venerdì 22 novembre 2013

La vicenda della Lega democratica

Negli anni Settanta, ogni qual volta tra cattolici democratici si discuteva di abbandonare la Democrazia cristiana, i caveat che spuntavano fuori erano sempre gli stessi. Primo: attenti a non fare la fine del Movimento cristiano dei lavoratori di Livio Labor, fallimentare tentativo post-sessantottino di creare un secondo partito cattolico. Secondo: attenti a non fare la fine degli «indipendenti di sinistra», cattolici eletti nel 1976 nelle liste del Pci a titolo personale ma incapaci di influire sulla linea del partito, e tantomeno di favorirne la modernizzazione. La «diaspora» dei cattolici – si sente ripetere più volte nella Lega democratica – non serve a nessuno: né ai cattolici né ai comunisti. (…)

Quella tra pluralismo e diaspora è una distinzione sottile, non priva di ambiguità. Ai suoi esordi, la Lega democratica aveva sostenuto la tesi che i cattolici dovessero confrontarsi con le sinistre come «componente omogenea» per evitare quello che Antonio Gramsci aveva definito il «suicidio» del movimento cattolico-democratico. (…) Ma qual è il confine tra un insieme di presenze a titolo individuale nei partiti della sinistra e l’esistenza di una «componente omogenea» cattolico-democratica? È un discorso che in questi termini può prestarsi a una lettura correntizia: i cattolici democratici possono entrare a far parte dei partiti della sinistra ma solo come corrente autonoma, magari in lotta per la leadership (o l’egemonia culturale) del partito. La «specificità» dei cristiani in politica, così interpretata, diventa separatezza, segregazione rispetto al mondo. Invece di un partito cattolico, una corrente cattolica.

E non è in questa direzione che punta la vicenda della Lega democratica. Non ci si può relazionare col mondo come una «cittadella assediata», scrive Paolo Giuntella. Bisogna puntare piuttosto ad essere «sale della terra»: anche se minoritari, i cattolici democratici possono rendere «fertile» il terreno che li circonda. Tradotto in termini politici è un discorso che conduce lontano dal partito cattolico, o dai partiti cattolici al plurale, ma anche da qualsiasi ipotesi correntizia. (…)

La prospettiva della Lega non è mai quella del Partito d’Azione, uno schieramento di intellettuali che parla solo alle élite. L’azione politica dei cattolici democratici può esplicarsi solo nel contesto di una grande forza «popolare». Ma un partito popolare non può limitarsi a «rappresentare l’esistente»: se così fosse, un partito del genere sarebbe condannato all’immobilismo. (…) Nel mondo degli anni Ottanta la Lega guarda con paura a una politica che banalizza i problemi, che si adegua ai tempi della televisione, che sempre più si limita ad assecondare tutte le pulsioni che provengono dalla società, senza filtro. Non iniziativa politica, ma populismo. Di certo, tra i contributi della presenza cattolico-democratica al nuovo centrosinistra, si può annoverare un fermo «no al populismo». La questione del consenso elettorale però rimane sostanzialmente inevasa. (…)

Il tema della specificità dei cattolici nei partiti di sinistra si fa più spinoso quando si entra nel campo dei famosi (o famigerati) «principî non negoziabili». Per i cattolici della Lega la realizzazione di una società pienamente cristiana è un compito che sfugge alle possibilità umane. La secolarizzazione ha reso questo dato particolarmente evidente: vista in questa luce anche la secolarizzazione ha un valore positivo, di liberazione del cristiano dalla pretesa di costruire nel presente un feticcio della Città di Dio. Le due Città sono e rimangono distinte. (…)

Non è una scelta di disimpegno, ma l’impegno politico non sfocia nella crociata. È chiaro però che questa indicazione non dice nulla sulle scelte partitiche concrete dei cattolici democratici. Dopo l’Assemblea nazionale della Dc del 1981, l’Assemblea degli esterni, gran parte della Lega democratica decide di allontanarsi dai partiti, guardando solo alla società civile. È una decisione che per certi aspetti può ricordare la situazione che si è ripresentata alle elezioni politiche del febbraio 2013, in cui alcuni cattolici – insoddisfatti dell’attuale offerta partitica – hanno proposto di «saltare un giro», di lasciar perdere gli schieramenti esistenti in attesa magari di una nuova aggregazione di cattolici in politica.

Ma è proprio qui la differenza sostanziale tra la proposta politica cattolico-democratica e le ipotesi di nuovi partiti cattolici che affollano questi scampoli di Seconda Repubblica. Sia che si scelga la militanza in un partito, sia che si preferisca agire nella società civile, resta fermo il rifiuto del partito confessionale, che porta con sé l’inevitabile tentazione di schierare la Chiesa da una parte o dall’altra dello scacchiere politico. Per la Chiesa – scrive Pietro Scoppola – «un annuncio di salvezza è altra cosa da una opinabile scelta di schieramenti». Se i cattolici scelgono lo scontro col mondo, il rischio maggiore che corrono non è la sconfitta, ma perdere di vista proprio l’«annuncio della salvezza», cioè il cuore stesso della loro fede.

fonte: Europa, Lorenzo Biondi 20 novembre 2013

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