lunedì 18 ottobre 2010

800 anni, ma non li dimostra! Da Federico II all'avvento dei cappuccini

E TU BETLEMME, CITTA’ DELLA MARCA, NON SEI LA PIU’ PICCOLA TRA LE GRANDI CITTA’ DELLA NOSTRA STIRPE”
La fama riconosciuta, nel corso dei secoli, alla città di Jesi è dovuta, in larga misura, ad un evento di natura probabilmente casuale verificatosi il 26 dicembre dell'anno 1194. In quel giorno, sotto una tenda collocata nella piazza principale, vide la luce Federico II Hohenstaufen, figlio dell’Imperatore Enrico VI e di Costanza di Altavilla, destinato ad essere  protagonista della storia europea per oltre mezzo secolo.
Non sappiamo se la città della nascita sia stata scelta in base ad una valutazione logistica preventiva (in effetti Enrico VI aveva avuto occasione di trattenersi a Jesi alcuni anni prima) ovvero per la necessità determinata dall’insorgere delle doglie del parto, durante il viaggio di trasferimento verso la Sicilia.
Secondo l'analisi del contesto ambientale formulata da Sturner, all'epoca, “la città stentava, conducendo un'esistenza modesta, favorita sì dalla posizione nella valle dell'Esino, importante collegamento del traffico tra l'entroterra e la costa, ma ostacolata dall'assenza di un proprio sbocco sul mare e dalla conseguente dipendenza dalle città portuali, in particolare dalla troppo potente Ancona”.
Dopo il glorioso periodo benedettino (attorno al Mille si contavano, nella Vallesina, non meno di 26 insediamenti), stava costituendosi la “Respublica Aesina”, epilogo di processi storici convergenti: da un lato l’affrancamento dei fondi rustici e urbani dal dominio religioso, dall’altro la fondazione e l’aggregazione  delle confraternite delle arti e dei mestieri artigiani.
In una fase di delicata transizione verso nuovi equilibri socio-economici, nel 1220 Papa Onorio III si vide costretto ad inviare nella Marca di Ancona un suo delegato, per richiamare le popolazioni ai doveri di sudditanza. Lo stesso pontefice il 5 luglio 1222 indirizzò una bolla all’Abate di San Savino, affinché gli Jesini gli prestassero obbedienza incondizionata.
Ma proprio Federico II, in lotta contro il Papato e desideroso di fomentare la ribellione, in una celebre lettera del 1239 si rivolse agli jesini con parole di commossa tenerezza:
Se il luogo nativo è oggetto di spontaneo amore ed affetto indifferentemente da tutti gli uomini; se l'amore della Patria natale spinge tutti con la sua dolcezza, né permette che ci si dimentichi di essa, Noi, per la stessa ragione, e secondo natura, siamo portati ed avvinti ad amare Jesi, nobile città della Marca, insigne principio della nostra vita, terra ove l'illustre nostra madre ci ha dato luce, ove la nostra culla risplendette, con che questa città, la nostra Betlemme, terra di Cesare e nostra origine, è incisa nella nostra mente e profondamente radicata nel nostro cuore. E tu Betlemme, città della Marca, non sei la più piccola tra le grandi città della nostra stirpe. Da te infatti è uscito il condottiero,  il principe dell'Impero romano chiamato a reggere e proteggere il tuo popolo e questi non permetterà che tu debba ancora essere sottoposta ad un governo nemico. Sorgi, dunque, prima genitrice e scuoti l'angusta oppressione del nostro oltraggiatore. Pertanto, commiserando il giogo al quale siete sottoposti, abbiamo deciso di liberare voi e gli altri nostri fedeli sia delle Marche che del Ducato di Spoleto. E poi che questi (il Papa), per sua evidente ingratitudine, si è dimenticato di noi e dell'Impero stesso -  vi sciogliamo dal giuramento che avete prestato alla Chiesa (…)”.
Se, per ipotesi,volessimo ricercare l'atto costitutivo ufficiale di quel sentimento filo-ghibellino impresso da secoli nel carattere della gente  jesina, credo che non potremmo prescindere da questa lettera di Federico II, cui non fa certamente difetto la chiarezza delle finalità antipapali.
                                            
                                                        
A più riprese gli storici si sono domandati se  Federico e Francesco, pressoché coetanei, si fossero mai incontrati.
Nessuna fonte documentale dà conto di un tale evento, che probabilmente rientra in un alone di leggenda.
Nella sua Cronologia della vita di San Francesco, il vescovo Arduino Terzi (vissuto, si badi bene, nel ‘900), riferisce un episodio che si sarebbe verificato attorno al 1220 nel castello svevo di Bari.

Federico II, 26enne,  all’apice della potenza per aver appena ricevuto la corona del Sacro Romano Impero, volle mettere alla prova le virtù del 38enne Francesco, che proprio in quel periodo stava predicando nel Regno di Sicilia.
Al termine di una cena organizzata in suo onore, l’Imperatore fece preparare per il frate un comodo letto con un focolare acceso.

Mentre il Poverello, come sua consuetudine, si accingeva a riposare sulla nuda terra, una donna bellissima entrò  nella sua camera invitandolo a coricarsi al suo fianco.

Il frate, imperterrito, raccolse dal fuoco alcuni carboni ardenti e li distese al centro della stanza, proponendo alla donna di stendersi lì sopra, accanto a lui.

Allora l’imperatore, che seguiva la scena di nascosto,  fece ingresso nella camera e con ammirato stupore si rivolse a Francesco: “Alzati, Dio è con te e vera è la parola detta dalla tua bocca”.

La scarsa attendibilità del racconto è provata dalla perfetta somiglianza con un episodio riportato nel cap. XXIV dei Fioretti, questa volta con protagonista il Sultano di Egitto al posto di Federico II.

Eppure, quasi a testimoniare il desiderio di un incontro con l’Imperatore, appare rilevante un passo della Leggenda Perugina  (riportato anche nello Specchio di Perfezione, 1814 FF), nel quale Francesco si rivolge idealmente a Federico II:

“Se avrò occasione di parlare con l’imperatore, lo supplicherò che per amore di Dio e per istanza mia emani un editto, al fine che nessuno catturi le sorelle allodole o facci a loro del danno. E inoltre, che tutti i podestà delle città e i signori dei castelli e dei villaggi siano tenuti ogni anno, il giorno della Natività del Signore, a incitare la gente che getti frumento e altre granaglie sulle strade, fuori delle città e dei paesi, in modo che in un giorno tanto solenne gli uccelli, soprattutto le allodole, abbiano di che mangiare. Dia inoltre ordine l’imperatore, per riverenza al figlio di Dio, posto a giacere quella notte dalla beata vergine Maria nella mangiatoia tra il bove e l’asino, che a Natale si dia da mangiare in abbondanza ai fratelli buoi e asinelli. E ancora in quella festività, i poveri vengano ben provvisti di cibo dai benestanti”(1669 FF).

