lunedì 17 luglio 2023

Don Abbondio: il vero protagonista

Manzoni ebbe una straordinaria importanza nella formazione di scrittore di Sciascia. Tra le sue prime letture Sciascia ha sempre ricordato I Promessi Sposi e la Storia della colonna infame: Manzoni, insieme agli illuministi francesi, rappresentò, per quel precoce e avidissimo lettore, la ragione e un modo di ragionare da opporre all’irrazionale pirandellismo in natura che aveva scoperto nella sua vita di ogni giorno. Tra gli scrittori più amati, lo scrittore milanese occupa un posto di primissimo piano, e Sciascia non mancò di dichiararlo: «Se mi si chiedesse a quale corrente di scrittori appartengo, e dovessi limitarmi a un solo nome, farei senza dubbio quello di Manzoni».

L’interesse critico di Sciascia per l’opera manzoniana ha dovuto misurarsi con il diffuso disamore, l’insofferenza quasi, che spesso si accompagna all’autore dei Promessi sposi, e per colpa soprattutto della scuola italiana, che ha imposto la lettura del romanzo agli studenti con interpretazioni stereotipate e fuorvianti. Sciascia ebbe la fortuna di leggerlo, come egli stesso confessa, prima che glielo facessero leggere a scuola, avendo così modo di apprezzarne l’autentico valore. I suoi saggi su Manzoni sono talvolta coincisi con iniziative editoriali che miravano a una più avvertita divulgazione dell’opera manzoniana, e in cui il suo contributo doveva risultare fondamentale.


La raccolta di saggi intitolata Cruciverba accoglie i due scritti più importanti tra quelli che Sciascia ha dedicato a Manzoni: «Goethe e Manzoni» e «Storia della colonna infame».


Nel primo saggio Sciascia prende spunto da alcune annotazioni dei Colloqui con Goethe di Eckermann, e precisamente da quelle in cui il grande autore tedesco parla dei Promessi sposi, di cui leggeva l’edizione del 1827, riassumendone l’eccellenza in quattro punti: la storia; la religione cattolica; le lotte rivoluzionarie; l’amore e la conoscenza dei luoghi. Per Sciascia, questi quattro pregi del romanzo sono suscettibili di aprire, ciascuno, un discorso, e ne trova conferma in Pirandello, che questo passo dei Colloqui trascrisse, traducendolo, in un suo taccuino di appunti, ma senza nessuna indicazione, con la conseguenza che la critica l’ha ritenuto un giudizio di Pirandello su Manzoni. Sul primo dei quattro pregi, Goethe, terminata la lettura del romanzo, doveva ricredersi; ma questo discorso ne apre un altro, e il più importante per Sciascia, sulla Storia della colonna infame, che si preferisce affrontare più avanti, prima occorre far cenno alla lettura di Sciascia del romanzo manzoniano.


Tra le considerazioni di Goethe sui Promessi sposi, Sciascia ne trova una che vale a chiarirgli il valore del romanzo e insieme il valore della scrittura, intesa con felicità, come felicità, anche nell’angoscia. La felicità della scrittura, come altrove si è detto la felicità della letteratura, trattando della sua idea di letteratura come forma del dilettantismo, del dilettarsi. Nella scrittura manzoniana Sciascia ha riconosciuto l’espressione più alta della scrittura come forma della felicità, della felicità della scrittura, proponendo così un Manzoni certamente originale, da contrapporre alla fama corrente di scrittore noioso: «C’è poi, straordinario, l’accostamento di due parole, di due stati d’animo; l’angoscia, la felicità. Ci sono tante definizioni del classico, di quel che è classico, di quel che è un classico (e di solito in contrapposizione a barocco o romantico), ma qui, sulle pagine del Manzoni, mi pare che Goethe adombri la più giusta: classico è la capacità di rappresentare tutto, anche l’angoscia, soprattutto l’angoscia, “con mirabile felicità”. La felicità dello scrivere, la felicità della scrittura, la felicità della “dicitura”: per quanto greve, angosciante, affannosa sia la realtà che vi si rappresenta. I promessi sposi è un libro angoscioso e, in un certo senso, disperato; ma è anche un libro felice».


C’è un episodio della vita di Manzoni che Sciascia apprese da una vecchia antologia scolastica e che egli assume ad esemplificazione di uno dei punti in cui Goethe sintetizza l’eccellenza del romanzo, quello delle «lotte rivoluzionarie»: in quell’occasione l’autore dei Promessi Sposi diede prova di grande coraggio e insieme di suprema discrezione. Quell’episodio diviene per Sciascia «una specie di chiave di lettura dell’opera, ponendosi come spiegazione del rapporto tra il personaggio protagonista del romanzo e il suo autore»: un caso evidente di quell’interesse che sempre Sciascia ripone nella biografia di un autore per meglio comprenderne l’opera.


