martedì 6 gennaio 2015

L’Assoluto ha retto l’universo da una stalla per animali

canti tradizionali e il cuore di Betlemme
di Fabio Trevisan
fonte:riscossacristiana.it
In una recente pubblicazione curata da Maurizio Brunetti (Lo spirito del Natale, D’Ettoris Editori), sono stati tradotti in italiano inediti di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) sul Santo Natale che periodicamente lo scrittore nativo di Beaconsfield pubblicava su giornali e riviste lungo tutto l’arco del Novecento in cui visse. Uno di questi brevi saggi, I canti tradizionali di Natale, ci restituisce ancora una volta uno scrittore cristiano capace di sorprenderci, di commuoverci e di indurci alla riflessione.
In queste meditazioni molto acute sul Natale, Chesterton ci mostra e ci fa assaporare il paradosso della grotta, ovvero ci fa cogliere e riscoprire tutte quelle cose che, ritenute di poco conto dal mondo, in realtà celano nell’umiltà il Divino Bambino. Sta nella continuità di questa riscoperta il cuore dell’intera faccenda, il cuore di Betlemme, il fulgore della mangiatoia: L’Assoluto ha retto l’universo da una stalla per animali”. L’elogio dei canti tradizionali di Natale risale al 1901 e Chesterton si erse a cantore e difensore, da assertore medievalista qual era, di tutte quelle ballate antiche e sempre nuove, contrapponendole alla durezza dei teologi e all’ottusità del mondo moderno: “Con sempre maggiore insistenza, i teologi hanno battuto l’accento sulla separazione fra Cristo e l’umanità; all’antico venditore di ballate è bastata, invece, l’ispirazione poetica per intuire ciò che della divinità emoziona e meraviglia, cioè la pienezza e la perfezione del suo nascondimento”. Soprattutto in un antico canto natalizio, When Joseph was a-walking (Mentre Giuseppe era in cammino), Chesterton rilevava la stridente contrapposizione tra la pomposità nebulosa ed il vigore e la precisione nei versi di quella sublime ballata: “Non dovrà nascere né in una casa né in una grande sala, né in un luogo di Paradiso, ma nella mangiatoia di una stalla. Non dovrà essere battezzato né con vino bianco né con vino rosso, ma nell’acqua chiara di primavera dove fummo battezzati anche noi”.
Un altro bel canto tradizionale di Natale (Carol for St. Stephen’s Day), che raccontava la storia di Santo Stefano martire, descriveva la testimonianza oculare dell’apparizione della stella di Betlemme a Stefano, che era maggiordomo nella sala per banchetti di re Erode: “Non mi mancano né cibo né bevande nella dimora di re Erode: è nato un bambino a Betlemme che è meglio di noi tutti”. Chesterton rilevava nei versi di quelle preziose ballate una sublime rilevanza spirituale e tutta l’energia creativa cristiana che lo spingevano entusiasticamente a sostenerne l’esecuzione e la diffusione: “Una moda miope e volgare porta a deprezzare i canti tradizionali di Natale e a scoraggiarne l’esecuzione. Le stesse persone che chiacchierano allegramente in mezzo a tutti i rumori infernali della metropolitana, o che sopportano lo sferragliare di migliaia di veicoli su una strada sassosa (allora le strade non erano asfaltate), dicono di detestare il suono dei canti di Natale. Far finta che qualcosa ti piaccia forse è peccato; ma far finta che qualcosa non ti piaccia si avvicina molto a un peccato contro lo Spirito Santo”. Il finale dell’apologetica riguardante i canti tradizionali di Natale è condensato in due righe di stupefacente spessore: “E’ ancora lecito tuttavia sperare che qualcuno senta quei canti: essi rappresentano gli ultimi echi di quel vagito che ha rinnovato il mondo”.
Quegli ultimi echi del Divino Infante costituivano, per il grande scrittore inglese, il cuore della cittadina di Betlemme, ossia, con le sue stesse parole: “Nessuna poesia, nemmeno quella dei poeti più grandi, riuscirà mai a esprimere tutti i significati nascosti nell’immagine della luce del mondo che si fa sole sotterraneo”.
Chesterton si pone e ci colloca, come i Re Magi, dinanzi al miracolo della Sacra Famiglia affinché possiamo contemplarne l’ineffabile bellezza. Egli ci fa ascoltare l’incedere solenne dei Magi e ci mette sui loro passi: “Andate lenti, sotto pioggia o neve, trovate il luogo ove poter pregare, è tutta così facile la strada che potremmo smarrirla…Bianco e terribile diventa il mondo, bianco accecante è il giorno che nasce; camminiamo perplessi nella luce, qualcosa è troppo grande da vedere, qualcosa è troppo semplice da dire. Quel Bimbo fu, prima che il mondo fosse; quel Bimbo che giocò con luna e sole, gioca con la paglia. La casa che dà vita al paradiso, la strana vecchia casa che è la nostra, ove parole false mai si dicono, la Compassione è pura come l’acqua, l’Onore è solido come la pietra. Siate umili come sono i cieli, e bassa, grande e fiera è la Stella: la Mangiatoia è così vicina che noi possiamo viaggiar lontano. Udite! Un riso di leon si desta, ruggisce alla pianura risonante. Grida e si scuote allora il cielo intero, ché Dio stesso è rinato, e noi siamo bambini che camminano fra la neve e la pioggia”.
Sono versi semplici e profondi che ci fanno assaporare il devoto pellegrinaggio verso la Casa del Padre che è la Casa del Figlio, il cuore di Betlemme, dove quella Divina mangiatoia ormai vicina ci permette di andare lontano! E’ la Casa che dà vita al paradiso, quella Casa che sempre ci accoglie, seppur così apparentemente strana. Il Gloria in Profundis composto da Chesterton nel 1927 conclude il cammino meditabondo dei Re Magi e ci fa approdare al Porto gioioso di salvezza, al terrificante ed esplosivo Annuncio anticipato nei cieli dagli angeli: “Sulla terra è caduto come un pegno, dio troppo grande pel cielo. Da ogni cosa esplodendo egli ha infranto i confini dell’eterno”. Chesterton, pur nella consapevolezza che l’eterno non può avere confini, gioca sulla forza del paradosso (Dio troppo grande per il cielo) per farci trasalire e sconvolgere dall’inaudito: “Chi sarà fiero se i cieli son umili, salirà se i monti cadono, le stelle fisse slittano e un diluvio d’amore tutto sommerge? Chi mai potrà corona aspirare, chiamar diritto sua voglia, col flusso astrale lottare, se in basso discende tutto ch’è bene?”. L’attualità sconvolgente del paradosso cristiano di Colui che è così Alto e così umilmente si abbassa viene proiettata dinanzi agli occhi di un mondo pretenzioso e peccaminoso che chiama diritto ogni sua voglia, ogni suo capriccio. Chi mai, ci interroga Chesterton, può essere ancora così arrogante dinanzi a cieli così umili? Salire se i monti cadono? Insuperbirsi nelle proprie ribellioni, come quegli angeli capeggiati da Lucifero?
Nella composizione poetica Chesterton ci mostra l’insolenza del peccato di coloro che precipitarono scalando: “Poiché temendo una tale caduta gli angeli caduti caddero scalando, invertiti in arroganza, d’inferno il monte pendente…Che al Signore sia Gloria nel Più Basso, getto in piena delle stelle, laddove il tuono pensa d’essere lento e il lampo si teme tardo: cercando una gemma persa noi la seguiamo, cacciamo e staniamo, e la stella cadente l’ha trovata nella caverna a Betlemme”.

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