Accertata – almeno allo stato attuale delle conoscenze storiche – la mancanza di prove su un incontro tra Francesco e Federico, non possiamo, tuttavia, sottacere l’esistenza di una sorta di presunzione di verosimiglianza,  tramandata, nel corso dei secoli, dalla tradizione popolare.

Il mondo dell’arte non ha mai cessato di alimentare tale suggestione, addirittura sino ai nostri giorni.
Nel film di Paolo Bianchini “Il giorno, la notte. Poi l’alba” (2006) si narra dell’incontro in Puglia tra Francesco, reduce dalla Crociata e Federico II, assillato dalle  pressioni  di Papa Onorio per l’organizzazione di una nuova spedizione a Gerusalemme, sotto minaccia di scomunica.

Entrambi i personaggi condividono sentimenti di avversione per la “guerra santa”.
Entrambi si pongono alla ricerca dell’armonia: intesa in senso mistico e religioso da Francesco ed in senso politico e artistico da Federico.
Entrambi diventano simboli  di tolleranza e  integrazione.

Di ben altra consistenza è, invece, il patrimonio documentale  riguardante  le relazioni tra l’Imperatore ed il movimento francescano.

Si tratta di rapporti complessi e altalenanti, caratterizzati da fasi di sintonia ideologica cui fanno seguito periodi di virulenta ostilità.

E’ certamente paradossale che Federico II - scomunicato dalla Chiesa per ben tre volte (nel 1227 e nel 1239 da Gregorio IX e nel 1245 da Innocenzo IV) – si trasformasse in paladino della “questione pauperistica”, assurgendo al ruolo di strenuo difensore della radicalità evangelica:
E’ un’opera di carità togliere agli uomini di Chiesa le ricchezze di cui si circondano per la dannazione eterna delle loro anime. Seguiteci e insieme faremo in modo che essi, perdendo i beni superflui, possano servire il Signore contentandosi del necessario”.

E ancora più esplicitamente, in una lettera rivolta al sovrano greco di Nicea:
“Non vedi i cardinali, gli alti prelati portare armi di cavalieri e armature da guerra? Perché uno si chiama conte, l’altro duca, l’altro mangravio e governano delle provincie? Che ancora? Eccone uno che comanda un corpo d’esercito, eccone un altro che guida un’armata. Che dunque? Essi fanno la guerra, hanno corazze, armi e bandiere. Non sono dunque dei sacerdoti, ma dei lupi famelici”.

Parole di sostanziale sintonia con il pensiero del francescano S. Antonio da Padova, il quale non aveva esitato a sferzare il comportamento di sacerdoti avidi e viziosi: “Della religione hanno fatto culto del demonio, del deserto palazzi, dei chiostri castelli, della solitudine corte regale”.

La sincerità dei sentimenti dell'Imperatore in tema di fede,  fu posta in dubbio da più parti, per un sospetto mai smentito di strumentalità politica in funzione antipapale. A tale proposito, il francescano Salimbene de Adam insinuò che non era stato lo zelo religioso a spingere Federico II ad invocare la povertà della Chiesa, quanto piuttosto la sua cupidigia e l’avidità di potere.

D'altra parte, non meno drastica era stata la posizione di Papa Gregorio IX nei confronti dell'Imperatore, addirittura paragonato alla bestia dell'Apocalisse di San Giovanni:

“Una bestia furiosa è uscita dal mare, piena di parole bestemmiatrici; i piedi sono quelli di un orso, i denti quelli di un leone; assomiglia ad un leopardo ed apre le fauci solo per oltraggiare il nome di Dio.
Non teme neppure di scagliare insulti contro il tabernacolo divino e contro i santi che abitano nei cieli. Con gli artigli ed i denti d'acciaio vuole fare a pezzi il mondo e stritolarlo sotto i piedi. Per demolire la muraglia della fede cattolica, da molto tempo ha preparato gli arieti...
Smettete di meravigliarvi se alza contro di noi il pugnale dei suoi oltraggi, colui che già si erge per cancellare dalla terra il nome del Signore. Invece, per resistere alle sue menzogne con la verità manifesta e confutare i suoi inganni con la prova della parola, osservate la testa, il corpo e la coda di questa bestia, di questo Federico, di questo presunto imperatore.”

Data la situazione dei rapporti, appare francamente sconcertante che proprio uno dei massimi collaboratori di San Francesco diventasse un importante consigliere di Federico II.
Stiamo parlando di frate Elia da Cortona (1180 ca – 1253) , ovverosia di colui che lo stesso Francesco “aveva scelto come madre per sé e costituito padre degli altri frati”(1 Cel 98; FF 491).

Dotato di straordinarie capacità organizzative e diplomatiche, Frate Elia divenne - per diretta designazione del fondatore - prima Vicario e poi Ministro Generale dell'Ordine. In tale veste fu promotore del controverso progetto per l'erezione dell'imponente Basilica di San Francesco in Assisi, ritenuto da molti palesemente contrario alla testimonianza di vita del Santo della povertà.

Proprio a tale epoca risale lo scontro intestino tra l'ala oltranzista degli zelanti e quella moderata dei lassisti, di cui abbiamo ampiamente trattato nella prima parte della ricerca.
E sempre in quel periodo (anno 1236) l'Imperatore scrisse una lettera a Frate Elia in occasione della traslazione a Marburgo del corpo della sua parente terziaria francescana, la beata Elisabetta Regina d'Ungheria.

Nella missiva, Federico II  impetrava le preghiere dei francescani ed esprimeva apprezzamenti ed elogi per l'Ordine ed il suo Generale.

Deposto dalla carica di Ministro nel 1239 (probabilmente anche a motivo della sua vicinanza ideologica  alle posizioni dell'Imperatore, scomunicato per la seconda volta proprio in quell'anno) , Frate Elia  decise di abbracciare l'ideale ghibellino, accettando incarichi diplomatici direttamente da Federico II.

Per tale ruolo, esercitato al servizio di uno scomunicato, Frate Elia subì l'identica condanna ecclesiastica,  comminata – si noti bene -  da quel Papa Gregorio IX che, ancora Cardinale, lo aveva sostenuto ed incoraggiato  nel delicato compito di governo dell'Ordine francescano.

