il veto
sul Professore ai giornali «ufficiali» di area cattolica: da quando è
entrato in politica - Prodi non è mai stato intervistato da «Avvenire».
Il Professore reagì, andando a votare nel referendum sulla
procreazione assistita e disubbidendo così alla Cei che aveva fatto
campagna per l'astensione. Il solco si è via via approfondito e venerdì
29 inizierà a ricolmarsi per effetto del primo appuntamento in Vaticano:
la lectio magistralis sullo «sviluppo sostenibile» in Africa e la
successiva laurea honoris causa.
fonte: Fabio Martini per "La Stampa"
lunedì 25 novembre 2013
Trise, Tari, Tasi, Tuc, Iuc...
A questo punto pagare la tassa sulla casa sarà il meno. Basta capire
quale tassa bisognerà pagare, chi la dovrà pagare, in che modo, in quali
tempi. Capita che in tempi di legge di stabilità di acronimo si possa
anche morire.
E se è vero che non c’è niente di più mobile della tassa sugli
immobili, si capirà come nel giro di un anno siamo passati dall’Ici
all’Imu, dalla Trise con Tari e Tasi al Tuc (abortito prima ancora di
nascere) per arrivare infine a partorire la Iuc, imposta unica comunale,
che ha mandato in pensione la Trise messa a punto meno di un mese fa
dal governo con le gemelle Tari e Tasi e che ha messo una parola
definitiva sulle velleità, peraltro molto ridotte nell’ultima settimana,
del Tuc.
Anche la Iuc sarà una e trina infatti si dividerà in una componente
relativa alla raccolta dei rifiuti e in una seconda sui servizi
indivisibili. È questo il compromesso raggiunto in commissione Bilancio
del senato e presentato sotto forma di emendamento dei relatori alla
legge di stabilità.
Al di là del cambio dell’acronimo che si aggiunge alla folta selva di
altre sigle che popolano gli incubi degli italiani ma anche di sindaci
ed esattori, occorre capire cosa in realtà cambia e se le risorse che
non si erano trovate per la Tari e la Tasi ora sono invece saltate
fuori. A quanto si legge dal testo della proposta dei relatori dalla
Iuc, che sostituirà l’Imu dal 2014, saranno esentate le prime case ad
esclusione di quelle di lusso. L’importo stanziato nel fondo attribuito
ai comuni per introdurre detrazioni sulla nuova imposta sulla casa «darà
la possibilità di avere un effetto analogo a quello del 2012, quando la
detrazione base era a 200 euro e si aggiungevano 50 euro a figlio»
hanno spiegato i relatori illustrando la loro proposta.
Insomma, tutto cambi perché nulla cambi.
fonte:Europa
domenica 24 novembre 2013
Abbiamo un cuore solidale e la mente liberale
Un piccolo teatro, ma strapieno. Di gente appassionata. Un teatro
tricolore, l'inno nazionale all'inizio, il pensiero alla Sardegna
disastrata dal ciclone, che diventa metafora dell'Italia. È proprio un
partecipante sardo che, dopo il racconto del dolore e della devastazione
della sua terra, lancia la parola d'ordine: «L'importante è
ricominciare», l'importante è ripartire.
L'immagine
è quella della nave che salpa, sperando di navigare in acque rese
abbondanti dallo scongelamento dell'iceberg dell'astensionismo,
dall'arrivo dei delusi degli schieramenti principali. Al Teatro Quirino
va in scena l'Assemblea popolare per l'Italia, con i centristi di Pier
Ferdinando Casini e i popolari di Mario Mauro, e «un progetto inclusivo e
non contro qualcuno, un progetto corale» ci tengono a sottolineare
personalità come Mario Marazziti (che viene da Scelta civica) o Lorenzo
Dellai che (alla Camera) insieme a Lucio Romano (al Senato), saranno i
capigruppo della nuova formazione.
Tocca proprio a loro due leggere il Manifesto fondativo, l'appello
per «un nuovo cantiere e una democrazia comunitaria». È frutto di un
lavoro collettivo. Parte un po' banale: «Abbiamo lanciato il cuore oltre
l'ostacolo». Ma il secondo slogan è efficace: «Abbiamo un cuore
solidale e la mente liberale: in una parola, siamo popolari».
Una grande assemblea politica, quasi duemila persone (con qualche
patema d'animo per la sicurezza da parte del proprietario del Teatro),
convocate in pochi giorni, col maltempo, più di trenta parlamentari,
ministri, persone famose della politica italiana e nessun politico sul
palco, in posti d'onore, tutti ad ascoltare.
Ad ascoltare la gente. La politica rovesciata.
E infatti i big si limitano alle interviste all'ingresso o a margine dell'evento, perché il proscenio è tutto per le persone normali, gente che vuole vivere l'esperienza di provare a cambiare l'Italia: ci sono studenti, medici, avvocati, imprenditori, ricercatori, volontari, amministratori locali. Prima di entrare, un'urna con le schede e le matite per scrivere il nome del partito che nascerà.
E infatti i big si limitano alle interviste all'ingresso o a margine dell'evento, perché il proscenio è tutto per le persone normali, gente che vuole vivere l'esperienza di provare a cambiare l'Italia: ci sono studenti, medici, avvocati, imprenditori, ricercatori, volontari, amministratori locali. Prima di entrare, un'urna con le schede e le matite per scrivere il nome del partito che nascerà.
Di questo sono sicuri tutti: Casini, Lorenzo Cesa, Gregorio Gitti
certificano che presto, già la prossima settimana, nasceranno i gruppi
parlamentari comuni. Un passaggio che non filerà del tutto liscio,
perché c'è da perfezionare la separazione non proprio consensuale con
Scelta civica. «I problemi sono più a livello di Sc come partito che a
livello parlamentare», dice un senatore, spiegando che la questione dei
rimborsi elettorali pesa come un macigno.
A livello parlamentare, la situazione è che al Senato i montiani
hanno già chiesto a Pietro Grasso una deroga per poter formare un gruppo
con gli otto senatori rimasti mentre i 12 popolari, che attualmente
esprimono il capogruppo Romano, probabilmente assumeranno una nuova
denominazione. Alla Camera, le due anime hanno i numeri per formare
ciascuna un gruppo a sé stante di almeno 20 deputati.
Sono incognite che si risolveranno nei prossimi giorni, mentre a
livello europeo c'è l'adesione al progetto da parte di Giuseppe Gargani,
Carlo Casini, Gino Trematerra, Potito Salatto, e, fra gli altri,
Ciriaco De Mita.
«È finita la stagione degli uomini della Provvidenza - dice Pier
Ferdinando Casini - e vogliamo creare una forza europeista, sì, ma che
contrasti la politica europea fondata su questo rigore che porta a fondo
tutti no». Mauro mette in evidenza che il centrodestra berlusconiano
non esiste più e che con il Ncd (il Nuovo centrodestra) di Alfano, pur
essendoci differenze, «gli elettori sono gli stessi» mentre «al governo
c'è collaborazione».
Ecco, Alfano è il competitor. Il bacino elettorale, infatti, è lo
stesso. «Ma da loro», dice Mauro(che pure lui è ministro del governo
Letta), alludendo alla manifestazione del Ncd, «c'era una sfilza di
ministri: più il potere che il popolo. Ma è solo il popolo che può far
ripartire, perché ha fiducia e coraggio».
fonte: Corriere della Sera
Il percorso politico nato dall’iniziativa “Verso la Terza Repubblica”, alla fine del 2012, e concretizzatosi con la costituzione di Scelta Civica, ha rappresentato una novità significativa e un passo avanti nella storia politica italiana. Persone e culture politiche differenti si sono ritrovate nell’obiettivo comune di ricostruzione sociale, economica e istituzionale del Paese.
La drammaticità di una crisi finanziaria ed economica senza precedenti ha reso inaccettabili le responsabilità di una classe politica autoreferenziale e inefficiente, che nei due decenni passati non ha saputo far crescere e modernizzare l’Italia. Il risultato è quello di un Paese impoverito, più diviso, meno solidale e fiducioso nel futuro, che non riesce a stare al passo con le altre democrazie europee. L’elenco di cosa non funziona è noto, come nota è la reazione dei cittadini: astensione elettorale e preoccupanti manifestazioni di antipolitica.
