Come ha potuto capovolgere in senso positivo, in solo pochi mesi,
un’immagine deturpata e perfino irrimediabilmente compromessa fino a
farla diventare il brand più forte nel mercato globale? È quasi una
bestemmia parlare così della chiesa cattolica. Eppure comunicatori,
esperti di marketing, maghi del branding stanno studiando con attenzione
il fenomeno Francesco. Con la loro ottica professionale e cercando di
trarre lezioni utili per il loro lavoro.
Certo, la missione del papa ha a che fare con Dio, non con un
marchio. Ma la chiesa di Roma è anche un’organizzazione di portata
planetaria, con un miliardo e duecento milioni di fedeli e oltre 400.000
preti. A parte la sua lunga storia millenaria, essa ha una geografia
sconfinata, con ramificazioni territoriali e locali estese e profonde
dappertutto nel mondo (2.795 diocesi).
Inoltre è la più grande “impresa”, certo non profit, e non ha niente
da imparare dalle più forti multinazionali che proliferano sul profitto.
Eppure, pochi mesi fa il suo “centro decisionale” era arrivato
sull’orlo del fallimento, economico ma anche morale. Se poi davvero
sarebbe avvenuto, il fallimento – fosse stato eletto un altro papa,
diverso da papa Bergoglio – o ne avrebbe accelerato la corsa verso il
precipizio, è tutto da vedere. Ma intanto con il papa arrivato dalla
“fine del mondo”, la chiesa sta conoscendo un vero e proprio boom.
Già, pochi giorni dopo la sua elezione, avvenuta nella sorpresa
generale il 13 marzo scorso, Francesco era assurto allo status di star
internazionale, spingendo verso l’oblio temi che avevano occupato
ossessivamente i media fino agli ultimi giorni del pontificato di
Benedetto, dai preti pedofili ai coltelli che volavano dentro la curia.
Non ci voleva un esperto di comunicazione per notare – per esempio –
come un’agenzia di stampa internazionale, quale la Reuters, mettesse
solo al quarto paragrafo di un take dedicato al nuovo papa i riferimenti
allo scandalo di Vatileaks e agli scontri all’interno del Vaticano,
mentre il lead parlava del programma intenso di Francesco, in
vista della Pasqua, e la sua raccomandazione rivolta ai preti perché si
dedichino ad aiutare i poveri e i sofferenti invece di occuparsi delle
loro carriere di “manager” della chiesa.
Non va dimenticato l’impegno solitario e coraggioso di Benedetto
contro la “sporcizia” nella chiesa. Eppure il papa tedesco è finito per
apparire lui, il problema. Francesco oggi è considerato “la soluzione”, come ha scritto su The Telegraph Damian Thompson, in un articolo dal titolo “Has Pope Francis decontaminated the Catholic brand?”.
A colpire Thomson, come molti altri vaticanisti ed esperti del mondo
cattolico, sono innanzitutto i numeri. I tre milioni di Copacabana. Le
folle di San Pietro che ormai arrivano al lungo Tevere. I dieci milioni
di follower su Twitter. L’infinito numero di voci su Google.
Soprattutto più fedeli nelle chiese. Più fedeli nei confessionali. Più
praticanti a fare la comunione. È il cosiddetto “Francis effect”, come scrivono Guardian e Washington Post, riprendendo un’indagine condotta dal Cesnur sull’effetto Francesco.
Secondo un esperto di marketing papa Francesco dimostra che “leading by example”, guidare con l’esempio, è una chiave decisiva per l’affermazione di un “marchio”. Ed è quello che fa continuamente. La foto dell'abbraccio
a un Elephant Man è diventato immediatamente “virale”. «Diavolo, anche
gli atei lo amano», quasi esulta la Cnn registrando il gran numero di
tweet di non credenti e il successo di un dibattito on line sulla
capacità reale di questo papa di “connettersi” con la gente che soffre.
La chiave del suo successo? Semplice: il suo sforzo costante teso a
includere nel discorso corrente soprattutto la gente normale – i tanti
fedeli alle prese con i problemi d’oggi, morali e pratici – che si
sentiva non proprio desiderata come parte del gregge, perché
l’attenzione era rivolta ai fedeli “in regola” (o ai seguaci di
movimenti ecclesiali).
Chi si mischia nella folla dei mercoledì, o la domenica all’Angelus,
vede appunto persone e famiglie assolutamente “normali”, che sono la
maggioranza del popolo cattolico, e che però non si sentivano in
connessione con la chiesa di Benedetto. Come ha scritto su Repubblica
Vito Mancuso, la posta in gioco nell’azione di papa Francesco,
«consiste nel diritto di tutti i battezzati di avere una chiesa
semplicemente normale».
Tra i fan di papa Bergoglio ci sono certamente i “cafeteria Catholics”,
come li definisce Damian Thompson, e i non credenti. Meglio così
direbbe Francesco. Il suo, peraltro, non è proselitismo («Una solenne
sciocchezza», l’ha definito nella sua conversazione con Eugenio
Scalfari) ma l’effetto di un’azione più lungimirante, che ha al suo
centro la ridefinizione del papato stesso e dell’organizzazione della
chiesa in una prospettiva di lunga durata.
In questo Bergoglio è davvero un papa e non l’ad di una
multinazionale, che per quanto grandi siano i suoi interessi, non ha
dietro di sé millenni e davanti a sé altri millenni. È un «agente di
cambiamento» dentro un’organizzazione che sembrava incapace di cambiare e
appariva intrinsecamente e irrimediabilmente conservatrice e ostaggio
dei conservatori.
Già i conservatori. Come osserva ancora Thompson, «una cosa è per la
chiesa fronteggiare l’ostilità perché sfida stili di vita confortevoli e
alla moda; altra cosa attirarsi ostilità perché sinonimo del male. Se
papa Francesco può creare un’atmosfera nella quale i cattolici sono
giudicati per le loro azioni oggi piuttosto che per i crimini
abominevoli compiuti da una minoranza del loro clero, allora anche il
più tosto dei tradizionalisti gli sarà debitore».
fonte: Guido Moltedo per Europa
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