Dinnanzi al movimento francescano, l'Imperatore prese le difese di Frate  Elia, accusando apertamente il Papa di aver  tradito la volontà di San Francesco.

Ma l'Ordine rimase fedele alla Sede Apostolica, impegnandosi con determinazione in una capillare propaganda contro l'Imperatore.

In questo contesto si inserisce l'attività che, in termini moderni, potremmo definire di disinformazione organizzata da frate Salimbene de Adam il quale propalò l’infamante diceria secondo la quale Federico non era, in verità, figlio di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla (all’epoca del parto molto attempata), bensì di un macellaio jesino.

Tale diceria ebbe notevole risonanza tanto che, lo stesso suocero di Federico, Giovanni Brienne, giunse ad insultare il sovrano apostrofandolo con l’epiteto di “Fi de becer”.
Al di là del leggendario episodio dell’incontro di Bari, gli storici hanno riconosciuto in Francesco e Federico, pur nella differente concezione della vita, il tratto comune della modernità.

Il francese Emile Gebhart, nella sua opera Italie mystique (1906) considera entrambi i personaggi, ciascuno nella sua sfera, come “liberatori” dell’Italia rispetto agli schemi e alle tradizioni medievali.

Federico II, Stupor Mundi, segnò il suo tempo per una straordinaria capacità di innovazione nel diritto, nella cultura e nelle scienze.

Grazie a Francesco: “la libertà di spirito, l’amore, la pietà, la serenità gioiosa, la familiarità, costituiranno per lungo tempo la peculiarità del cristianesimo italiano, in controtendenza rispetto alla  fede farisaica dei bizantini, al fanatismo degli spagnoli, al dogmatismo scolastico della Germania e della Francia. Niente di ciò che, ovunque, ha ottenebrato o inceppato le coscienze, né la metafisica sottile, né la teologia raffinata, né le inquietudini della casistica, né l’eccesso di disciplina e di penitenza, né lo scrupolo estremo della devozione, più peserà sugli italiani”.


ANNO DOMINI 1215: FRANCESCO A JESI?

La presenza dei seguaci di Francesco a Jesi risale addirittura alle origini del movimento.

Secondo un’antica tradizione, riferita da Tomaso Baldassini, il Santo d’Assisi passò nella città attorno al 1215, proveniente dall’Abbazia di Chiaravalle.

Fu in quell’occasione che la comunità locale dei Benedettini decise di fargli dono del romitorio dedicato a San Marco.

Per focalizzare, su fonte documentale, la storia del francescanesimo locale , dobbiamo, invece, riferirci alla Cronaca di Salimbene de Adam da Parma il quale fornisce testimonianza diretta di un suo soggiorno a Jesi nel 1239  presso un romitorio di ubicazione non precisata.

La successiva fonte documentale, questa volta dell’anno 1244, è contenuta in una esortazione del Papa Innocenzo IV al Vescovo di Jesi affinché consentisse l’insediamento della comunità francescana a San Marco, “presso le mura della città, a distanza del lancio di una pietra (“apud moenia civitatis ad intervallum unius iactus lapidis”).

Ottenuta l’autorizzazione, i francescani provvidero a costruire una chiesa attigua al convento; sulla fine del XIII secolo, al posto del primitivo edificio di culto, sorse il più importante tempio della Vallesina, la monumentale chiesa di San Marco, affrescata poi dai pittori di Scuola Giottesca Riminese ed ininterrottamente  officiata, sino al XVII secolo, dai frati Conventuali.

Jesi divenne sede di una Custodia francescana comprendente ben dodici insediamenti collocati in una vasta area tra i fiumi Cesano e Musone.

Paolino da Venezia nel suo Provinciale Ordinis Fratrum Minorum li elenca puntigliosamente: Jesi, Fabriano, Sassoferrato, Rocca Contrada (l’odierna Arcevia), Serra de’ Conti, Montenovo (Ostra Vetere), Senigallia, Montalboddo (Ostra), Serra San Quirico, Staffolo, Apiro e Matelica.

Verrebbe da chiedersi, quale sia stato il criterio per la scelta dei luoghi di insediamento: secondo un interessante studio di Luigi Pellegrini,  i francescani furono inevitabilmente spinti verso i centri urbani in quanto “costretti dallo stato di povertà mendicante a dipendere economicamente dagli altri, per la rinuncia a fonti proprie e autonome di sussistenza e di difesa”.

Solo nei centri socialmente più vivaci potevano confluire diverse comunità di religiosi impegnati nell’azione pastorale e nelle più disparate attività sociali; e soltanto i nuclei urbani economicamente più solidi erano in grado di sostenere il peso del mantenimento delle comunità mendicanti che, non avendo rendite proprie, gravavano sulle risorse della cittadinanza. “Esisteva, infatti, un accordo (e non sempre tacito, anzi a volte registrato nero su bianco) tra la comunità mendicante e la comunità civica in base al quale i frati avrebbero attivato la loro presenza nelle varie forme di servizio pastorale, di intervento politico nei momenti di particolare tensione e difficoltà, di consulenza tecnica per la realizzazione delle infrastrutture urbane, di assunzione di incarichi di pubblica fiducia; in cambio  la città garantiva ai frati l’abitazione e le sussistenze”.
La prova dei rapporti tra istituzioni pubbliche e conventi francescani si può evincere dalla curiosa documentazione attestante l’acquisto di tonache con oneri a carico delle autorità comunali; in particolare per Staffolo, Matelica e Apiro sono state rinvenute specifiche quietanze, rilasciate dai frati, nelle quali si dichiara l’introito di sovvenzioni pubbliche da destinare al rinnovo di tonacis et vestiariis.

L’influenza del movimento francescano all’interno della diocesi di Jesi fu immediata e straordinaria: nell’arco di venti anni, tra il 1246 e il 1266, sulla cattedra di S. Settimio si succedettero tre Vescovi, tutti appartenenti all’Ordine: Gualtiero (dal 1246 al 1252), Crescenzio da Jesi (dal 1252 al 1264) e Bonagiunta da Fabriano (dal 1264 al 1266).

Di Gualtiero, sappiamo che venne eletto da Papa Innocenzo IV in contrapposizione ad un certo Hermannus (o Arimannus), nominato dai canonici della Cattedrale.

Per normalizzare la situazione di contrasto, il Pontefice si vide costretto ad incaricare i Vescovi di Arezzo e di Fermo affinché venisse annullata la designazione effettuata dai canonici.