Il processo di rinnovamento del Paese, in grado di realizzare le riforme necessarie, ma anche di aggregare intorno ad esse il consenso popolare, richiede tempo, fatica, coraggio e pazienza. Ogni scorciatoia, lo abbiamo purtroppo visto in questi mesi, è destinata ad allontanarci dalla meta.
In questa prospettiva, le dimissioni del presidente Monti dalla guida di Scelta Civica – cui tutti riconosciamo coraggio e dedizione al Paese – e l’accelerazione del confronto interno, non sono che gli evidenti segni dell’esigenza di far crescere un progetto politico in modo democratico, oltre gli schemi cooptativi ereditati dal tempo della competizione elettorale.
Siamo un soggetto politico in formazione, con la precisa volontà di concorrere, con molti altri che ancora non hanno avuto il coraggio di scegliere il cambiamento, a costruire una forza maggioritaria nel Paese e nel Parlamento. Per questo è nostro compito proporre un progetto politico stabile e maturo, a larga partecipazione popolare, non elitario, per non tradire le aspettative e le speranze che abbiamo suscitato.
Il primo passo deve essere la chiarezza nel definire la nostra identità, i valori di appartenenza e la nostra proposta politica. Non siamo né un cartello elettorale né un partito personale, ma un soggetto che va costruito in stretta saldatura tra i parlamentari, i simpatizzanti e la gente del nostro Paese che guarda alla politica con preoccupazione e interesse. Ogni incertezza, ogni elitarismo prigioniero di sole logiche parlamentari, come abbiamo visto nei mesi passati, ci condanna all’irrilevanza.
Non è più il tempo delle ideologie, ma delle idee. Per questo la cultura politica non è un orpello da lasciare al Ventesimo secolo. Proprio in un periodo in cui mancano idee sul futuro, la politica non può rinunciare ad avere una visione generale. Cresce tra i cittadini una domanda di “senso” e di orientamento. Al gonfiarsi dell’individualismo va contrapposta una concezione autenticamente comunitaria della democrazia.
La politica non è tecnicismo, non è mera amministrazione, ma scelta delle priorità alla luce della visione del bene comune degli italiani. Cambiare la politica non significa negarne il valore, ma al contrario “ridarle un’anima”, un ancoraggio umano e culturale.
In questa logica proponiamo di costruire un’area politica autenticamente e innovativamente popolare, che riprenda – con nuovi linguaggi, nuove sensibilità e nuova classe dirigente- allo stesso tempo la storia del popolarismo e del pensiero liberale .
Intendiamo con questo l’impegno a radicarci nelle realtà locali, la scelta di far crescere la politica nella partecipazione democratica, in un rapporto tra eletti e aderenti fatto di mutuo scambio. L’Italia, per evitare gli effimeri populismi (che nascono anche come risposta alla chiusura nel palazzo), ha bisogno di una politica popolare.
Nulla a che vedere con inaccettabili strumentalizzazioni delle convinzioni religiose né con operazioni nostalgiche.
Noi vogliamo guardare avanti:
al riconoscimento dei diritti umani per tutti e per ciascuno
all’uguaglianza e all’equità per ridistribuire ricchezza e dare opportunità a tutti;
alla valorizzazione della famiglia riconosciuta dalla Costituzione;
alla tutela della vita in tutte le sue stagioni;
al diritto al lavoro per permettere a tutti di vivere con dignità;
al sostegno all’attività imprenditoriale responsabile e innovativa;
all’ammodernamento istituzionale e allo snellimento della macchina pubblica;
alla costruzione di una società accogliente e plurale.
Solo in questo modo, lo spirito riformatore riesce a non sfociare in indifferenza verso la giustizia e la coesione sociale. Solo così si rinnegano le spinte populiste che si fanno strada oggi in Europa.
Il “chi siamo” passa anche da una nuova forma di partito: né liquido né pesante, non verticistico, bensì una struttura federale, solidale e plurale di aderenti, associazioni e movimenti territoriali. Non una macchina elettorale a servizio di un leader ma uno strumento democratico, aperto e trasparente, di partecipazione per i cittadini, nonché di formazione di una classe dirigente onesta, capace e preparata.
Ciò che vogliamo e possiamo ora costruire è un popolarismo di nuova concezione, radicato nella cultura di un cristianesimo rinvigorito dai valori di Papa Francesco universalmente riconosciuti, anche innervato dalla coscienza laica. Plurale per sua natura, esso non è confessionale ma risponde al superamento di steccati antichi e nuovi. Comunitario, vuole ricostruire un ethos condiviso e suscitare passione per un destino comune. Nemico di ogni populismo, esso è esigente sul piano della moralità nella vita pubblica e rigoroso nella gestione della finanza.
Da questa visione derivano chiare scelte riformiste:
- Verità nella comunicazione ai cittadini sulla reale situazione italiana, mantenendo con scrupolo il rispetto dei vincoli economici, per non scaricare su figli e nipoti il peso delle mancate scelte di oggi.
- Centralità del lavoro e dell’impresa per ridare prospettiva di crescita, economica ed umana, al Paese. Disoccupazione, sottoccupazione, assistenzialismo si contrastano concentrando tutte le risorse disponibili in un piano organico di rilancio delle attività produttive, in un quadro di economia sociale di mercato altamente competitiva e perciò idonea a garantire a tutti di poter progredire nella scala sociale.
- Semplificazione amministrativa per snellire la macchina pubblica, che non può essere un ostacolo all’iniziativa imprenditoriale: anziché pensare all’ennesima grande riforma, che resterebbe lettera morta, sosteniamo un’opera di “smaltimento normativo” per rendere la macchina burocratica più semplice e per applicare le tante buone leggi che già ci sono.
- Riformismo sociale per cambiare in profondità il nostro Paese e l’Europa senza lasciare nessuno indietro. Le riforme debbono essere spiegate ai cittadini affinché ne comprendano le ragioni ed i benefici e debbono tener conto delle conseguenze che producono, in particolare sulle fasce della popolazione più vulnerabili e molto provate dalla crisi in corso. C’è una domanda di inclusione di cui si deve tener conto con grande attenzione. La società italiana è percorsa da troppe fratture, che drammaticamente la mettono alla prova e sono espressione della grande fragilità nazionale.
- Autonomismo responsabile capace di dare attuazione al principio di sussidiarietà ed insieme di aumentare democrazia e buongoverno. Dobbiamo rimettere mano alla riforma dello Stato per liberare energie esistenti nella società ed insieme combattere gli enormi sprechi di burocrazie e clientele sviluppatesi negli anni.
- Vocazione europea e mondiale dell’Italia, chiamata ad assumere nuovamente un ruolo chiave nella ridefinizione del quadro globale. C’è bisogno di un nostro protagonismo per costruire gli Stati Uniti d’Europa, capaci di programmare un progetto non solo di tenuta ma anche di crescita comune, fuori dai tecnicismi delle burocrazie, affinché l’UE divenga vera potenza globale, capace di assicurare stabilità interna e pace in molte aree del mondo, a partire dalla crisi in Medio Oriente.
Tale progetto comporta scelte politiche contingenti e di medio e lungo respiro.
Innanzitutto – secondo gli auspici del Capo dello Stato – offriamo un convinto sostegno con vigile lealtà al Governo Letta affinché possa operare per tutta questa legislatura. Ciò é nell’interesse del Paese, che ha bisogno di stabilità per profonde riforme, anche costituzionali, prima di tornare alle urne.
Una stagione si sta chiudendo. La nuova non può essere costruita sull’ambizione di ereditare semplicemente una parte del vecchio sistema. Perciò non avrebbe senso partecipare in nessun modo alla trasformazione del PDL o offrire sponda a chi la teorizza anche evocando un presunto “padre nobile”.
Il futuro e’ un partito popolare, democratico, riformista, europeista, in netta discontinuità con la stagione berlusconiana e che in prospettiva si pensa e si organizza in concorrenza con la sinistra, ma degasperianamente alternativo alla destra.
Questo progetto si colloca naturalmente – pur se in modo originale – nell’alveo del Partito Popolare europeo.
Molti cittadini, tra cui tanti elettori e simpatizzanti, potranno essere coinvolti in tale progetto per far evolvere un disegno finora rimasto in fase embrionale. Infatti, il vero cambiamento avviene con la partecipazione dei cittadini e non solo degli eletti delle istituzioni. Tale nostro progetto è possibile solo con tante persone nuove, soprattutto credibili, che devono essere coinvolte attivamente.
