La Chiesa si vive. Dobbiamo partire da questa certezza per
comprendere il momento che la Chiesa e la società stanno vivendo. Della
Chiesa non si parla come di un oggetto a partire dalle proprie
presupposizioni di carattere ideologico, culturale, filosofico o altro.
La Chiesa si vive. Per la Chiesa si soffre, per la Chiesa si gioisce,
soprattutto si tenta di dare il nostro apporto significativo e creativo.
Ebbene, lo scandalo della situazione della Chiesa oggi
– e uso volutamente la parola “scandalo” - è che la Chiesa è stata
buttata in pasto alla stampa. La Chiesa è uno strumento manipolabile e
manipolato dalla stampa, da una stampa che in Italia è per il 90% di
impostazione laicista e anticattolica. Quindi siamo al paradosso che la
mentalità laicista la fa da padrona in casa nostra pretendendo di
decidere chi sono i veri ortodossi e chi sono gli eterodossi, qual è la
posizione corretta e qual è la posizione del Santo Padre, perché poi
ciascuno di questi pretende o millanta un credito presso il Santo Padre.
Per cui noi assistiamo impotenti a una manipolazione che è avvilente,
cioè avvilisce la fede del nostro popolo. Perché il nostro popolo ha
un’esperienza di fede reale e personale che non ha nulla da spartire con
le pensate di Eugenio Scalfari e altri.
Questi possono essere strumenti che verificano una posizione,
ma il dialogo – come più volte ha detto Benedetto XVI nel Sinodo
sull’evangelizzazione - è l’espressione di una identità forte. Forte non
di mezzi, ma forte di ragioni. Se c’è un’identità forte è inevitabile
che questa identità ponendosi incontri uomini, situazioni, condizioni,
problemi, fatiche; quindi entri in dialogo con chi ha un’altra
impostazione. Ma se non c’è un’identità il dialogo è un illusione. Il
dialogo è la conseguenza di un’identità, non può essere l’obiettivo.
L’obiettivo è l’evangelizzazione.
È un momento ben definito da quell’affermazione di Paolo VI a Jean Guitton,
pochi mesi prima di morire: «All'interno del cattolicesimo sembra
talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire
che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi
domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della
Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso
sia». È un’affermazione che sollecita all’assunzione di un criterio di
giudizio a cui consegue un comportamento.
Voglio ricordare questa splendida frase della lettera di san Giacomo:
«Considerate perfetta letizia fratelli miei quando subite ogni sorta di
prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la
pazienza completi l’opera sua in voi perché siate perfetti ed integri
senza mancare di nulla» (Gc 1, 2-4).
Questo è il tempo in cui viviamo. Dire che è un tempo di prova,
non significa analizzare e programmare una soluzione di questa crisi. È
per l’incremento della santità. Dio permette certe cose perché uno
assumendo una posizione vera di fronte a Cristo e alla Chiesa, possa
diventare "perfetto". Per meno di questo non vale la pena discutere
della Chiesa, come non varrebbe la pena discutere di niente.
Ecco dunque una prima osservazione, che è anche uno
dei nodi centrali del cammino conciliare che la Chiesa ha fatto su se
stessa, sulla sua identità, e che si è espressa nella Lumen Gentium,
Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II che poi ha trovato il
suo approfondimento straordinario nel magistero di Giovanni Paolo II. La Chiesa è un evento di popolo.
La Chiesa non è una struttura di mediazione fra un messaggio cristiano e
il popolo. La Chiesa è il popolo di Dio, è il popolo generato dal suo
Spirito, dallo Spirito del Signore crocifisso e risorto che,
comunicandosi a coloro che il Signore sceglie, fa di loro un popolo. Un
popolo che non nasce dalla carne e dal sangue, cioè dalle determinazioni
naturali, ma nasce dallo Spirito, quindi è una realtà irriducibile a
qualsiasi altra formulazione di popolo. È stata la grande esperienza dei
primi secoli, perché il tentativo di appiattire la Chiesa sulla realtà
ebraica, sulla realtà greca, sulla realtà dei popoli barbari è stata
smentita: «Non c’è più né greco né giudeo, né schiavo né libero né uomo
né donna perché voi siete un essere solo in Cristo Gesù».