L’episodio è sintomatico di un generalizzato sentimento di ostilità nutrito dal clero secolare nei confronti del nuovo Ordine: non raramente venne vietata ai francescani la possibilità di predicare nelle chiese rette dai canonici.

Crescenzio Grizi, che abbiamo già conosciuto nei ruoli di Provinciale e poi di Generale dell’Ordine, fu eletto Vescovo di Jesi nel 1252 e guidò la diocesi fino al 1264:“Dopo che ebbe governato l’Ordine per qualche tempo con fedeltà e prudenza, frate Crescenzo chiese di essere dimesso dall’Ufficio; in seguito fu nominato Vescovo della sua città natale” (FF 2513).

La funzione episcopale di Crescenzio si svolse in un periodo alquanto tormentato della storia di Jesi.

Dopo la morte di Federico II (1250), la fazione guelfa aveva ripreso il sopravvento su quella ghibellina; il figlio Manfredi, tuttavia, aveva organizzato un piano di riconquista culminato nel 1258 con l’ingresso vittorioso nella Marca di Ancona.

Alla diffida del Papa Alessandro IV affinché la città rimanesse fedele alla Chiesa, gli Jesini non risposero, preferendo subire l’interdetto. La città fu, dunque, privata del Vescovo e Crescenzio ottenne la facoltà di trasferirsi altrove pur mantenendo la dignità episcopale.

Appena quattro anni dopo si registrò un nuovo rovesciamento politico. Manfredi fu sconfitto dalle truppe del nuovo Papa Urbano IV e Jesi tornò guelfa.

Alla morte di Crescenzio, assumeva la guida della diocesi il Vescovo Bonagiunta, della cui azione pastorale sappiamo ben poco.

E’ noto, tuttavia, che Bonagiunta ricevette dal Papa Clemente IV l’ordine di annullare i decreti emanati nelle diocesi di Jesi e Senigallia con cui venivano negati i sacramenti e si proibiva il suono delle campane a coloro che avessero scelto di essere sepolti nelle chiese francescane.

Ulteriore prova dei difficili rapporti tra clero diocesano e frati!

Potremmo dire che risale alla “prima ora” anche la presenza a Jesi del ramo francescano femminile, addirittura in periodo antecedente  la morte della fondatrice Santa Chiara (1253).

In un documento datato 21 aprile 1248, il Papa Innocenzo IV autorizza la comunità delle clarisse di Jesi ad avere in proprietà dei beni.

Sappiamo che il primo insediamento delle monache era situato poco distante dall’abbazia benedettina di Santa Maria del Piano, in un convento attiguo all’antichissima chiesa di San Procolo (X sec), di cui non si ha più traccia.




NEL NOME DI GESU’
La presenza di Giacomo della Marca è attestata a Jesi in momenti diversi, il primo dei quali risalente al 1419, allorquando il noto predicatore fu chiamato ad infervorare i cuori dei fedeli  contro la dilagante corruzione dei costumi.

L’occasione fu propizia per l’istituzione, nella Chiesa di San Floriano, della Confraternita del Buon Gesù, il cui simbolo fu il famoso monogramma (ovveroYh<esu>s , iscritto in un sole con dodici raggi).

La devozione al Santo Nome di Gesù, fondata su radici bibliche e patristiche, fu promossa in tutta Europa dal fondatore dell’Osservanza Bernardino da Siena, il quale peraltro, subì un’iniziale accusa di idolatria; per tale ragione dovette difendersi di fronte al Papa Martino V dagli attacchi degli agostiniani e dei domenicani.

La disputa si risolse con un onorevole “compromesso” consistente nell’apposizione di alcune modeste modifiche al simbolo grafico originario (l’aggiunta della croce e l’intersezione di un trattino verticale nella parte superiore della lettera H).

Il periodo della massima diffusione del culto del Santo Nome corrisponde con una straordinaria proliferazione di miracoli ad opera dei frati dell’Osservanza: a tale proposito Giacomo scriverà un libello intitolato “Miracoli fatti per virtù del sacro nome di Gesù”, nel quale si dà conto di ben 102 eventi soprannaturali.

Il biografo Venanzio da Fabriano, così descrive l’importanza del culto del Santo Nome nella missione di Giacomo della Marca:
“Questi sono alquanti miracoli che Idio mostrò per lo beato Iacobo della Marcha in vita sua. Et luy li scrivea et appropriavali alla virtù e gratia del nome di Yesu. Sicchè quando luy predicava de nomine Yesu et allegava alcuni di questi miracoli dicendo:<questi miracoli li ho visti yo con gly occhi mei de nomine Yesu>.  Et yo frate Venanzo che fui indegnamente suo compagno, so del certo che più di XL anni innanzi che ‘l beato Iacobo morisse, Idio beneditto de continuo, dove el beato Iacomo andava, mostrava molti miracoli per lui et io in più parte li ho veduti et trovati, quali sono innumerabili”.

Troveremo dipinto il monogramma YHS (iniziali maiuscole delle lettere greche iota, eta e sigma)  al vertice della celebre Pala della Deposizione  realizzata  nel 1512 da Lorenzo Lotto proprio su commissione della Confraternita del Buon Gesù.

La realizzazione dell’opera d’arte  è legata ad una curiosa vicenda contrattuale: inizialmente la Confraternità aveva commissionato la Deposizione a Luca Signorelli, pattuendo esplicitamente con il pittore l’obbligo di svolgere il lavoro a Jesi  (ovverosia sotto il diretto controllo dei committenti).

Tale clausola aveva lo scopo di impedire che l’opera venisse realizzata da mano diversa rispetto a quella del maestro designato! 

Il Signorelli, chiamato successivamente in Vaticano per decorare alcune stanze pontificie, preferì rinunciare all’incarico della Confraternità, in quanto evidentemente meno prestigioso.

Quella di Lorenzo Lotto fu, dunque, per la Confraternita, una scelta, per così dire, di “ripiego”, favorita probabilmente da una segnalazione dell’umanista jesino Angelo Colocci, all’epoca Segretario Apostolico presso la Curia Romana ed estimatore delle doti artistiche del pittore veneziano.

La Pala - straordinario capolavoro oggi  esposta nella Pinacoteca Civica di Palazzo Pianetti -  rende chiara testimonianza del grande ruolo acquisito dalla Confraternita di ispirazione francescana, la cui azione si indirizzò anche sul versante dell’assistenza sanitaria fino alla soppressione decretata nel 1781, dopo oltre tre secoli e mezzo di attività.