Per questo sarà fondamentale un confronto quanto più aperto possibile nei gruppi parlamentari, a cominciare dall’assemblea convocata per oggi e domani, in cui si mettano in discussione le diverse posizioni politiche e non personali. Dobbiamo chiarire senza equivoci il nostro intento di costruire un partito autonomo, oggi e nel futuro, da chiunque rappresenti il modello bipolare a carattere leaderistico che ci ha condotto all’attuale crisi politica. Dalla rigorosa verifica degli obiettivi discendono le scelte organizzative, ivi comprese eventuali divisioni che non possono essere determinate da anacronistiche e illogiche “cacciate” o espulsioni. E insieme dovrà avviarsi una nuova fase della nostra storia comune, caratterizzata da un appello ai tanti che, nella politica come nella società civile, sono alla ricerca di una seria strada da percorrere insieme. Vogliamo chiudere questa stagione delle polemiche interne (tutte accentrate in un gruppo autoreferenziale) per aprirci finalmente ad un autentico confronto con i tanti cittadini che hanno creduto in noi, nel progetto incarnato nelle liste di “Scelta Civica” e di “Con Monti per l’Italia”, e con i tanti che continuano a guardare, sempre più delusi, a ciò che la politica propone per il futuro dell’Italia.
Gli italiani si sentono sempre meno rappresentati dalla politica e, allo stesso tempo, hanno voglia di fare qualcosa per orientare il loro futuro. Il nostro sarà quello di ridare loro rappresentanza sui problemi concreti della loro vita, non con fumosi, astratti o elitari discorsi. Questa rappresentanza si ricostruisce con proposte concrete e serie, ma anche attraverso l’ascolto e il coinvolgimento dei cittadini in un grande progetto. La politica deve tornare a incarnare la voglia che il Paese cresca e la speranza di un futuro migliore per tutti gli italiani.
Roma 15 novembre 2013
Il percorso politico nato dall’iniziativa “Verso la Terza Repubblica”, alla fine del 2012, e concretizzatosi con la costituzione di Scelta Civica, ha rappresentato una novità significativa e un passo avanti nella storia politica italiana. Persone e culture politiche differenti si sono ritrovate nell’obiettivo comune di ricostruzione sociale, economica e istituzionale del Paese.
La drammaticità di una crisi finanziaria ed economica senza precedenti ha reso inaccettabili le responsabilità di una classe politica autoreferenziale e inefficiente, che nei due decenni passati non ha saputo far crescere e modernizzare l’Italia. Il risultato è quello di un Paese impoverito, più diviso, meno solidale e fiducioso nel futuro, che non riesce a stare al passo con le altre democrazie europee. L’elenco di cosa non funziona è noto, come nota è la reazione dei cittadini: astensione elettorale e preoccupanti manifestazioni di antipolitica.
Il processo di rinnovamento del Paese, in grado di realizzare le riforme necessarie, ma anche di aggregare intorno ad esse il consenso popolare, richiede tempo, fatica, coraggio e pazienza. Ogni scorciatoia, lo abbiamo purtroppo visto in questi mesi, è destinata ad allontanarci dalla meta.
In questa prospettiva, le dimissioni del presidente Monti dalla guida di Scelta Civica – cui tutti riconosciamo coraggio e dedizione al Paese – e l’accelerazione del confronto interno, non sono che gli evidenti segni dell’esigenza di far crescere un progetto politico in modo democratico, oltre gli schemi cooptativi ereditati dal tempo della competizione elettorale.
Siamo un soggetto politico in formazione, con la precisa volontà di concorrere, con molti altri che ancora non hanno avuto il coraggio di scegliere il cambiamento, a costruire una forza maggioritaria nel Paese e nel Parlamento. Per questo è nostro compito proporre un progetto politico stabile e maturo, a larga partecipazione popolare, non elitario, per non tradire le aspettative e le speranze che abbiamo suscitato.
Il primo passo deve essere la chiarezza nel definire la nostra identità, i valori di appartenenza e la nostra proposta politica. Non siamo né un cartello elettorale né un partito personale, ma un soggetto che va costruito in stretta saldatura tra i parlamentari, i simpatizzanti e la gente del nostro Paese che guarda alla politica con preoccupazione e interesse. Ogni incertezza, ogni elitarismo prigioniero di sole logiche parlamentari, come abbiamo visto nei mesi passati, ci condanna all’irrilevanza.
Non è più il tempo delle ideologie, ma delle idee. Per questo la cultura politica non è un orpello da lasciare al Ventesimo secolo. Proprio in un periodo in cui mancano idee sul futuro, la politica non può rinunciare ad avere una visione generale. Cresce tra i cittadini una domanda di “senso” e di orientamento. Al gonfiarsi dell’individualismo va contrapposta una concezione autenticamente comunitaria della democrazia.
La politica non è tecnicismo, non è mera amministrazione, ma scelta delle priorità alla luce della visione del bene comune degli italiani. Cambiare la politica non significa negarne il valore, ma al contrario “ridarle un’anima”, un ancoraggio umano e culturale.
In questa logica proponiamo di costruire un’area politica autenticamente e innovativamente popolare, che riprenda – con nuovi linguaggi, nuove sensibilità e nuova classe dirigente- allo stesso tempo la storia del popolarismo e del pensiero liberale .
Intendiamo con questo l’impegno a radicarci nelle realtà locali, la scelta di far crescere la politica nella partecipazione democratica, in un rapporto tra eletti e aderenti fatto di mutuo scambio. L’Italia, per evitare gli effimeri populismi (che nascono anche come risposta alla chiusura nel palazzo), ha bisogno di una politica popolare.
Nulla a che vedere con inaccettabili strumentalizzazioni delle convinzioni religiose né con operazioni nostalgiche.
Noi vogliamo guardare avanti:
al riconoscimento dei diritti umani per tutti e per ciascuno
all’uguaglianza e all’equità per ridistribuire ricchezza e dare opportunità a tutti;
alla valorizzazione della famiglia riconosciuta dalla Costituzione;
alla tutela della vita in tutte le sue stagioni;
al diritto al lavoro per permettere a tutti di vivere con dignità;
al sostegno all’attività imprenditoriale responsabile e innovativa;
all’ammodernamento istituzionale e allo snellimento della macchina pubblica;
alla costruzione di una società accogliente e plurale.
Solo in questo modo, lo spirito riformatore riesce a non sfociare in indifferenza verso la giustizia e la coesione sociale. Solo così si rinnegano le spinte populiste che si fanno strada oggi in Europa.
Il “chi siamo” passa anche da una nuova forma di partito: né liquido né pesante, non verticistico, bensì una struttura federale, solidale e plurale di aderenti, associazioni e movimenti territoriali. Non una macchina elettorale a servizio di un leader ma uno strumento democratico, aperto e trasparente, di partecipazione per i cittadini, nonché di formazione di una classe dirigente onesta, capace e preparata.
Ciò che vogliamo e possiamo ora costruire è un popolarismo di nuova concezione, radicato nella cultura di un cristianesimo rinvigorito dai valori di Papa Francesco universalmente riconosciuti, anche innervato dalla coscienza laica. Plurale per sua natura, esso non è confessionale ma risponde al superamento di steccati antichi e nuovi. Comunitario, vuole ricostruire un ethos condiviso e suscitare passione per un destino comune. Nemico di ogni populismo, esso è esigente sul piano della moralità nella vita pubblica e rigoroso nella gestione della finanza.
Da questa visione derivano chiare scelte riformiste:
- Verità nella comunicazione ai cittadini sulla reale situazione italiana, mantenendo con scrupolo il rispetto dei vincoli economici, per non scaricare su figli e nipoti il peso delle mancate scelte di oggi.
- Centralità del lavoro e dell’impresa per ridare prospettiva di crescita, economica ed umana, al Paese. Disoccupazione, sottoccupazione, assistenzialismo si contrastano concentrando tutte le risorse disponibili in un piano organico di rilancio delle attività produttive, in un quadro di economia sociale di mercato altamente competitiva e perciò idonea a garantire a tutti di poter progredire nella scala sociale.
- Semplificazione amministrativa per snellire la macchina pubblica, che non può essere un ostacolo all’iniziativa imprenditoriale: anziché pensare all’ennesima grande riforma, che resterebbe lettera morta, sosteniamo un’opera di “smaltimento normativo” per rendere la macchina burocratica più semplice e per applicare le tante buone leggi che già ci sono.