Il cristianesimo è la Chiesa, e Cristo arriva fino a
te incontrandoti nell’unità dei suoi. Che cosa rende presente il
cristianesimo nel mondo? L’unità dei suoi, presente nell’ambiente, in
connessione vitale con il vescovo e con il Papa. Sono pagine che ha
scritto don Luigi Giussani precedendo la Lumen Gentium. Questo è qualcosa che si deve sempre di nuovo conquistare. Non può essere dato per scontato e non dipende dalle condizioni.
Che cosa avviene in questo incontro con Cristo nei suoi?
Che cosa avviene nella persona? Avviene l’esperienza della novità. Ma
cos’è la novità? La novità della vita è l’esperienza di una
corrispondenza imprevedibile ma reale fra questo incontro e la mia
umanità. Se la fede non genera questo è un’aggiunta posticcia alla vita.
Perché la vita vuole l’eternità, tutta la vita chiede l’eternità. La
vita vuole l’eternità, l’incontro con Cristo è la certezza qui ed ora –
come spesso diceva papa Giovanni Paolo II –; qui ed ora avviene questo,
cioè ti capita di sentirti rivelato nel tuo io più profondo.
Cristo incontra il mondo perché lo incontra in me anzitutto,
perché la partecipazione alla stessa realtà umana e storica ci
accomuna. Portare Cristo nell’ambiente, nel mondo, vuol dire investire
la realtà umana del pezzo di società in cui siamo chiamati a vivere
della novità della nostra comunità. L’esperienza che Cristo è la
risposta alla vita deve diventare ogni giorno che passa più vera per
noi, e attraverso di noi deve investire la vita dei nostri fratelli
uomini.
Questo si chiama missione, la presenza della Chiesa come novità di vita che tende a comunicarsi agli uomini. E la missione assume necessariamente il volto del giudizio.
Perché il giudizio è l’incontro fra la concezione della vita, la realtà
di vita nuova che viviamo e la realtà umana, storica, in cui vivono gli
uomini. La cultura è nata così. Investire il mondo con la serena
baldanza di portare la verità di Cristo. Investirla di un giudizio che
non è la nostra capacità, è un dovere di coscienza. Paragonare tutto ciò
che si incontra con la novità di Cristo che abbiamo incontrato.
Questo è un punto fondamentale. Non c’è età della vita che esima da questo,
non c’è responsabilità culturale, sociale, politica, economica,
ecclesiastica, non c’è nessuna situazione che esima da questo incessante
riproporre l’avvenimento di Cristo agli uomini perché io stesso lo
comprenda sempre di più.
In questo deve essere ripresa quella intuizione di Giovanni Paolo II
che definì la missione come l’autorealizzazione della Chiesa. Non una
serie di iniziative che si pongono accanto a una Chiesa che ha già
trovato la sua consistenza nella sua struttura organizzativa, nel suo
pensiero. No, la missione è essenziale perché la Chiesa sia se stessa.
La Chiesa non ha il problema di giudicare il mondo e di cambiare il
mondo, ha il compito di giudicare il mondo perché i suoi figli e coloro
che si convertono possano vivere loro la responsabilità di trasformare
il mondo. Non è l’istituzione ecclesiale che trasforma il mondo, è il
popolo cristiano che entrando nella società con una certa impostazione
ultima dà il suo contributo al cambiamento in meglio della società.
Eccoci dunque alla seconda osservazione. Qual è la
crisi attuale della cristianità (e per cristianità si deve intendere
un’esperienza di popolo cristiano che gioca la sua identità in questo
momento della storia)? Nel periodo che si estende ai due pontificati di
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, la Chiesa era una realtà che
giudicava, e agiva conseguentemente. E quindi dava un suo contributo,
maggioritario o minoritario non interessa, dava il suo contributo a
favorire una lettura della situazione e una linea di sviluppo adeguata,
almeno quella che si poteva pensare come adeguata. Non era un giudizio
astratto, ideologico, era il tentativo di investire la situazione di una
certezza di giudizio che nasceva dalla certezza della fede.
Come ha detto George Weigel, a Giovanni Paolo II è stata data la ventura
di cambiare il senso della storia. Giovanni Paolo II in forza solo
della sua fede, e della sua straordinaria capacità di rivivere tutta la
grande esperienza ecclesiale polacca e in essa la grande esperienza del
cattolicesimo, ha dimostrato che il comunismo non era invincibile. Anche
la cristianità si era mossa fino ai tempi di Giovanni Paolo II
schiacciata da una ipotesi terribile: che comunque avrebbero vinto loro.