UN CALICE  AVVELENATO PER FRATE GIACOMO


“Dum enim sanctissimus noster papa Nicolaus V, 1449, de mense novembris, miserat venerabilem patrem fratrem Ioannem de Capistrano et me fratrem Iacobum de Marchia, ordinis minorum, ad reducendum illa castra haeretica Maioreti, Massatii, Podii et Meruli – quae reducta sunt ad gremium fidei et abiurata sunt in manibus nostris…” (Dialogus contra fraticellos, n.111)

Dunque, nel 1449, Jacobus de Marchia, ovvero S. Giacomo della Marca, si trovava a Jesi insieme a Giovanni da Capestrano. Quell’anno segna la vittoria finale sulla setta eretica dei “fraticelli”, diffusa nella Vallesina, con insediamenti particolarmente consistenti a Maiolati, Poggio Cupro, Mergo e Massaccio (l’odierna Cupramontana).

L’opera di “normalizzazione” – culminata con la condanna al rogo di circa una decina di fraticelli – era iniziata 25 anni prima. Per combattere la setta, Giacomo aveva incardinato un gruppo di francescani nel monastero camaldolese della Romita, con lo scopo di presidiare la zona.

Ma chi erano e cosa volevano i tanto temuti fraticelli?

Chiamati anche Michelisti (dal nome di Michele da Cesena che abbiamo già conosciuto come superiore generale dell’Ordine, poi scomunicato e proscritto) in nome della Povertà, avevano assunto atteggiamenti di aperta ribellione contro la Chiesa, ormai considerata retta da Papi illegittimi, a partire da Giovanni XXII (morto nel 1334) accusato di simonia.

E’ lo stesso Giacomo della Marca che nel celebre “Dialogo contro i fraticelli”, immaginando uno scontro dialettico tra un cattolico e un fraticello, fa dire a quest’ultimo: “Noi vedemo che li primi fundatori de la fede cristiana fondarno la sancta chiesa in omne sanctita insegnando et ammaestrando cum parole et cum facti, como se devesse desiderare et abracciare le cose celestiale et rinunciare et desprecare le cose terrene. Et non adunando et multiplicaro tanti campi, tante possessione et ricchece, ne le quale et per le quale la mente humana se suffoca et perisce, si como fanno oggedi li prelati ecclesiastici. Noi honoramo Cristo et li suoi apostoli dicendo et tenendo che loro non havero alcuna cosa, ma como homini celestiali cercavano solo le cose celestiale et non le cose terrene como homini terreni” (nn. 64 e 82).

Tali posizioni di radicale fedeltà al Vangelo, secondo la storiografia di tendenza ecclesiastica non vennero suffragate da comportamenti coerenti.

A Cupramontana, in via Bovio, sono tuttora riconoscibili i resti di un antichissimo edificio (probabilmente un serbatoio dell’acquedotto di epoca romana) tradizionalmente chiamato “barlozzo”; secondo la leggenda tale edificio era luogo di notturno convito dei fraticelli per celebrare cerimonie orgiastiche.
Giacomo accredita, in capo agli eretici, la nomea di empietà: “Io frate Giacomo, dell’Ordine dei Frati Minori, grido a tutto il mondo e testifico di fronte a Dio che tutti questi fraticelli contro i quali io e frate Giovanni da Capestrano fummo inquisitori, li abbiamo riscontrati che sono scellerati, fornicatori, sodomiti e abili ingannatori di donne, sebbene alla faccia delle persone appariscano uomini santi e celestiali”.

Proprio a Cupramontana, i fraticelli tentarono di assassinare S. Giacomo propinandogli del vino avvelenato durante la Messa: al momento della Consacrazione, tuttavia, la testa di un serpente si disegnò sul fondo del calice.

Il francescano provvidenzialmente si avvide del pericolo ed ebbe salva la vita.

Uguale sorte non era toccata, venti anni prima, ad Angelo da Massaccio, altro implacabile difensore dell’ortodossia, il quale morì martire per mano dei fraticelli l’8 maggio del 1429.

Di rilevante interesse è lo stralcio di un verbale relativo ad un processo tenutosi a Roma nel 1466 contro alcuni eretici (fonte: codice vaticano latino 4012): tra i fraticelli sottoposti ad inquisizione all’interno di Castel S. Angelo (per lo più mediante utilizzazione di sistemi di tortura) spicca la figura di Niccolò da Massaccio, assurto ai vertici della gerarchia della setta con il titolo di Vescovo.

Sono ben 17 i capi di imputazione che i Commissari dell’Inquisizione (Stefano, Arcivescovo di Milano, Roderigo, Vescovo di Zamora, Niccolò, Vescovo di Lesina e frate Giacomo di Egidio, maestro di Sacro Palazzo) contestano al Vescovo dei fraticelli.

In particolare, vengono chieste spiegazioni in merito all’empio rito del “barilotto” ed alla cerimonia cosiddetta delle “polveri”.

Niccolò da Massaccio conferma il carattere orgiastico della pratica del barilotto: dopo la celebrazione della Messa eretica, spente le luci e pronunciate le parole “Alleluia, alleluia”, ogni fraticello si congiungeva carnalmente con una donna, ritenendo di compiere atto supremo di carità.
Quanto alle “polveri”, pare che tale rito assumesse i connotati dell’infanticidio: “I fraticelli, riuniti in una chiesa, sinagoga o luogo, talvolta accendevano un grande fuoco, ponendosi intorno a circolo, e prendevano un bambino nato tra loro e concepito nei detti adulteri; intorno a quel fuoco si passavano il bambino di mano in mano l’un l’altro fino a che questo rimaneva morto ed essiccato, e quindi ne facevano polvere, la ponevano in un recipiente da vino e al termine della loro perversa messa ne davano da bere ai presenti”.

E’ da rilevare, peraltro, che tali agghiaccianti descrizioni, estorte mediante metodi coercitivi, sono accolte con riserva dagli storici. Purtroppo il panorama delle fonti è pressoché unilaterale e risulta alquanto problematica una ricostruzione obbiettiva dei fatti.

Resta il fatto che il repertorio delle accuse rivolte ai fraticelli (antropofagia, licenze sessuali e omicidi rituali) costituisce uno stereotipo utilizzato in sede inquisitoria anche contro altre esperienze ereticali.