- Riformismo sociale per cambiare in profondità il nostro Paese e l’Europa senza lasciare nessuno indietro. Le riforme debbono essere spiegate ai cittadini affinché ne comprendano le ragioni ed i benefici e debbono tener conto delle conseguenze che producono, in particolare sulle fasce della popolazione più vulnerabili e molto provate dalla crisi in corso. C’è una domanda di inclusione di cui si deve tener conto con grande attenzione. La società italiana è percorsa da troppe fratture, che drammaticamente la mettono alla prova e sono espressione della grande fragilità nazionale.
- Autonomismo responsabile capace di dare attuazione al principio di sussidiarietà ed insieme di aumentare democrazia e buongoverno. Dobbiamo rimettere mano alla riforma dello Stato per liberare energie esistenti nella società ed insieme combattere gli enormi sprechi di burocrazie e clientele sviluppatesi negli anni.
- Vocazione europea e mondiale dell’Italia, chiamata ad assumere nuovamente un ruolo chiave nella ridefinizione del quadro globale. C’è bisogno di un nostro protagonismo per costruire gli Stati Uniti d’Europa, capaci di programmare un progetto non solo di tenuta ma anche di crescita comune, fuori dai tecnicismi delle burocrazie, affinché l’UE divenga vera potenza globale, capace di assicurare stabilità interna e pace in molte aree del mondo, a partire dalla crisi in Medio Oriente.
Tale progetto comporta scelte politiche contingenti e di medio e lungo respiro.
Innanzitutto – secondo gli auspici del Capo dello Stato – offriamo un convinto sostegno con vigile lealtà al Governo Letta affinché possa operare per tutta questa legislatura. Ciò é nell’interesse del Paese, che ha bisogno di stabilità per profonde riforme, anche costituzionali, prima di tornare alle urne.
Una stagione si sta chiudendo. La nuova non può essere costruita sull’ambizione di ereditare semplicemente una parte del vecchio sistema. Perciò non avrebbe senso partecipare in nessun modo alla trasformazione del PDL o offrire sponda a chi la teorizza anche evocando un presunto “padre nobile”.
Il futuro e’ un partito popolare, democratico, riformista, europeista, in netta discontinuità con la stagione berlusconiana e che in prospettiva si pensa e si organizza in concorrenza con la sinistra, ma degasperianamente alternativo alla destra.
Questo progetto si colloca naturalmente – pur se in modo originale – nell’alveo del Partito Popolare europeo.
Molti cittadini, tra cui tanti elettori e simpatizzanti, potranno essere coinvolti in tale progetto per far evolvere un disegno finora rimasto in fase embrionale. Infatti, il vero cambiamento avviene con la partecipazione dei cittadini e non solo degli eletti delle istituzioni. Tale nostro progetto è possibile solo con tante persone nuove, soprattutto credibili, che devono essere coinvolte attivamente.
Per questo sarà fondamentale un confronto quanto più aperto possibile nei gruppi parlamentari, a cominciare dall’assemblea convocata per oggi e domani, in cui si mettano in discussione le diverse posizioni politiche e non personali. Dobbiamo chiarire senza equivoci il nostro intento di costruire un partito autonomo, oggi e nel futuro, da chiunque rappresenti il modello bipolare a carattere leaderistico che ci ha condotto all’attuale crisi politica. Dalla rigorosa verifica degli obiettivi discendono le scelte organizzative, ivi comprese eventuali divisioni che non possono essere determinate da anacronistiche e illogiche “cacciate” o espulsioni. E insieme dovrà avviarsi una nuova fase della nostra storia comune, caratterizzata da un appello ai tanti che, nella politica come nella società civile, sono alla ricerca di una seria strada da percorrere insieme. Vogliamo chiudere questa stagione delle polemiche interne (tutte accentrate in un gruppo autoreferenziale) per aprirci finalmente ad un autentico confronto con i tanti cittadini che hanno creduto in noi, nel progetto incarnato nelle liste di “Scelta Civica” e di “Con Monti per l’Italia”, e con i tanti che continuano a guardare, sempre più delusi, a ciò che la politica propone per il futuro dell’Italia.
Gli italiani si sentono sempre meno rappresentati dalla politica e, allo stesso tempo, hanno voglia di fare qualcosa per orientare il loro futuro. Il nostro sarà quello di ridare loro rappresentanza sui problemi concreti della loro vita, non con fumosi, astratti o elitari discorsi. Questa rappresentanza si ricostruisce con proposte concrete e serie, ma anche attraverso l’ascolto e il coinvolgimento dei cittadini in un grande progetto. La politica deve tornare a incarnare la voglia che il Paese cresca e la speranza di un futuro migliore per tutti gli italiani.
Roma 15 novembre 2013
sabato 23 novembre 2013
Pelù su Renzi
"Renzi mi fa molta paura. E' un berluschino cresciuto con Mediaset nel sangue. E' veramente perfetto per gli italiani, per la massa degli italiani. Svegliatevi!". Così il cantante fiorentino Piero Pelù a La Zanzara su Radio 24. "Renzi - dice ancora Pelù - di sinistra non ha nemmeno il piede, la mano ed il resto della parte sinistra. La parte sinistra del corpo gli manca proprio. E' solamente un grande centro. E' sempre stato democristiano. Vuole piacere a tutti".
Dice ancora Pelù: "E' berluschino anche nella scelta delle deputate. Quella Maria Elena Boschi è carina, bona, se l'è scelta bene. Non è mica un bischero...E' possibile che quando uno diventa famoso deve per forza passare per certe riviste come Chi?". "Come sindaco - dice ancora - fa cacare. E già come presidente della provincia qualche bel disastro l'ha combinato. E' stato estremamente allegro nella gestione del denaro pubblico. E' uguale agli altri. Dicono sia il male minore, ma con questa storia ce lo mettono in c...".
"JOVANOTTI? SALTA SUI CARRO DEI POLITICI, PRIMA VELTRONI ADESSO RENZI". "LA POLITICA TI SFRUTTA POI TI PRENDE A CALCI NEL CULO."
"In questi anni Jovanotti non ha mai smesso di saltare sul carro prima di D'Alema poi di Veltroni. Ora di Renzi". Così il cantante fiorentino Piero Pelù a La Zanzara su Radio 24. "Basta ricordare - continua Pelù - quando Jovanotti a Sanremo fece il rap dedicato a D'Alema. Ogni artista dovrebbe stare il più possibile al di fuori dei giochi della politica. La politica è capace solo di sfruttare l'immagine degli artisti per poi dar loro un calcio nel culo nel momento più opportuno".
"Il Pd è diventato l'acronimo di un moccolo, è l'acronimo di una bestemmia. L'ho votato per anni e anni e ne sono rimasto estremamente deluso".
Così il cantante fiorentino Piero Pelù ai microfoni della Zanzara su Radio 24. "Grillo - dice Pelù - è una delle cose più interessanti, apparentemente fuori dai giochi, ma quando affronta il problema della Bossi-Fini come un leghista lo prenderei a calci nel culo".
"Berlusconi invece è il nuovo Mussolini - dice ancora Pelù - ma non sono il primo a notarlo. Non lo sopporto più e sono ancora tutti lì a leccargli il culo. Gli italiani sono lobotomizzati. Berlusconi e la Tv hanno avuto un ruolo primario. Berlusconi è la fiction che dura da più tempo in Italia". "Penso ad andare via dall'Italia - prosegue - più che altro per i miei figli, è un paese dissestato. Che cavolo di futuro gli stiamo offrendo?".
venerdì 22 novembre 2013
La vicenda della Lega democratica
Negli anni Settanta, ogni qual volta tra cattolici democratici si
discuteva di abbandonare la Democrazia cristiana, i caveat che
spuntavano fuori erano sempre gli stessi. Primo: attenti a non fare la
fine del Movimento cristiano dei lavoratori di Livio Labor, fallimentare
tentativo post-sessantottino di creare un secondo partito cattolico.