Prima che a scuola gli venisse indicato il protagonista del libro nella Provvidenza, Sciascia aveva già maturato la convinzione che il vero protagonista del romanzo fosse don Abbondio, e non ci fu commentatore o professore che riuscisse a fargli cambiare idea. Ad un certo punto, anzi, doveva scoprire un libro che quella convinzione avrebbe confermato e motivato: Il sistema di don Abbondio di Angelandrea Zottoli, poco o punto presente nelle scuole italiane. L’originale interpretazione del romanzo manzoniano viene illustrata da Sciascia muovendo proprio dal saggio di Zottoli: «“Figura circospetta e meditativa”, dice Zottoli, che si mostra appena Adelchi cade e che da Adelchi apprende che “una feroce forza il mondo possiede” e che “loco a gentile, ad innocente opra non v’è: non resta che far torto o patirlo”. Ma questa visione della vita, questo pessimismo, è per don Abbondio un riparo e un alibi: don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettualmente vince, è colui per il quale veramente il “lieto fine” del romanzo è un “lieto fine”. Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato, ma scelto e perseguito da una posizione di forza, da una posizione di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro. L’uomo del Guicciardini, l’uomo del “particulare” contro cui tuonò il De Sanctis, perviene con don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi, in funzione della sua apoteosi, che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano…».


Nella conclusione del saggio l’argomentazione di Sciascia si fa stringente: «Anni addietro Cesare Angelini, dopo più di mezzo secolo di amorosa, attenta e sottile lettura dell’opera manzoniana, fu come folgorato da una domanda: perché se ne vanno? perché Renzo e Lucia, ormai che tutto si è risolto felicemente per loro, ormai che nel castello di don Rodrigo c’è un buon signore e nulla più hanno da temere, lasciano il paese che tanto amano? Non seppe trovare risposta. E pure la risposta è semplice: se ne vanno perché hanno già pagato abbastanza, in sofferenza, in paura, a don Abbondio e al suo sistema; a don Abbondio che sta lì, nelle ultime pagine del romanzo, vivo, vegeto, su tutto e tutti vittorioso e trionfante: su Renzo e Lucia, su Perpetua e i suoi pareri, su don Rodrigo, sul cardinale arcivescovo. Il suo sistema è uscito dalla vicenda collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo. Ne saggiamo la resistenza anche noi, oggi: a tre secoli e mezzo dagli anni in cui il romanzo si svolge, a un secolo e mezzo dagli anni in cui Alessandro Manzoni lo scrisse».


Nell’interpretazione sciasciana I promessi sposi perdono il carattere provvidenzialistico che ha voluto leggervi una certa critica, propensa ai luoghi comuni, che ha spopolato tra i banchi di scuola. Al contrario, il romanzo si presenta, per Sciascia, come una disamina lucidissima e spietata della società italiana: del tempo in cui il romanzo si svolge, del tempo in cui Manzoni lo scrisse, del tempo in cui noi lo leggiamo. In un’altra occasione, sempre a proposito del romanzo manzoniano, Sciascia ha affermato: «La sua opera è generalmente vista come il prodotto di un cattolico italiano piuttosto tranquillo e conformista, quando invece si tratta di un’opera inquieta, che racchiude un’impietosa analisi della società italiana di ieri e di oggi e delle sue componenti più significative. Un libro, un’opera che contiene tutta l’Italia, persino l’Italia che più tardi sarà descritta da De Roberto ne I viceré, da Pirandello ne I vecchi e i giovani, da Vitaliano Brancati ne Il vecchio con gli stivali, addirittura l’Italia delle Brigate Rosse». E quanto al cattolicesimo di Manzoni, Sciascia ha dichiarato: «è stato detto che ha convertito, convertendosi, l’illuminismo al cattolicesimo; ma io penso che in lui è forse accaduto il contrario: il cattolicesimo si è convertito all’illuminismo».


Vi è un altro saggio in Cruciverba nel quale si fa cenno ai Promessi sposi: «Un cruciverba su Carlo Eduardo», dove il Waverley di Walter Scott viene indicato tra le fonti del romanzo manzoniano, come aveva notato Corrado Alvaro, e attraverso la segnalazione di alcuni dei punti nei quali l’esteriore struttura dei due romanzi coincide.


Come Sciascia ricorda in «Goethe e Manzoni», l’autore del Faust, finito di leggere il romanzo, si era ricreduto su uno dei quattro pregi che vi aveva ravvisato, la storia, e si era convinto che lo storico avesse giocato un brutto tiro al poeta. E’ pur vero, e Sciascia ne tiene conto, che Goethe leggeva I promessi sposi nell’edizione del 1827, dove la fusione di storia e invenzione non è compiutamente raggiunta; se egli avesse letto l’edizione del 1840, si domanda Sciascia, avrebbe continuato a sostenere che Manzoni commetteva da storico peccato contro la poesia? Tra le parti di storia inserite nel romanzo del 1827 vi era la cronaca del processo ai presunti untori celebrato durante la peste milanese del 1630, cronaca che sarebbe stata pubblicata in appendice all’edizione del 1840 del romanzo, con il titolo Storia della colonna infame. Quest’opera, tra le opere manzoniane, ha sempre suscitato un interesse assolutamente prioritario in Sciascia, che ha affermato: «Potremmo magari lasciar da parte I promessi sposi: la Storia della colonna infame dovrebbe esser ben presente, oggi».