In epoca recente, lo scrittore cattolico inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) ha espresso un giudizio durissimo in merito all’esperienza dei fraticelli:

“I Fraticelli si dichiararono i veri figli di San Francesco e si sottrassero alle condizioni imposte da Roma, in omaggio a quello che chiamavano << il programma completo di Assisi>>. In pochissimo tempo, questi bislacchi francescani apparvero feroci come i Flagellanti. Lanciavano violenti anatemi, denunciavano le unioni matrimoniali, minacciavano l’umanità. In nome del più umano fra i santi, dichiaravano guerra al genere umano.
Non fu la persecuzione ad annientarli: alcuni, alla fine, si convertirono e gli altri non realizzarono niente che avrebbe potuto, seppure lontanamente, ricordare il vero San Francesco. Quella gente era formata da mistici, che non erano null’altro che mistici; mistici ma non cattolici, mistici ma non cristiani, mistici ma non uomini.
E deviarono dalla giusta via, perché non vollero ascoltar ragione, nel vero senso della parola”.





UNO STATUTO DI IMPRONTA FRANCESCANA

Dopo la morte di Federico II (1250), si acuiscono le tensioni tra l’Impero e i Comuni e diviene  pressante la necessità di regolamentare la vita pubblica ed i rapporti civici attraverso una legislazione codificata.

Jesi, come altre città della Marca, agli albori dell’età comunale si dota di propri Statuti che costituiscono lo strumento concreto della potestà legislativa e rappresentano il baluardo dell’autonomia .

Alla metà del ‘300 si rende necessaria una prima revisione delle norme statutarie, al fine di conformarsi al dettato vincolante delle “Constitutiones Albornotianae” (1357), opera del cardinale e condottiero Egidio Albornoz che aveva ricevuto l’incarico di restaurare l'autorità papale negli antichi territori della Chiesa.

Ulteriori modifiche ed “additiones” statutarie interverranno nei decenni successivi, quale conseguenza della mutevole sorte del potere comunale, in base all’alternarsi delle fazioni al comando.
Dopo gli sconvolgimenti che avevano caratterizzato la Signoria dei Simonetti e di Braccio da Montone, il Consiglio Generale della Città, il 5 maggio 1426, stabilisce una nuova revisione degli Statuti e chiama in aiuto l'autorevole giurista ed insigne esponente dell’Osservanza, Frate Giacomo della Marca: “quid placet ordinari et reformari super novis statutis fiendis secundum quod voluit frater Jacobus de Monte Brandono qui fuit in hac civitate ad predicandum”.

La traccia per la revisione normativa sarà costituita dagli Statuti di Recanati, alla cui stesura aveva partecipato il francescano di Monteprandone.

Tuttavia  nuovi  sconvolgimenti politici legati all’avvento della signoria di Francesco Sforza bloccheranno il tentativo di riforma per oltre 20 anni, sino a quando, nel 1448, verranno finalmente designati quattro Statutari che porteranno a compimento il lavoro di revisione  nel 1450.

Gli Statuti, ispirati ad una visione religiosa tipica della società sacrale del XV secolo, si aprono con un Proemio contenente una solenne invocazione:

Nel nome di Gesù (i quattro Statutari) fecero, stabilirono, ordinarono e decretarono gli Statuti a lode gloria e riverenza dell’ineffabile Trinità, dell’altissimo Gesù e della sua alma e beatissima Madre, gloriosissima Vergine Maria, e dei beati Apostoli Pietro e Paolo, e dei beatissimi confessori gloriosissimi San Settimio e San Floriano sotto la cui felice tutela questa Città, ha meritato di proclamarli protettori, governatori, intercessori e difensori del Comune e del popolo della Città di Jesi, del suo Contado e Distretto, e di tutti i Santi e Sante di Dio e di tutta la Curia celeste trionfante. E ad onore, felice stato e riverenza della Sacrosanta Romana Chiesa, a esaltazione e trionfo del Santissimo Padre in Cristo Nicolò V, per volere della divina Provvidenza degnissimo Papa, che ha liberato la nostra città dalle mani dei tiranni”.

Ai fini della comprensione delle caratteristiche della società del tempo è di grande interesse lo studio dell’assetto normativo concernente la difesa della religione e della moralità pubblica.

Pesanti sanzioni pecuniarie furono previste contro i bestemmiatori e gli autori di delitti perpetrati all’interno di edifici di culto o durante le festività.

La violenza perpetrata contro una donna sposata di buona condizione era punita con l’ammenda di 300 libbre. Colui che ha commesso violenza contro “una monaca a Dio consacrata, o un’altra donna vergine o no, a Dio dedicata, se l’ha conosciuta carnalmente, o l’ha portata via dal monastero, sia punito con l’estrema pena capitale”.

L’incontro carnale con un consanguineo o affine, consumato da persona di età superiore a 18 anni era punito con la pena capitale; analogamente chi si fosse reso colpevole di sodomia doveva essere “bruciato con il fuoco”.

Nonostante l’esplicita impostazione religiosa degli Statuti, ad alcuni Jesini, sembrarono non pienamente recepiti i principi di moralità promossi dai francescani dell’Osservanza.

Fu per questo motivo che, secondo il racconto di Giovanni Annibaldi senior, Frate Giovanni da Capestrano fu invitato più volte a Jesi per “tuonare dal pergamo” affinché venissero introdotte negli Statuti norme ancora più severe a salvaguardia della morale, come, ad esempio, quelle riguardanti l’abbigliamento femminile:

“Le donne non portassero vesti con divise, né frappe o fronsoli e che di esse vesti non si trascinasse oltre un terzo di braccio, pena dieci ducati, tanto per le donne quanto per i sartori”.

Le frequenti richieste di intervento per la soluzione dei problemi più disparati, rappresentano la più evidente testimonianza dell'autorevolezza degli esponenti dell'Osservanza. Nonostante l'età avanzatissima, nel 1471 il Consiglio decise di inviare un ambasciatore a Fermo per contattare Giacomo affinchè tentasse di comporre la secolare discordia tra Jesi e Ancona (...et quod mictatur unus orator Firmum ad fratrem Jacobum de Marchia eum rogando quod dignetur huc venire et Anconam ad procurandum et ordinandum pro pace et concordia inter Anconitanos et Exinos).

Non conosciamo l'esito di quell'appello. A giudicare dalla qualità dei rapporti tra Jesini e Anconetani nel corso dei secoli successivi e sino ai nostri giorni, saremmo propensi a credere che, almeno quella volta,  il quasi ottantenne Giacomo non sia intervenuto!




CONTRO LA PIAGA DELL’USURA:
 UN BEATO AL CONSIGLIO DI CREDENZA



La condanna dell’usura ha una derivazione biblica, ma anche filosofica.