Secondo: attenti a non fare la fine degli «indipendenti di sinistra»,
cattolici eletti nel 1976 nelle liste del Pci a titolo personale ma
incapaci di influire sulla linea del partito, e tantomeno di favorirne
la modernizzazione. La «diaspora» dei cattolici – si sente ripetere più
volte nella Lega democratica – non serve a nessuno: né ai cattolici né
ai comunisti. (…)
Quella
tra pluralismo e diaspora è una distinzione sottile, non priva di
ambiguità. Ai suoi esordi, la Lega democratica aveva sostenuto la tesi
che i cattolici dovessero confrontarsi con le sinistre come «componente
omogenea» per evitare quello che Antonio Gramsci aveva definito il
«suicidio» del movimento cattolico-democratico. (…) Ma qual è il confine
tra un insieme di presenze a titolo individuale nei partiti della
sinistra e l’esistenza di una «componente omogenea»
cattolico-democratica? È un discorso che in questi termini può prestarsi
a una lettura correntizia: i cattolici democratici possono entrare a
far parte dei partiti della sinistra ma solo come corrente autonoma,
magari in lotta per la leadership (o l’egemonia culturale) del partito.
La «specificità» dei cristiani in politica, così interpretata, diventa
separatezza, segregazione rispetto al mondo. Invece di un partito
cattolico, una corrente cattolica.
E non è in questa direzione che punta la vicenda della Lega
democratica. Non ci si può relazionare col mondo come una «cittadella
assediata», scrive Paolo Giuntella. Bisogna puntare piuttosto ad essere
«sale della terra»: anche se minoritari, i cattolici democratici possono
rendere «fertile» il terreno che li circonda. Tradotto in termini
politici è un discorso che conduce lontano dal partito cattolico, o dai
partiti cattolici al plurale, ma anche da qualsiasi ipotesi correntizia.
(…)
La prospettiva della Lega non è mai quella del Partito d’Azione, uno
schieramento di intellettuali che parla solo alle élite. L’azione
politica dei cattolici democratici può esplicarsi solo nel contesto di
una grande forza «popolare». Ma un partito popolare non può limitarsi a
«rappresentare l’esistente»: se così fosse, un partito del genere
sarebbe condannato all’immobilismo. (…) Nel mondo degli anni Ottanta la
Lega guarda con paura a una politica che banalizza i problemi, che si
adegua ai tempi della televisione, che sempre più si limita ad
assecondare tutte le pulsioni che provengono dalla società, senza
filtro. Non iniziativa politica, ma populismo. Di certo, tra i
contributi della presenza cattolico-democratica al nuovo centrosinistra,
si può annoverare un fermo «no al populismo». La questione del consenso
elettorale però rimane sostanzialmente inevasa. (…)
Il tema della specificità dei cattolici nei partiti di sinistra si fa
più spinoso quando si entra nel campo dei famosi (o famigerati)
«principî non negoziabili». Per i cattolici della Lega la realizzazione
di una società pienamente cristiana è un compito che sfugge alle
possibilità umane. La secolarizzazione ha reso questo dato
particolarmente evidente: vista in questa luce anche la secolarizzazione
ha un valore positivo, di liberazione del cristiano dalla pretesa di
costruire nel presente un feticcio della Città di Dio. Le due Città sono
e rimangono distinte. (…)
Non è una scelta di disimpegno, ma l’impegno politico non sfocia
nella crociata. È chiaro però che questa indicazione non dice nulla
sulle scelte partitiche concrete dei cattolici democratici. Dopo
l’Assemblea nazionale della Dc del 1981, l’Assemblea degli esterni, gran
parte della Lega democratica decide di allontanarsi dai partiti,
guardando solo alla società civile. È una decisione che per certi
aspetti può ricordare la situazione che si è ripresentata alle elezioni
politiche del febbraio 2013, in cui alcuni cattolici – insoddisfatti
dell’attuale offerta partitica – hanno proposto di «saltare un giro», di
lasciar perdere gli schieramenti esistenti in attesa magari di una
nuova aggregazione di cattolici in politica.
Ma è proprio qui la differenza sostanziale tra la proposta politica
cattolico-democratica e le ipotesi di nuovi partiti cattolici che
affollano questi scampoli di Seconda Repubblica. Sia che si scelga la
militanza in un partito, sia che si preferisca agire nella società
civile, resta fermo il rifiuto del partito confessionale, che porta con
sé l’inevitabile tentazione di schierare la Chiesa da una parte o
dall’altra dello scacchiere politico. Per la Chiesa – scrive Pietro
Scoppola – «un annuncio di salvezza è altra cosa da una opinabile scelta
di schieramenti». Se i cattolici scelgono lo scontro col mondo, il
rischio maggiore che corrono non è la sconfitta, ma perdere di vista
proprio l’«annuncio della salvezza», cioè il cuore stesso della loro
fede.
fonte: Europa, Lorenzo Biondi 20 novembre 2013
lunedì 18 novembre 2013
Violazione degli obblighi
Alla parola «Maltrattamento», il vocabolario spiega: «Dimostrazione di violenza nei confronti di un soggetto». Se quindi una persona ignora un'altra persona, tutto si potrà dire, ma non certo che la maltratta.
I «mal di testa» di lui sono aumentati e sul palcoscenico del sesso matrimoniale è calato definitivamente il sipario. Anche per questa ragione la signora ha chiesto al tribunale la separazione con addebito al marito, esplicitando la presunta ( molto presunta) aggravante del maltrattamento da astensione sessuale.
Ma c'è una donna, a Genova, che - poco devota al Devoto-Oli e molto devota al Rapporto Master e Johnson - accusa il marito di maltrattamento perché lui «non fa niente» con lei. Ma cos'è, nello specifico, che vorrebbe «fare» la signora? Sesso. Possibilmente, spesso e volentieri.
Peccato il di lei coniuge da quest'orecchio (e pure dall'altro) non ci senta, preferendo godere di altre occupazioni - diciamo così - meno stressanti: leggere i fumetti, guardare le partite spaparanzato sul divano, giocare a calcetto, bere la birra, mangiare la pizza e cazzeggiare con gli amici; insomma, le attività che danno veramente senso compiuto alla vita di un uomo.
In realtà tra gli hobby più appaganti per il genere maschile, ci sarebbe pure la voglia di fare «sesso sfrenato». Ma qui entrano in gioco una serie variabili e combinati disposti che rendono tale pratica sfuggente a qualsiasi tipo di generalizzazione: l'età (di lei, intesa come fidanzata o moglie), l'avvenenza (sempre di lei), le qualità eroticheamatorie (di lei, ovviamente).
Nel ménage di coppia, infatti, se lei (fidanzata o moglie non fa differenza) è ormai avanti con l'età, ha perso l'avvenenza e ha dimenticato ogni qualità erotica- amatoria, diventa inevitabile che lui finisca col trascurarla sotto le coperte. Ma da qui a parlare di «maltrattamenti» (psicologici, si presume) ce ne passa.
Eppure una signora di Genova oggetto ieri di un servizio sul Tgcom24, pare sia proprio questa la fattispecie di reato che davanti al giudici ha contestato al marito sessualmente inadempiente. L'accusa che pende sulla testa (e non solo sulla testa) dell'uomo è insolita: non aver assolto agli obblighi coniugali. La moglie lo ha portato in tribunale perché, secondo la sua ricostruzione, in tre anni di matrimonio, i rapporti sessuali sarebbero stati soltanto due, peraltro risalenti al viaggio di nozze.
Ma lui, imputato di renitenza alla libido, non ci sta: «I rapporti sono stati almeno il doppio. E poi si sa che in queste cose conta la qualità, non la quantità...». Vabbè, caro collega (inteso come collega-uomo), ma pure se gli accoppiamenti fossero stati 4 in tre anni, risulterebbero assai pochini; senza contare che anche sulla «qualità», la moglie avrebbe espresso più di un dubbio. «Per evitare di fare sesso trovava ogni scusa - ha denunciato la donna - , tanto che, pur di avere un figlio, mi sono sottoposta all'inseminazione artificiale. Ma la nascita di una bambina ha peggiorato la situazione».
I «mal di testa» di lui sono aumentati e sul palcoscenico del sesso matrimoniale è calato definitivamente il sipario. Anche per questa ragione la signora ha chiesto al tribunale la separazione con addebito al marito, esplicitando la presunta ( molto presunta) aggravante del maltrattamento da astensione sessuale.
fonte: Il Giornale
domenica 17 novembre 2013
Squadra pronta
L’ex ministro Corrado Passera,
intervenendo a margine del Forum della Coldiretti, ha ribadito di avere
pronta la squadra per la sua discesa in politica. “Stiamo lavorando con
delle persone su pezzi di programma per un modello del Paese”, ha
detto, anche se non c’è ancora un annuncio ufficiale.
