lunedì 21 febbraio 2011

Vincenzo Gioberti: apostolo del neoguelfismo

Tra i personaggi del Risorgimento italiano la figura dell’abate Vincenzo Gioberti godette di alterne fortune. Filosofo, politico, e scrittore di successo, fu prima di tutto un sostenitore della causa nazionale. Un profeta del riscatto degli italiani per Giovanni Spadolini, il campione dei moderati per Indro Montanelli. Per milioni di studenti Gioberti è ricordato invece come il principale esponente del movimento neoguelfo. Per gli storici un protagonista delle vicende italiane di metà Ottocento.
Eppure, alla sua scomparsa, avvenuta a Parigi, il 26 ottobre 1852, all’età di cinquantuno anni, egli era solo, fatta eccezione per i libri e i giornali di cui si era voluto circondare. Aveva rinunciato a tutto, ma non al piacere della lettura.
Nato a Torino il 5 aprile 1801 da Giuseppe, impiegato, e da Marianna Capra, trascorse un’infanzia travagliata a causa delle precarie condizioni economiche della famiglia e della prematura morte del padre. Educato nelle scuole dei padri oratoriani, il giovane Vincenzo manifestò spiccati interessi nei confronti della filosofia e della teologia. Allievo di padre G.G. Sineo, fu in realtà un autodidatta, rivelandosi alla lunga un’intellettuale eclettico, in grado di occuparsi di storia, politica, letteratura, filosofia e religione. Tra gli autori studiati predilesse Platone, sant'Agostino, Bacone, Vico, Leibniz, Rousseau e Kant.
Intrapresi gli studi presso l’accademia ecclesiastica di Torino, si addottorò in teologia nel gennaio del 1823. Due anni dopo, nel marzo del 1825, fu ordinato sacerdote e divenne successivamente cappellano di corte con un stipendio annuo di 480 lire.
Intellettuale apprezzato, fu attivo all’interno di vari circoli filosofici e letterari della capitale sabauda, evidenziando una certa insofferenza nei confronti dell’attività intellettuale svolta in città dai gesuiti. Verso la fine degli anni Venti conobbe Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi; con quest’ultimo ebbe anche uno scambio epistolare.
Amico e lettore di Antonio Rosmini, iniziò ad elaborare a partire dai primi anni Trenta l’idea di un possibile rinnovamento degli studi filosofici che avrebbe voluto collegare al risveglio dell’identità nazionale. Entrò poi in contatto con alcuni ambienti della cospirazione piemontese, manifestando inoltre un certo interesse per i principi del panteismo. Ripreso dai superiori, decise di lasciare la carica di cappellano.
Denunciato per attività antimonarchica, fu arrestato ed incarcerato in attesa del processo. Esiliato dal Regno di Sardegna, raggiunse Parigi, dove soggiornò per oltre un anno. Successivamente si trasferì a Bruxelles dove visse fino al 1845.  
Scrittore prolifico, nella primavera del 1843 diede alle stampe la sua opera più celebre, Del primato morale e civile degli Italiani, la cui prima edizione toccò le 1500 copie. I temi sollevati e le proposte avanzate dall’autore ebbero molto successo. Gioberti auspicava una pacifica rinascita della nazione italiana da realizzare attraverso la costituzione di una federazione degli antichi stati, la cui presidenza sarebbe dovuta spettare al pontefice, a motivo della superiorità etica che gli derivava dal suo magistero. Spiegava l’abate: «L’Italia e la Santa Sede sono certo due cose distinte ed essenzialmente diverse, e farebbe opera assurda, anzi empia e sacrilega, chi insieme le confondesse; tuttavia un connubio di diciotto secoli le ha talmente congiunte ed affratellate, che se altri può esser cattolico senza essere Italiano (e sarebbe troppo ridicolo, anche in grammatica, il metterlo in dubbio) non si può essere perfetto Italiano da ogni parte, senza essere cattolico, né godere meritatamente del primo titolo, senza partecipare allo splendore del secondo».   
Accolto con grandi speranze, il testo contribuì in maniera determinante alla formazione dell’opinione nazionale, sottraendo a Mazzini la guida della causa italiana. L’elezione di Pio IX sembrò confermare la validità della tesi neoguelfa suscitando tra i patrioti entusiasmo e speranze.
Nel 1848 Gioberti rientrò in Piemonte usufruendo di un’amnistia politica. Giunto a Torino con grandi onori, rifiutò il titolo di senatore, preferendo candidarsi come deputato alla Camera, della quale divenne presidente. Alla fine dell’anno fu incaricato di formare un nuovo governo. La sconfitta del Piemonte contro l’Austria e l’abdicazione di Carlo Alberto lo portarono alle dimissioni e di nuovo all’estero.
Abbandonato da tutti, rifiutò la pensione offertagli ed ogni incarico, preferendo dedicarsi allo studio. Nel 1851 scrisse una nuova opera, Del rinnovamento civile d’Italia, nella quale sosteneva l’adozione di un programma liberale e riformatore. Dopo la morte, Gioberti fu soggetto a varie interpretazioni. Secondo Spadolini «chi si limitò a registrare le sue contraddizioni e a dissolvere le sue antinomie trascurò forse un aspetto misterioso e insondabile della sua personalità, quel fondo del filosofo riformatore della società che rinverdiva il sogno pitagorico di Vincenzo Cuoco, del “sacerdote capo della nazione e del popolo”».
 
Lorenzo Carlesso
19-02-2011
(La Bussola Quotidiana)

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