Nell’Antico Testamento sono numerosi i passi in materia:
 “Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia, parla lealmente e presta denaro senza fare usura” (Sal 14).

“Se tu presti denaro all’indigente che è presso di te, non ti comporterai con lui da usuraio, non gli imporrai alcun interesse” (Es 22, 24).

“Se tuo fratello cade in miseria e manca nei suoi rapporti con te, lo aiuterai come un forestiero o un ospite, ed egli vivrà presso di te. Non presterai  il denaro per trarne un profitto, né gli darai il vitto per ricavarne interessi” (Lv 25, 35-37).

Anche numerosi filosofi, da Aristotele a Catone, condanneranno l’usura in base alla considerazione che il denaro, per sua natura, è sterile e non produce frutti; pertanto la richiesta di interessi è da considerarsi un comportamento contro natura.

Anche i Padri della Chiesa, da Ambrogio ad Agostino, confermeranno e rafforzeranno il tradizionale orientamento.
Gli Ebrei, sommamente devoti agli insegnamenti dell’Antico Testamento, giustificavano la loro attività usuraria sulla base di una particolare interpretazione di un passo del Deuteronomio: “Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma presterai senza interesse al tuo fratello” (Dt 23,20). Nella concezione ebraica i cristiani venivano equiparati agli stranieri.

Nel suo libro intitolato “Tabula della salute” (1494), Marco da Montegallo, il primo apostolo dei Monti di Pietà, escogitò un originale espediente retorico per colpire la fantasia del popolo sull’abnormità del prestito ad usura, all’epoca praticato da banchieri senza scrupoli.

L’usuraio che accumula il denaro impedendone il reinvestimento produttivo costituisce una grave minaccia per la vita sociale e per l’economia cittadina.

Marco calcolava, in linea teorica, il valore monetario conseguibile prestando 100 ducati al tasso del 30 % annuo per un periodo di 50 anni, corrispondente alla sbalorditiva cifra di 49.792.556 ducati: ovvero 100 di capitale iniziale ed il resto derivante dal sangue dei poveri.

L’usuraio accumula su di sé una colpa colossale pari al suo strabiliante guadagno: altrettanto incalcolabili saranno i meriti di chi offrirà denaro per la costituzione del Monte di Pietà.

In altri termini, il Monte viene considerato come un efficace strumento di carità cristiana, simbolo delle opere di misericordia corporale, indispensabili al fedele per conseguire la vita eterna.

Nell’arco di meno di 50 anni, per impulso di Marco da Montegallo e dei suoi confratelli (tra i quali Gabriele da Jesi), furono istituiti nelle Marche ben 28 Monti di Pietà.

A Jesi, nella prima metà del ‘400, la licenza per l’esercizio del prestito è monopolizzata da un banchiere ebreo chiamato Benedetto. Lo stesso Comune, in una fase di forti difficoltà economiche, si vede costretto a rivolgersi a Benedetto per ben tre volte nell’arco di un quinquennio (1431, 1434 e 1435).

Le condizioni vessatorie praticate dal Banco (il tasso di interesse risultava pari al 30%) suscitano la dura reazione del Vescovo Eugenio: Benedetto viene diffidato a ridurre il tasso al 12% per i prestiti in corso e al 15% per i futuri. Allo scadere delle licenza il banchiere dovette, presumibilmente, lasciare la città, ma l’attività di prestito continuò per oltre un secolo attraverso la famiglia ebrea dei Vivanti, riconosciuta tra le più ricche della Provincia della Marca (“de primaribus reperitur inter hebreos provinciae  Marchiae”).

Al fine di combattere la tremenda piaga dell’usura, nel maggio 1470 il Consiglio di Credenza fu chiamato a decidere la proposta di espulsione degli Ebrei da Jesi e la contestuale istituzione di un Monte di Pietà.

L’iniziativa, sebbene autorevolmente sostenuta dal Consigliere Fiorano Santoni (“vir facundissimus et eloquens”) fu respinta di misura con 49 voti contro 43; l’esito del voto dimostra come, nonostante la reazione ostile contro l’usura, il Comune considerasse ormai indispensabile ed insostituibile, per la vita economica, l’attività di credito svolta dalla comunità ebraica.

Due anni dopo, il 15 marzo 1472,  la proposta di istituzione del Monte fu nuovamente presentata in Consiglio, questa volta, tuttavia, senza prevedere l’espulsione degli Ebrei.

Dall’analisi delle fonti, sembra verosimile che la  proposta venisse illustrata dal Beato Marco da Montegallo, il quale riuscì a convincere il Consiglio ottenendo un’approvazione con 132 voti contro 22 .

Le modalità organizzative del Monte di Pietà rivestono indubbio interesse storico: innanzitutto, la gestione faceva capo ad un Officiale ( di età non inferiore a 35 anni) che, per ragioni di imparzialità, doveva essere forestiero e non aver mai risieduto in città (per la cronaca, il primo Officiale di cui si ha notizia fu Ser Antonio Roberti da Fabriano, eletto nel 1474).

La nomina – di durata annuale, salvo proroga – veniva effettuata tramite un curioso meccanismo elettivo di doppio livello: in via preliminare doveva essere estratta a sorte una città marchigiana, scelta tra 8 precedentemente imbussolate. A quel punto, la città designata provvedeva a comunicare il nominativo del candidato alla carica di Officiale, sul quale, tuttavia, il Comune richiedente si riservava di esprimere il benestare.

Prima di essere assunto in ruolo, l’Officiale era tenuto a prestare giuramento davanti al Gonfaloniere ed ai Priori, con una cerimonia che aveva luogo nella Chiesa di S. Maria della Misericordia (poi denominata delle Grazie) davanti all’altare della Madonna.

In base alle scarse informazioni a disposizione, sembra che il funzionamento del Monte fosse  inizialmente alquanto precario, principalmente per l’inadeguatezza dei fondi di dotazione, aggravata anche dalle ripetute richieste di finanziamento avanzate proprio dal Comune.

Lo stesso Comune, peraltro, si vide costretto a lanciare periodiche sottoscrizioni pubbliche per incrementare la dotazione. A tali risorse si aggiungevano fortunatamente i proventi dei lasciti dei privati.

E’ evidente che, durante la fase non breve di difficoltà gestionale ed organizzativa, il Banco dei Vivanti continuasse ad operare, fino a quando non fu emanata, nel 1542, la Bolla del Cardinale Ascanio Sforza con la quale venivano imposte pesanti restrizioni all’attività degli ebrei (tra le quali il contingentamento dei Banchi e l’obbligo odioso di esposizione di un segno di riconoscimento).