Poi alla domanda se ci sia una squadra pronta,
ha risposto: “Assolutamente sì”. L’ex ministro ha sottolineato che “c’è
un grande lavoro per mettere insieme proposte che servano ad azioni,
per rimettere in moto questo Paese, che non sono né di destra né di
sinistra. Credo che possiamo dare un gran contributo. C’è un bel lavoro
in corso. Quando sarà il momento l’annuncerò”.
L’ex ministro aveva
già annunciato lo scorso 9 ottobre che “ci sarà il tempo e il modo per
farlo bene”, rispondendo a chi gli chiedeva dettagli sul suo progetto
per il rilancio del Paese annunciato con un’intervista a Panorama.
”Sto lavorando con persone in gamba a una serie di proposte per un
progetto che contribuisca a tirar fuori l’Italia dalla situazione nella
quale siamo che non è per niente positiva”, aveva aggiunto, senza
sbilanciarsi sulle persone coinvolte nel piano.
Il fatto quotidiano, 18 ottobre 2013
venerdì 15 novembre 2013
Nella terra di mezzo
Nel 1999 due ragazzi americani di buona reputazione e grande
avvenire dovevano decidere dove ubicare il quartier generale europeo
della loro attività. Arrivarono a Roma, e chiesero di incontrare i
rappresentanti del governo italiano. Durante l’incontro, gli venne
spiegato che il governo aveva già abbastanza grane con l’Olivetti, non
riteneva che l’informatica fosse il futuro e doveva occuparsi delle
quote-latte. Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, andarono a
cercare altrove.
Consideratela, per adesso, una leggenda metropolitana: la fonte è
ottima, ma il racconto è di ieri e non ho potuto verificarlo. Anzi,
prendetela come la parabola di qualcosa, che molti anni dopo, continua a
succedere: i treni digitali passano, e l’Italia li lascia passare. Per
incompetenza, spocchia, miopia, pigrizia, fiscalità, burocrazia: ma li
lascia passare.
Solo il 17% delle aziende italiane possiede un sito internet, contro
il 34% della Spagna (fonte Google Inc.): in Nordeuropa le percentuali
sono superiori. Quando l’ho saputo, sono rimasto stupito? Per nulla.
Martedì pomeriggio, nei dintorni del “Corriere”, ho incontrato una
lobbista (settore energetico), un responsabile della comunicazione (un
museo), un consulente (per un centro di formazione): tutt’e tre mi hanno
spiegato che i siti delle rispettive organizzazioni non c’erano o non
erano aggiornati. Account Twitter o pagine Facebook? Aspetta e spera.
L’economia digitale in Italia vale il 2% del prodotto interno lordo,
contro il 4% della media UE. L’economia digitale del Regno Unito, che
come finanze pubbliche e private non è messo meglio di noi, nel 2015
arriverà al 10% del Pil. Secondo Boston Consulting Group, per ogni
posto di lavoro che cancella, il digitale ne crea quasi due (1,8). Del
tema si occupa anche Enrico Moretti, giovane professore di economia alla
University of California Berkeley, nel libro “The New Geography of
Jobs”. Moretti spiega che la scelta della città dove vivere, negli USA, è
fondamentale: ci sono San Francisco, Seattle, Austin e ci sono Detroit,
Flint, Cleveland. Le prime innovano, la altre arrancano. Le prime
creano posti di lavoro, le altre faticano a tenere quelli che hanno. In
mezzo, spiega, “sta il resto dell’America, ancora incerto sulla strada
da prendere”.
L’Italia è in quella terra di mezzo. Stiamo decidendo; ma il tempo
passa, e i concorrenti corrono. Se perdessimo il passo di questa terza
rivoluzione industriale sarebbe un disastro e un peccato. Perché pochi
Paesi sono adatti al mondo digitale come l’Italia. Abbiamo l’elasticità e
la creatività. Abbiamo bellezza artistica da mostrare e bontà
enogastronomiche da rivelare. Abbiamo luoghi speciali e formidabili
nicchie industriali che aspettano di essere trovate. Internet è lì per
questo. Ma noi siamo lì per Internet?
Beppe Severgnini, Corriere della Sera, 14 novembre 2013
Che nessuno s’azzardi
Che nessuno s’azzardi a partecipare a “riunioni, conferenze o
pubbliche celebrazioni” in cui venga data per certa e acclarata la
credibilità delle apparizioni della Madonna a Medjugorje.
Firmato: Gerhard Ludwig Müller, prefetto della congregazione per la
Dottrina della fede. Destinatari sono i vescovi americani. E’ a loro che
– attraverso una lettera spedita il 21 ottobre scorso dal nunzio negli
Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Viganò – il Vaticano dà istruzioni
precise sul come comportarsi relativamente all’affaire Medjugorje.
L’antefatto, prima di tutto. A fine ottobre era previsto un ciclo di
incontri negli stati del New England con Ivan Dragicevic, uno dei
veggenti bosniaci che dal 1981 assicurano di essere in contatto con la
Vergine che trasmetterebbe loro messaggi destinati all’umanità intera.
La mossa di Müller riporta all’attenzione uno dei capitoli più delicati
sul fronte delle apparizioni mariane. Da tre decenni la chiesa tenta di
rispondere al dilemma se quanto si verifica in Erzegovina sia qualcosa
di trascendente, di soprannaturale e divino. Una battaglia aperta che si
trascina di commissione in commissione, di ufficio in ufficio, nel
tentativo di chiarire una volta per tutte se quelle apparizioni possano
essere paragonate ufficialmente agli eventi di Lourdes e Fatima.
Roma chiede silenzio, sa che il dossier scotta, uno di quelli da maneggiare con estrema cura. Anche
tra gli eminentissimi del Sacro collegio non c’è uniformità di vedute:
se l’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, è il capofila di quanti
sono convinti che tutto ciò che raccontano i veggenti corrisponda a
verità indiscutibile – ospitò Dragicevic nella cattedrale di Santo
Stefano, ringraziandolo per “il servizio reso in tutti questi anni” –,
in Vaticano sono molti quelli che invitano alla prudenza. Lo stesso
cardinale Camillo Ruini, a capo della commissione internazionale
d’inchiesta istituita nel 2010 da Benedetto XVI, fin dal primo giorno in
cui si è riunito il gruppo d’indagine non ha nascosto le difficoltà, e
ha chiarito che ci sarebbe voluto molto tempo prima di giungere a una
decisione definitiva. I problemi sono molti, dalla difficoltà a
districarsi tra le centinaia di diverse traduzioni dei presunti messaggi
della Vergine (spesso non si riesce più a distinguere quelli ufficiali
dai tanti falsi che circolano), alla netta opposizione del clero locale,
a partire da mons. Ratko Peric, vescovo di Mostar e convinto che a
Medjugorje non ci sia nulla di divino o misterioso. Una posizione di
poco mitigata rispetto a quella espressa nel 1984 (solo tre anni dopo la
prima apparizione sulla collina Crnica) dal suo predecessore, monsignor
Pavao Zanic, che battendo il pugno sul tavolo sostenne che “è tutta una
grande truffa, un inganno. Non ci sono apparizioni della Madonna, lì
c’è il demonio!”.
La linea ufficiale è quella del 1991
Nella lettera spedita dal nunzio Viganò ai vescovi di tutte le diocesi degli Stati Uniti, di diavolo non si parla. Seguendo le istruzioni ricevute da mons. Müller, si spiega solo che finché Roma non dirà l’ultima parola in proposito, è preferibile non farsi vedere in compagnia di veggenti convinti di trasmettere al mondo messaggi della Vergine. Così, mentre la commissione procede con l’inchiesta, da oltretevere si ribadisce la linea ufficiale, che è quella della Conferenza episcopale dell’ex Yugoslavia: “Sulla base dell’indagine condotta, non è possibile stabilire se ci sono state apparizioni o rivelazioni soprannaturali”. La lettera spedita dalla nunziatura di Washington ai vescovi americani non avrebbe dovuto essere divulgata, ma era difficile che potesse rimanere riservata dopo l’improvvisa cancellazione di tutti gli incontri con Ivan Dragicevic programmati nel New England. Qualche network cattolico degli Stati Uniti, a cominciare dal Catholic World News, ipotizza che dietro la missiva inviata da Roma a Viganò ci sia molto di più che un semplice atteggiamento prudenziale. Quel divieto, infatti, non sarebbe altro che una sorta di anticipazione del giudizio definitivo che arriverà prima o poi dalla congregazione per la Dottrina della fede. Un verdetto che, scrive ancora il Catholic World News, potrebbe a questo punto essere negativo. Il problema è che a credere alle apparizioni, ormai, sono milioni di fedeli sparsi nel mondo. Ecco perché, prima di dire l’ultima parola sulla questione, dal Vaticano si procede con la massima cautela.