Ed essendo già scritto che avrebbero vinto loro - per la potenza
politica, economica, militare - si trattava di salvare il salvabile.
Questa espressione tornò continuamente in certi ambiti della cristianità
italiana e determinò alcune scelte di tipo ecclesiastico, come ad
esempio cosiddetta Ostpolitik, condotta sul filo del “salvare il
salvabile”. Il magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno
ridato alla cristianità il senso di una unità reale e di un giudizio, e
di una doverosità del giudizio.
Su questo oggi c’è la crisi. Non è negabile, oggi la
cristianità sembra non essere più in grado di dare dei giudizi
pertinenti, ma direi di più. Certi settori della cristianità dicono che
non è assolutamente necessario dare dei giudizi, anzi che la
formulazione dei giudizi rappresenterebbe qualcosa di patologico perché
metterebbe in crisi la radicalità e la purezza della fede sporcandola
con quelle circostanze di carattere storico e quindi contingenti.
Ciò significa che l’ideale è una Chiesa senza capacità di giudizio,
una Chiesa ridotta individualisticamente a certe pratiche spirituali, a
certe emozioni individuali o a una certa pratica caritativo-sociale.
Sono le cose da cui Benedetto XVI mette in guardia la Chiesa all’inizio
della sua enciclica Deus caritas est, quando dice che il
cristianesimo non è né una serie di pratiche spirituali né dei
sentimenti né un progetto di carattere caritativo-sociale, ma è un
incontro con una Persona, la sequela di Lui, il cambiamento della vita
in Lui, la comunicazione di questa vita nuova agli uomini.
Ci sono degli aspetti gravissimi in questa resistenza al giudizio.
La prima implicazione è l’avere alzato bandiera bianca sul problema
della vita. Dopo aver combattuto per decenni perché la vita fosse al
centro dell’esperienza della famiglia e della società, perché fosse
considerata come è, indisponibile a tutti se non a Dio e quindi come un
valore irriducibile a qualsiasi altra condizione, da riconoscere e da
difendere in tutte le fasi dal concepimento fino alla fine della vita,
noi abbiamo incominciato con il nostro silenzio a lasciare spazi larghi,
spazi sempre più larghi a una manipolazione insieme intellettuale,
morale e politica. Oggi è diventata maggioritaria l’idea che la vita sia
una serie di procedure di carattere bio-fisiologico che possono essere
conosciute scientificamente e manipolate tecnologicamente.
Questo silenzio sulla vita, viene poi ribadito da un
silenzio pressoché assoluto su quella che è la follia del “gender”,
cioè la soppressione della differenza sessuale da qualsiasi indicazione
naturale, per una restituzione della sessualità alla pura istintualità,
con anche la costruzione di progetti educativi in questo senso. Nelle
scuole italiane circola un “progetto amore”, con i riconoscimenti da
parte delle autorità scolastiche che devono garantire la buona scuola,
progetti che sono demenziali: dove si definisce l’equivalenza
maschio-femmina, la compresenza nella stessa realtà personale di due
tendenze sessuali che devono essere favorite una dopo l’altra.
Aspetti di follia che però sono diventati diffusissimi. E nei confronti dei quali esiste una certa reattività delle famiglie. Le famiglie sono in posizione sanamente reattiva, ma quasi senza mezzi e senza strumenti. Senza strumenti di approfondimento, e senza una guida se non parziale, se non in alcuni posti. Ma siccome qui tutti dicono che sono amici del Papa e che portano avanti la posizione del Santo Padre, io vorrei ricordare che papa Francesco nell’incontro con i vescovi italiani il maggio scorso ha detto: “Siete stati investiti dallo tsunami del gender. E che cosa avete fatto? Nulla”. Francesco ha detto a 250 vescovi italiani “dovevate giudicare il gender e non l’avete fatto”, che significa anche che non si potrà continuare a rappresentare una Chiesa italiana che non affronti il tema del gender: perché è devastante, sta devastando la coscienza e il cuore del nostro popolo. Il silenzio su questo è espressione di una assoluta mancanza di fede.