Il clima montante di ostilità antiebraica indusse i Vivanti ad abbandonare la città.

Pur con un assetto organizzativo più volte riformato e nonostante periodiche crisi di liquidità, il Monte – concretizzazione di un’idea sociale tipicamente francescana – continuò la sua attività attraverso cinque secoli fino al 1941, anno di definitiva chiusura.

Secondo gli storici, è legittimo affermare che i Monti di Pietà rappresentano esperienze antesignane del moderno microcredito, in quanto informati a quel principio di “sussidiarietà orizzontale” che proprio in questi ultimi tempi è oggetto di  riflessione da parte degli economisti.





TENSIONI TRA CONVENTUALI E OSSERVANTI


   

I proficui rapporti intercorsi con Giacomo della Marca e Marco da Montegallo, indussero il Comune a formalizzare un invito ufficiale ai Minori dell’Osservanza, affinché potesse essere costituito un convento a Jesi .

Con una prima proposta, risalente al 1450, il Comune offriva all’Osservanza la disponibilità della Chiesa di San Marco. Tale soluzione, tuttavia, si rivelò non percorribile a causa della ferma opposizione dei Conventuali.

Ulteriori difficoltà emersero nel 1469 e nel 1471, a fronte di altri inviti.
Finalmente, nel 1486, gli Osservanti accettarono di realizzare un insediamento a Jesi, ma solo dopo ulteriori cinque anni di trattative, nel 1491, iniziarono i lavori di costruzione di un nuovo convento con annessa chiesa intitolata a S. Francesco al Monte, nella zona nord della città.

L’edificio di culto - oggi non più esistente per le sciagurate motivazioni che avremo modo di approfondire in seguito -  sarà destinato ad ospitare opere di straordinario rilievo artistico tra le quali la celebre Madonna delle Rose (1526-27 c.) di Lorenzo Lotto e diversi capolavori di impronta francescana opera di Pietro Paolo Agabiti (San Francesco, tra S. Antonio e S. Bernardino, un Presepe in terracotta policroma invetriata).

Nell’altare maggiore della chiesa era allocato un altro dipinto di Agabiti (Madonna in trono con il bambino, San Giovanni Battista e S. Antonio da Padova, 1540 c.) di enorme interesse anche per il fatto di contenere l’illustrazione del paesaggio jesino dell’epoca: sulla destra sono, infatti, disegnate San Marco - chiesa madre dei francescani della Vallesina - con a fianco un campanile (oggi assente) e, probabilmente, la stessa S. Francesco al Monte.

La nobile famiglia jesina dei Colocci fu particolarmente legata alla chiesa, tanto da patrocinarvi una Cappella gentilizia dedicata al SS. Crocifisso, nel cui interno fu eretto un monumento funebre in memoria del consanguineo Giovanni Benedetto, religioso di straordinaria cultura morto d’asma a Roma nel 1695.

Diversi furono i membri della casata che vestirono il saio francescano: nel 1830 sarà Annibale Colocci a rinunciare ai diritti di primogenitura per entrare nel convento jesino dell’Osservanza con il nome di Padre Giuseppe.

Risale proprio all’800 un acquerello del Marchese Adriano Colocci raffigurante la Chiesa di S. Francesco al Monte, rappresentata in una conformazione architettonica non dissimile rispetto ad un rarissimo reperto fotografico di scarsa nitidezza, comunque di poco antecedente la  demolizione.



 NELLA SELVA DELLA STERPARA

All’indomani del Capitolo dell’Acquarella (1529) la diffusione del movimento cappuccino fu imponente, in particolar modo nel territorio marchigiano.

Nel rispetto delle Costituzioni i conventi dovevano sorgere fuori dell’abitato in luoghi solitari, non troppo lontani dalla città perché l’eccessiva distanza avrebbe reso difficile l’accesso dei fedeli, ma neppure troppo vicini per preservare il clima di raccoglimento dei frati:

“Che li luochi tutti siano presi fuori delle città distanti per un miglio, o poco manco; et che detti luochi che s’hanno a pigliare, et fabbricare, sino sempre sotto il dominio delli padroni, ovvero delle città, et siano sempre presi con questa conditione, che ogni volta, che li trovasse impedimento alla vita nostra, li frati liberamente si possino partire, et quando alli padroni no’ piacesse che frati abitassero in detto luoco, senza alcuna conditione s’habbiano a partirsi et andare in altro luoco".

Nel 1541 il Comune di Jesi assegnò all’ultima nata tra le famiglie francescane, un terreno nei pressi della Selva della Sterpara in località Castellare (l’attuale Tabano). Ancora oggi, tra i  contadini della zona,  è tramandata la memoria di una via denominata “Cappuccini vecchi”, a ricordo del primo insediamento inaugurato il 5 ottobre 1544.

Il convento fu sede del noviziato ed ospitò, nel 1557, Serafino da Montegranaro, destinato a salire agli onori degli altari nel 1767.

L’eccessiva distanza dal centro urbano  e la scarsità d’acqua in loco, indusse i Cappuccini, dopo appena 50 anni, a vendere l’edificio e a costruire, con il ricavato, un nuovo convento in un’area messa a disposizione dalla Famiglia Nobili nella zona dell’Isolato Carducci, a 46 passi dalla città.

La nuova struttura, cui era annessa la Chiesa di San Michele, disponeva di ben 34 celle e fu inaugurata nel 1592.

La grande stima acquistata in pochi anni dai Cappuccini, fece sì che il Comune decidesse di aprire, nel 1605, un varco sulle Mura Occidentali, con lo scopo di agevolare l’accesso in città dei frati, anche in caso di attacchi al convento da parte di malfattori: il passaggio, situato in corrispondenza dell’attuale via Pietro Grizio, prese il nome, ancora oggi in uso, di “sporticello”.

Grazie alla preziosa collaborazione dell’amico Aldo Massaccio - ottimo conoscitore della zona di Montecappone e Tabano - è stato possibile individuare  ciò che resta dell’antico convento della Selva della Sterpara, purtroppo oggetto, nel corso di quasi cinquecento anni,  di profonde trasformazioni e radicali rimaneggiamenti architettonici.

La struttura, oggi in piena decadenza e inaccessibile per ragioni di sicurezza, ha avuto, negli ultimi secoli, una destinazione a fini abitativi, perdendo definitivamente la tradizionale conformazione di un convento francescano.

Tuttavia rimangono ancora visibili alcune testimonianze dell’originario edificio, quali la porta d’accesso situata al piano terra, di ragguardevole interesse.

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