La linea ufficiale è quella del 1991
Nella lettera spedita dal nunzio Viganò ai vescovi di tutte le diocesi degli Stati Uniti, di diavolo non si parla. Seguendo le istruzioni ricevute da mons. Müller, si spiega solo che finché Roma non dirà l’ultima parola in proposito, è preferibile non farsi vedere in compagnia di veggenti convinti di trasmettere al mondo messaggi della Vergine. Così, mentre la commissione procede con l’inchiesta, da oltretevere si ribadisce la linea ufficiale, che è quella della Conferenza episcopale dell’ex Yugoslavia: “Sulla base dell’indagine condotta, non è possibile stabilire se ci sono state apparizioni o rivelazioni soprannaturali”. La lettera spedita dalla nunziatura di Washington ai vescovi americani non avrebbe dovuto essere divulgata, ma era difficile che potesse rimanere riservata dopo l’improvvisa cancellazione di tutti gli incontri con Ivan Dragicevic programmati nel New England. Qualche network cattolico degli Stati Uniti, a cominciare dal Catholic World News, ipotizza che dietro la missiva inviata da Roma a Viganò ci sia molto di più che un semplice atteggiamento prudenziale. Quel divieto, infatti, non sarebbe altro che una sorta di anticipazione del giudizio definitivo che arriverà prima o poi dalla congregazione per la Dottrina della fede. Un verdetto che, scrive ancora il Catholic World News, potrebbe a questo punto essere negativo. Il problema è che a credere alle apparizioni, ormai, sono milioni di fedeli sparsi nel mondo. Ecco perché, prima di dire l’ultima parola sulla questione, dal Vaticano si procede con la massima cautela.
giovedì 14 novembre 2013
Sul trittico
L'opera più cara di sempre, l'asta più ricca e anche l'oggetto di
maggiore valore di un artista ancora in vita: l'asta di Christie's nella
sala del Rockfeller Center macina record trasformandosi nello specchio
di un mercato di arte post-guerra e contemporanea che chiede di avere di
più. L'opera più cara è «Three Studies of Lucian Freud», il trittico di
Francis Bacon risalente al 1969, che viene assegnato a 142,4 milioni di
dollari polverizzando il precedente primato dei 119,9 milioni versati
dal finanziere Leon Black nel maggio 2012 per «L'Urlo» di Edvard Munch.
Il trittico di Bacon nel 1970 venne venduto separatamente a tre
collezionisti. A voler riunire l'opera, com'era desiderio dell'autore, è
stato negli anni Ottanta uno dei tre proprietari, Francesco De Simone
Niquesa, avvocato romano. Christie's non conferma l'identità di De
Simone, ma dichiara che un collezionista italiano ha impiegato 15 anni
per convincere gli altri due a vendergli i propri dipinti.
L'assegnazione del trittico avviene al termine di 10 minuti di sfida a
colpi di milioni fra quattro contendenti. Il mercante d'arte Larry
Gagosian, numero 1 sull'arte contemporanea, si ferma a 110 milioni. Il
collezionista coreano Hong Gyu Shin non va oltre i 100 milioni,
confessando stupore per non essere riuscito a centrare l'obiettivo.
Gli altri clienti sono anonimi: le offerte arrivano al telefono da
Cina e Stati Uniti. A spuntarla è chi telefona dall'America, e la cui
identità resta top secret, rappresentato dal mercante d'arte Bill
Acquavella che in passato rappresentava in esclusiva proprio Lucian
Freud. Offre 127 milioni di dollari che diventano 142,2 sommata la
commissione.
A versare la cifra, secondo il tam tam di Manhattan, potrebbe essere
stato Steve Wyn, re dei casinò di Las Vegas. Il silenzio al cardiopalma
con cui la sala ha seguito la sfida sfocia in un lungo applauso, che
sottolinea il record ed anche l'inarrestabile crescita del mercato. Fra
chi applaude ci sono alcuni dei protagonisti di queste competizioni:
Michael Ovitz, cacciatore di talenti a Los Angeles, Aby Rosen, gigante
dell'immobiliare, Martin Margulies di Miami, il finanziere Donald Marron
e Daniel Loeb, manager di hedge fund.
A spiegare quanto è avvenuto è Valentina Castellani, direttore della
Gagosian Gallery a New York: «I grandi trittici di Bacon sono rarissimi,
ne esistono solo una trentina di cui la metà sono in musei, il mercato
ne aspettava uno da anni e questo era attraente non solo per qualità
pittorica e soggetto - Freud era amico e rivale di Bacon - ma perché non
aveva la durezza di altri suoi quadri». E le emozioni non finiscono
qui.
Le opere presentate sono 69 e solo 6 restano invendute. Alla fine il
totale raggiunge 691,5 milioni di dollari stracciando il record
precedente di 495 milioni, sempre di Christie's in maggio, e superando
le migliori previsioni di 670,4 milioni.
Il balzo è merito anche del terzo record della serata stellare: il
«Baloon Dog» arancione di Jeff Koons, venduto ad un altro cliente
misterioso al telefono per 58,4 milioni di dollari. Si tratta del valore
più alto assegnato all'opera di un artista ancora in vita. A venderlo è
Peter Brant, il magnate dei media che sta creando una sua fondazione a
Greenwich, in Connecticut, e il valore da capogiro si deve al fatto che è
l'unico esemplare dei 5 identici realizzati da Koons con colori
differenti.
Ad avere quello giallo è il miliardario Steven Cohen, il blu è del
finanziere Eli Broad, il magenta è del magnate francese Francois Pinault
e il rosso dell'industriale greco Dakis Joannous. Fra gli altri
protagonisti dell'asta c'è «Coca Cola (3)» di Andy Warhol, uno dei
quattro realizzati dal 1961 al 1962, che viene assegnato per 57,2
milioni di dollari. Anche sul fronte di Warhol tira aria di record ma
questa volta grazie a Sotheby's che nella notte ha messo all'asta il
«Silver Car Crash» puntando a registrare la quotazione più alta di
sempre per questo artista-simbolo del Novecento.
Francesco Bonami per "La Stampa"
Il mercato dell'arte, e in particolar modo le aste di arte moderna è
contemporanea, sembrano un Gran Premio di F1. Ogni giro c'è chi dice «al
prossimo la macchina si rompe». Invece ogni giro che passa la macchina
va sempre più forte.
Mercoledì sera a New York nella prima delle vendite della settimana
calda delle aste autunnali a New York , Christie's ha battuto opere
d'arte per 691,5 milioni di dollari polverizzando il record, sempre di
Christie's, di 495 milioni di dollari venduti solo la primavera scorsa.
Per contribuire a questo tanto incredibile quanto assurdo e surreale
successo, in un mondo non certo sanissimo da un punto di vista
economico, hanno fatto offerte collezionisti arrivati da ogni
continente, dall'Asia all'America all'Europa, al Brasile e sicuramente
dal mondo arabo.
Il botto lo ha fatto un trittico di Francis Bacon del 1969 comprato
per 142,4 milioni di dollari da un anonimo collezionista e venduto da un
altrettanto anonimo collezionista del quale si conosce solo la
nazionalità, italiana. Il signore lo aveva a casa propria da quasi
trent'anni, ma visto il risultato è difficile che si sia pentito di
averlo fatto uscire. Anche il prezzo del Bacon è stato un record che ha
frantumato quello, del maggio del 2012, di 119,9 milioni pagati per una
versione del ben più famoso «Urlo» di Munch da Sotheby's.
Se Bacon è stato la star indiscussa della serata per il quale si sono
azzuffati almeno sette potenziali compratori, non sono mancate altre
incredibili e quasi scandalose sorprese, come il record per un artista
vivente di 58 milioni di dollari pagati per il «Baloon Dog arancione» di
Koons o i 26,4 milioni pagati per un'opera del 1988 di Christopher Wool
intitolato «Apocalypse Now» e che consiste in una scritta nera su fondo
bianco che dice «Sell the House Sell the Car Sell the Kids», «Vendi la
casa vendi la macchina vendi i bambini».