Al volumetto manzoniano Sciascia ha dedicato uno scritto particolarmente denso, raccolto in Cruciverba. Prima di Manzoni, l’illuminista Pietro Verri aveva dedicato la sua attenzione ed il suo sdegno ai tragici fatti milanesi; e con Verri Manzoni entra in parziale polemica per ciò che pertiene le responsabilità di quei gravi casi d’ingiustizia. Sciascia sceglie di stare con Manzoni: «Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni; Manzoni alle responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte». E all’obiezione che quei giudici fossero uomini di cui tutta Milano riconosceva l'integrità, obiezione avanzata da Fausto Nicolini nel suo Peste e untori del 1937, autentico bersaglio polemico di questo scritto, Sciascia risponde stabilendo appunto un’analogia con i campi di sterminio nazisti: «viene da pensare a quel libro di Charles Rohmer, L’altro, che è quanto di più terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: “una dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male, la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l’esatta misura della loro negatività” […] Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c’è da tremare è appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono “burocrati del Male”: e sapendo di farlo».


Nell’opera manzoniana Sciascia legge l’analisi, lucida e tormentata, delle responsabilità individuali imputabili a uomini che hanno il potere di giudicare altri uomini, e tanto più acuta e dolorosa è quest’analisi in quanto riferita a uomini non eccezionalmente malvagi né a tempi di eccezionale oscurità, ma a uomini con la loro parte di umanità, e in qualsiasi tempo: occorre vigilare perché più non accada che alcuni uomini possano disporre della libertà e della vita di altri uomini, e proprio perché ciò può accadere sempre: «Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre».


Il Manzoni che più interessa a Sciascia è quello che compiutamente si esprime nella Storia della colonna infame, dove con maggiore evidenza che nel romanzo il moralismo è molto più prepotente delle credenze religiose. Per Sciascia la Storia costituisce una deviazione imprevista dal percorso tracciato dalla fede, percorso nel romanzo coerentemente seguito; una chiave di lettura, la più congeniale, con cui aprire il medesimo romanzo all’interpretazione che egli ne diede. Un’opera che dapprima Manzoni chiamò appendice storica sulla Colonna Infame, e appunto da appendice è trattata, con disattenzione e superficialità, dice Sciascia. E sulla scelta dell’autore di fare della Storia un’opera separata dal romanzo, Sciascia coglie le vere ragioni di questo piccolo grande libro: «La ragione per cui Manzoni espunge dal romanzo la Storia non è soltanto tecnica – cioè quella ragione di cui lungamente, sull’edizione dei Promessi Sposi del 1827, Goethe discorre con Eckermann. La ragione è che sui documenti del processo, sull’analisi e le postille di Verri, Manzoni entrò, per dirla banalmente, in crisi. La forma, che non era soltanto forma, e cioè il romanzo storico, il componimento misto di storia e d’invenzione, gli sarà apparsa inadeguata e precaria; e la materia dissonante al corso del romanzo, non regolabile ad esso, sfuggente, incerta, disperata. E c’è da credere procedessero di pari passo, in margine alla sublime decantazione o decantata sublimazione (da nevrosi, si capisce) in cui andava rifacendo il romanzo, l’abbozzo della Colonna Infame e la tesura del discorso sul romanzo storico. Due grandi incongruenze, a considerare che venivano dallo stesso uomo che stava tenacemente attaccato a rifare e affilare un componimento misto mentre ne intravedeva e decretava la provvisorietà e ne preparava uno, per così dire, integrale da cui l’invenzione veniva decisamente esclusa».


Infine, a proposito della scarsa fortuna che quest’opera avrebbe incontrato presso i lettori, e della previsione che ne aveva fatto Manzoni, Sciascia dichiara di avere egli ripreso quel genere così poco praticato in Italia, e qui dovrebbe aprirsi un lungo discorso sull’opera sciasciana, ma poiché esula dal tema qui preso in esame basterà avervi fatto cenno. Dichiara Sciascia: «Non c’era mai stato niente di simile, in Italia; e quando qualcuno, più di un secolo dopo, si attenterà a riprendere il “genere” (poiché Manzoni, come esattamente dice il Negri, prefigura il “genere” dell’odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario), “le silence s’est fait”: come allora».


fonte: Marcello D'Alessandra, amicisciascia.it

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