Aspetti di follia che però sono diventati diffusissimi. E nei confronti dei quali esiste una certa reattività delle famiglie. Le famiglie sono in posizione sanamente reattiva, ma quasi senza mezzi e senza strumenti. Senza strumenti di approfondimento, e senza una guida se non parziale, se non in alcuni posti. Ma siccome qui tutti dicono che sono amici del Papa e che portano avanti la posizione del Santo Padre, io vorrei ricordare che papa Francesco nell’incontro con i vescovi italiani il maggio scorso ha detto: “Siete stati investiti dallo tsunami del gender. E che cosa avete fatto? Nulla”. Francesco ha detto a 250 vescovi italiani “dovevate giudicare il gender e non l’avete fatto”, che significa anche che non si potrà continuare a rappresentare una Chiesa italiana che non affronti il tema del gender: perché è devastante, sta devastando la coscienza e il cuore del nostro popolo. Il silenzio su questo è espressione di una assoluta mancanza di fede.
Collegato a vita e gender è anche il tema dei cosiddetti “nuovi diritti”.
Si tratta della riduzione dei diritti alla istintualità, ideologica o
bio-fisiologica, per cui il diritto è quello che uno ritiene, che vuol
provare a essere, con la perdita totale del senso della natura. La
natura non è una serie di oggetti, la natura è una realtà vivente,
subordinata all’uomo ma vivente. E nel dialogo fra l’uomo e la natura,
l’uomo acquisisce valori, insegnamenti, che da solo non riuscirebbe a
produrre con la sua sola intelligenza. Ecco perché la coscienza entra in
rapporto con la natura, e soprattutto la coscienza umana è l’unico
punto in cui questo dialogo con la natura acquisisce la fisionomia della
legge legata alla natura. Per questo Benedetto XVI nell’ultimo periodo
del suo pontificato ha richiamato continuamente la necessità di
recuperare la verità della natura, del diritto naturale, perché i
diritti non diventassero semplicemente una serie di opzioni di carattere
individualistico nel senso deteriore.
Queste tre battaglie, che ho appena descritto, sono essenziali per la fede.
Se si va avanti ancora un po’ di tempo senza una capacità di essere
presenti a questo dibattito, senza dare un contributo significativo a
questo dibattito, sarà il trionfo del pensiero unico dominante, che ha
come caratteristica proprio la volontà di negare la presenza cristiana
come una presenza autentica.
È necessario passare dalla fede alle opere, di non
sottrarre nulla all’impatto con la fede. I vecchi padri della Chiesa
dicevano che «quello che non è stato assunto dal Verbo non è stato
salvato». Se c’è una cosa nell’esperienza umana, sociale, su cui la fede
cristiana non dà un giudizio vuol dire che c’è una realtà del mondo che
stando senza l’incontro con Cristo si salva ugualmente e così il
Signore non è più il Redentore. Diceva invece l’Instrumentum laboris
del primo Sinodo sull’evangelizzazione, allora redatto da Paolo VI, che
«la fede è la salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli
uomini».
Allora c’è una osservazione conclusiva. Una certa
cristianità che ha maturato un suo cammino di fede non deve accettare
una rilettura parziale o falsificata della storia della cristianità
italiana. Che non è la storia di gente che non voleva accettare di non
avere più nessuna egemonia e che per avere questa egemonia ha fatto
battaglie sul divorzio, sull’aborto e altre. Battaglie inutili – si dice
- perché si sarebbero perse senz’altro. In realtà per più di una
generazione furono battaglie fatte per la fede, per la maturità della
fede. Sconfitta o vittoria sono state uguali, nel senso che hanno
consentito a tutti la maturazione della fede.
La crisi della Chiesa non è una crisi puntuale, è una crisi ampia.
Ma non serve un’analisi che tenda a stabilire le responsabilità. La
Chiesa è di Dio, la Chiesa non viene meno, la modalità con cui Dio guida
la sua Chiesa eccede le nostre capacità. Però noi abbiamo il compito di
fare un’esperienza reale di Chiesa, nel cammino che la Provvidenza ci
ha fatto incontrare. Facciamo quello che Dio ci ha chiesto di fare poi
Dio prenderà quello che stiamo facendo e gli darà il peso. I modi e i
tempi li sceglie Lui, a noi spetta la nettezza della nostra posizione,
che viene dalla lealtà con la nostra coscienza, e la nostra storia, e da
quella capacità di compagnia che se ce la facciamo nella concretezza
delle nostre condizioni, rende meno arduo il cammino. Ricordandoci di
quello che diceva il Metastasio: «L’aver compagno al duol, scema
l’affanno».
Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio
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