"La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo,
non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra
capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura. A
volte, quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai che fanno il
doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di
andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza.
Abbiamo
portato in tutti i paesi della comunità le nostre armi segrete. I
libri, i corsi culturali, l’assistenza tecnica nel campo della
agricoltura. In fabbrica si tengono continuamente concerti, mostre,
dibattiti. La biblioteca ha decine di migliaia di volumi e riviste di
tutto il mondo. Alla Olivetti lavorano intellettuali, scrittori,
artisti, alcuni con ruoli di vertice. La cultura qui ha molto valore”.
Ma poi Adriano Olivetti, molto più avanti del suo tempo (siamo nel 1960) ripensa al ruolo dei partiti. “Alla
fine del fascismo la maggior parte degli intellettuali vedeva nei
partiti uno strumento di libertà. Io no. Sono organismi che selezionano
personale politico inadeguato. Un governo espresso da un Parlamento così
povero di conoscenze specifiche non precede le situazioni, ne è
trascinato. Ho immaginato una Camera che soddisfi il principio della
rappresentanza nel senso più democratico; e poi sappia scegliere ed
eleggere un senato composto delle persone più competenti di ogni settore
della vita pubblica, della economia, dell’architettura,
dell’urbanistica, della letteratura”.
C’era nel suo
“progetto” (ricordo l’uso continuo di questa parola) il raccordo fra la
visione politica della vita e la competenza tecnica per affrontare i
problemi. Gli è stato chiesto se tutto questo non fosse utopia, ovvero un ponte lanciato nel vuoto. E ha risposto pensando a un futuro che non è ancora venuto: “Beh,
ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più
comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio
di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a
lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.
Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2011
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