Nel 1999 due ragazzi americani di buona reputazione e grande
avvenire dovevano decidere dove ubicare il quartier generale europeo
della loro attività. Arrivarono a Roma, e chiesero di incontrare i
rappresentanti del governo italiano. Durante l’incontro, gli venne
spiegato che il governo aveva già abbastanza grane con l’Olivetti, non
riteneva che l’informatica fosse il futuro e doveva occuparsi delle
quote-latte. Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, andarono a
cercare altrove.
Consideratela, per adesso, una leggenda metropolitana: la fonte è
ottima, ma il racconto è di ieri e non ho potuto verificarlo. Anzi,
prendetela come la parabola di qualcosa, che molti anni dopo, continua a
succedere: i treni digitali passano, e l’Italia li lascia passare. Per
incompetenza, spocchia, miopia, pigrizia, fiscalità, burocrazia: ma li
lascia passare.
Solo il 17% delle aziende italiane possiede un sito internet, contro
il 34% della Spagna (fonte Google Inc.): in Nordeuropa le percentuali
sono superiori. Quando l’ho saputo, sono rimasto stupito? Per nulla.
Martedì pomeriggio, nei dintorni del “Corriere”, ho incontrato una
lobbista (settore energetico), un responsabile della comunicazione (un
museo), un consulente (per un centro di formazione): tutt’e tre mi hanno
spiegato che i siti delle rispettive organizzazioni non c’erano o non
erano aggiornati. Account Twitter o pagine Facebook? Aspetta e spera.
L’economia digitale in Italia vale il 2% del prodotto interno lordo,
contro il 4% della media UE. L’economia digitale del Regno Unito, che
come finanze pubbliche e private non è messo meglio di noi, nel 2015
arriverà al 10% del Pil. Secondo Boston Consulting Group, per ogni
posto di lavoro che cancella, il digitale ne crea quasi due (1,8). Del
tema si occupa anche Enrico Moretti, giovane professore di economia alla
University of California Berkeley, nel libro “The New Geography of
Jobs”. Moretti spiega che la scelta della città dove vivere, negli USA, è
fondamentale: ci sono San Francisco, Seattle, Austin e ci sono Detroit,
Flint, Cleveland. Le prime innovano, la altre arrancano. Le prime
creano posti di lavoro, le altre faticano a tenere quelli che hanno. In
mezzo, spiega, “sta il resto dell’America, ancora incerto sulla strada
da prendere”.
L’Italia è in quella terra di mezzo. Stiamo decidendo; ma il tempo
passa, e i concorrenti corrono. Se perdessimo il passo di questa terza
rivoluzione industriale sarebbe un disastro e un peccato. Perché pochi
Paesi sono adatti al mondo digitale come l’Italia. Abbiamo l’elasticità e
la creatività. Abbiamo bellezza artistica da mostrare e bontà
enogastronomiche da rivelare. Abbiamo luoghi speciali e formidabili
nicchie industriali che aspettano di essere trovate. Internet è lì per
questo. Ma noi siamo lì per Internet?
Beppe Severgnini, Corriere della Sera, 14 novembre 2013
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