Speriamo che non siano stati venduti bambini per una follia del
genere, ma sicuramente almeno un pezzo di anima il compratore deve
averla impegnata per avere il coraggio di pagare una cifra che possiamo
definire, senza paura di sbagliare, «idiota» per un'opera sì importante,
ma non certo unica o favolosa di un'artista a metà della sua carriera
con molta strada davanti da fare.
Detto tutto questo la vera domanda è: c'è un criterio in questa
follia? Proviamo a rispondere senza cadere in oziosi moralismi. Sì, un
criterio c'è, anche se fuori controllo. Il criterio è la riconoscibilità
e la qualità delle opere. Gli artisti che nel corso della loro carriera
riescono a creare opere «logo», inconfondibili, sono quelli che più
probabilmente raggiungeranno prezzi molto alti.
I tre esempi che abbiamo fatto prima: Bacon, Koons e Wool rientrano
in questo criterio. E anche Basquiat, che ha fatto pure prezzi da
capogiro. Di questi artisti però sono solo le opere iconiche che possono
raggiungere prezzi astronomici. Altre opere più mediocri hanno invece
un destino ben diverso. Ad esempio due lavori, mediocri, di Koons nella
stessa asta non hanno trovato nessun acquirente. Questo per dire che non
necessariamente chi ha un Koons in casa o un Bacon o un Wool ha
virtualmente decine di milioni in banca, dovesse decidere di venderli.
Il che conferma che sono le opere a fare il mercato e non i nomi degli
artisti.
Emblematico il caso del nostro Cattelan. Delle due opere in asta, «Il
bambino sul triciclo» e «I due poliziotti a testa in giù», una non è
stata venduta e l'altra è stata venduta per un prezzo decisamente
inferiore alla stima minima. Perché? Cattelan che era una delle punte di
diamante del mercato fino a pochi mesi fa non lo è più? Assolutamente
no.
Se in asta ci fossero state opere iconiche come una delle sculture
autoritratto, cifra inconfondibile dell'artista italiano, credo avrebbe
raggiunto un prezzo molto alto. Questo perché Cattelan, come la
fotografa americana Cindy Sherman, un'altra artista le cui opere sono
andate a prezzi stellari, è l'icona di se stesso. Il valore aggiunto del
suo lavoro è la sua maschera, il suo volto.
Quando questo viene a mancare anche l'interesse per le sue opere
s'indebolisce. L'arte, quella più famosa e ora quella più cara, da che
mondo è mondo, è quella che si riconosce al primo colpo d'occhio senza
dover andare a leggere l'etichetta. Anche perché oggi è purtroppo
diventato quasi più interessante andare a leggere il cartellino con il
prezzo, possibilmente quello pagato e non quello immaginato.
Valore turismo
In Italia quasi un occupato su dieci
lavora nelle attività legate al turismo ed il 10% del Prodotto Interno
Lordo viene generato dal turismo, ma l’attenzione che viene dedicata a
questo settore mobilita meno dell’uno per cento degli interessi della
nostra politica. Non vi è ancora un Ministero effettivamente
responsabile del settore, non vi è una strategia nazionale e il turismo è
sempre invocato ma mai utilizzato nelle decisioni sulle quali puntare
per lo sviluppo del Paese.
Eppure non solo esso ha dimensioni poderose ma continuerà a crescere
nei prossimi anni ad un ritmo superiore a quello di quasi tutti gli
altri settori produttivi. Mentre il numero dei turisti interni rimarrà
probabilmente stagnante, quello dei turisti internazionali è infatti previsto crescere del 5% all’anno.
Non c’è bisogno di ricorrere ad artifici retorici per sottolineare la
nostra eccellenza nelle attrazioni storico-culturali, nelle meraviglie
naturali, nelle unicità enogastronomiche e nel rilievo mondiale del
nostro artigianato.
Nonostante tutto questo sia largamente riconosciuto e l’Italia venga prima nelle preferenze mondiali continuiamo a perdere quote di mercato rispetto ai principali concorrenti europei.
Eravamo al primo posto in Europa ed ora ci troviamo al terzo, dopo la Francia e la Spagna.
Gli Operatori Turistici mondiali continuano a ripetere che nei
desideri della loro clientela non siamo secondi a nessuno ma che la meta
italiana risulta troppo faticosa, costosa ed imprevedibile. La nostra
offerta è frammentata e il sistema dei trasporti per raggiungere
l’Italia (vedi il caso Alitalia) non è all’altezza delle necessità, mentre le sorprese spiacevoli in termini di prezzi e trattamento sono sempre in agguato.
La nostra struttura di promozione all’estero è, per comune ammissione, del tutto inefficiente.
Non perché le risorse impiegate siano trascurabili ma perché
l’esclusiva competenza regionale in materia turistica rende impossibile
una nostra presenza attiva nei mercati mondiali. Le singole regioni
agiscono in modo del tutto autonomo e nessuna di esse ha le risorse per
essere concretamente e costantemente operativa nei mercati mondiali.
Alle fiere internazionali del turismo ci presentiamo con una
molteplicità di piccole presenze che non si traducono in un efficace
presenza sui mercati.
E’ chiaro che la prima decisione da prendere dovrebbe essere quella di riformare di nuovo il Titolo V° della Costituzione
e riportare le competenze in materia a livello nazionale. Un sano
federalismo dovrebbe infatti riconoscere gli errori compiuti. Capisco
che questo non è possibile nel breve periodo ma mi aspetto che, nel loro
interesse, le autorità regionali chiedano e promuovano un forte
coordinamento a livello nazionale. Una specie di competenza condivisa di
fatto.
L’attuale governo possiede già i potenziali contenuti di questo necessario coordinamento avendo ereditato dal ministro Gnudi un progetto di riforma del settore del quale la caduta del precedente esecutivo ha impedito l’approvazione ma che appare in perfetta linea con gli obiettivi del governo attualmente in carica.
Oltre alla riforma della governance del settore e al potenziamento dell’ENIT, il piano prevede
la creazione di alcuni grandi poli turistici integrati, specialmente
nel Mezzogiorno (E’ mai possibile che i turisti nella splendida Sicilia
siano meno di un decimo di quelli delle Baleari?)
Le altre scelte fondamentali riguardano la riqualificazione delle
strutture ricettive, favorendo ad esempio il cambio d’uso degli alberghi
obsoleti e l’ingresso nel settore di capitali italiani e stranieri,
partendo dal fatto che il nostro è l’unico grande paese turistico nel
quale non opera in modo diffuso alcuna grande catena di alberghi, per
cui il turista non riesce mai a prevedere quali trattamenti riceverà
nella sua prossima tappa.
L’ultimo punto importante riguarda l’investimento nelle risorse umane qualificate
necessarie per fare progredire il settore, incluso il necessario
processo di digitalizzazione e il legame con le nostre risorse
artistico-culturali. Si noti che il Decreto Sviluppo dell’agosto 2012 aveva all’uopo costituito una Fondazione che si è poi impantanata nelle paludi burocratiche.
Il raggiungimento di quest’ultimo obiettivo sarà certamente favorito
dal fatto che le competenze per il Turismo sono in via di passaggio al
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che ha perciò la felice
occasione di valorizzare il patrimonio ad esso affidato con mezzi e
strumenti che vanno oltre a quelli tradizionalmente utilizzati.
Per il ministro Bray e il governo Letta questa è certo l’occasione da
non perdere per moltiplicare l’efficacia della sua presenza in un campo
anch’esso tenuto troppo spesso ai margini degli obiettivi di sviluppo e
di occupazione dell’Italia. Dando concretezza alle azioni previste nel
Piano si dovrebbero infatti realisticamente creare 500.000 nuovi posti
di lavoro, con un aumento del PIL di 30 mila miliardi.
Mi sembra che sia tempo di portare il nostro turismo nella modernità, superando finalmente il giudizio che Goethe
dava del nostro Paese quando ben 200 anni fa scriveva che “si trovano
a” “Roma (ma intendeva in tutt’Italia) vestigia di una magnificenza e di
uno sfacelo tali che” “superano,l’una e l’altro, la nostra
immaginazione”.
Per ora non so se camminiamo verso lo sfacelo. Sono però sicuro che non ci dirigiamo ancora verso la magnificenza.
Romano Prodi, Il Messaggero, 11 novembre 2013
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