canti tradizionali e il cuore di Betlemme
di Fabio Trevisan
fonte:riscossacristiana.it
In una recente pubblicazione curata da Maurizio Brunetti (Lo spirito del Natale, D’Ettoris Editori),
sono stati tradotti in italiano inediti di Gilbert Keith Chesterton
(1874-1936) sul Santo Natale che periodicamente lo scrittore nativo di
Beaconsfield pubblicava su giornali e riviste lungo tutto l’arco del
Novecento in cui visse. Uno di questi brevi saggi, I canti tradizionali di Natale, ci restituisce ancora una volta uno scrittore cristiano capace di sorprenderci, di commuoverci e di indurci alla riflessione.
In queste meditazioni molto acute sul
Natale, Chesterton ci mostra e ci fa assaporare il paradosso della
grotta, ovvero ci fa cogliere e riscoprire tutte quelle cose che,
ritenute di poco conto dal mondo, in realtà celano nell’umiltà il Divino
Bambino. Sta nella continuità di questa riscoperta il cuore dell’intera
faccenda, il cuore di Betlemme, il fulgore della mangiatoia: “L’Assoluto ha retto l’universo da una stalla per animali”. L’elogio
dei canti tradizionali di Natale risale al 1901 e Chesterton si erse a
cantore e difensore, da assertore medievalista qual era, di tutte quelle
ballate antiche e sempre nuove, contrapponendole alla durezza dei
teologi e all’ottusità del mondo moderno: “Con sempre maggiore
insistenza, i teologi hanno battuto l’accento sulla separazione fra
Cristo e l’umanità; all’antico venditore di ballate è bastata, invece,
l’ispirazione poetica per intuire ciò che della divinità emoziona e
meraviglia, cioè la pienezza e la perfezione del suo nascondimento”. Soprattutto in un antico canto natalizio, When Joseph was a-walking (Mentre Giuseppe era in cammino),
Chesterton rilevava la stridente contrapposizione tra la pomposità
nebulosa ed il vigore e la precisione nei versi di quella sublime
ballata: “Non dovrà nascere né in una casa né in una grande sala, né
in un luogo di Paradiso, ma nella mangiatoia di una stalla. Non dovrà
essere battezzato né con vino bianco né con vino rosso, ma nell’acqua
chiara di primavera dove fummo battezzati anche noi”.
Un altro bel canto tradizionale di Natale (Carol for St. Stephen’s Day),
che raccontava la storia di Santo Stefano martire, descriveva la
testimonianza oculare dell’apparizione della stella di Betlemme a
Stefano, che era maggiordomo nella sala per banchetti di re Erode: “Non mi mancano né cibo né bevande nella dimora di re Erode: è nato un bambino a Betlemme che è meglio di noi tutti”. Chesterton
rilevava nei versi di quelle preziose ballate una sublime rilevanza
spirituale e tutta l’energia creativa cristiana che lo spingevano
entusiasticamente a sostenerne l’esecuzione e la diffusione: “Una
moda miope e volgare porta a deprezzare i canti tradizionali di Natale e
a scoraggiarne l’esecuzione. Le stesse persone che chiacchierano
allegramente in mezzo a tutti i rumori infernali della metropolitana, o
che sopportano lo sferragliare di migliaia di veicoli su una strada
sassosa (allora le strade non erano asfaltate), dicono di
detestare il suono dei canti di Natale. Far finta che qualcosa ti
piaccia forse è peccato; ma far finta che qualcosa non ti piaccia si
avvicina molto a un peccato contro lo Spirito Santo”. Il finale dell’apologetica riguardante i canti tradizionali di Natale è condensato in due righe di stupefacente spessore: “E’
ancora lecito tuttavia sperare che qualcuno senta quei canti: essi
rappresentano gli ultimi echi di quel vagito che ha rinnovato il mondo”.
Quegli ultimi echi del Divino Infante
costituivano, per il grande scrittore inglese, il cuore della cittadina
di Betlemme, ossia, con le sue stesse parole: “Nessuna poesia,
nemmeno quella dei poeti più grandi, riuscirà mai a esprimere tutti i
significati nascosti nell’immagine della luce del mondo che si fa sole
sotterraneo”.
Chesterton si pone e ci colloca, come i
Re Magi, dinanzi al miracolo della Sacra Famiglia affinché possiamo
contemplarne l’ineffabile bellezza. Egli ci fa ascoltare l’incedere
solenne dei Magi e ci mette sui loro passi: “Andate lenti, sotto
pioggia o neve, trovate il luogo ove poter pregare, è tutta così facile
la strada che potremmo smarrirla…Bianco e terribile diventa il mondo,
bianco accecante è il giorno che nasce; camminiamo perplessi nella luce,
qualcosa è troppo grande da vedere, qualcosa è troppo semplice da dire.
Quel Bimbo fu, prima che il mondo fosse; quel Bimbo che giocò con luna e
sole, gioca con la paglia. La casa che dà vita al paradiso, la strana
vecchia casa che è la nostra, ove parole false mai si dicono, la
Compassione è pura come l’acqua, l’Onore è solido come la pietra. Siate
umili come sono i cieli, e bassa, grande e fiera è la Stella: la
Mangiatoia è così vicina che noi possiamo viaggiar lontano. Udite! Un
riso di leon si desta, ruggisce alla pianura risonante. Grida e si
scuote allora il cielo intero, ché Dio stesso è rinato, e noi siamo
bambini che camminano fra la neve e la pioggia”.
Sono versi semplici e profondi che ci
fanno assaporare il devoto pellegrinaggio verso la Casa del Padre che è
la Casa del Figlio, il cuore di Betlemme, dove quella Divina mangiatoia
ormai vicina ci permette di andare lontano! E’ la Casa che dà vita al
paradiso, quella Casa che sempre ci accoglie, seppur così apparentemente
strana. Il Gloria in Profundis composto da Chesterton nel 1927
conclude il cammino meditabondo dei Re Magi e ci fa approdare al Porto
gioioso di salvezza, al terrificante ed esplosivo Annuncio anticipato
nei cieli dagli angeli: “Sulla terra è caduto come un pegno, dio
troppo grande pel cielo. Da ogni cosa esplodendo egli ha infranto i
confini dell’eterno”. Chesterton, pur nella consapevolezza che l’eterno non può avere confini, gioca sulla forza del paradosso (Dio troppo grande per il cielo) per farci trasalire e sconvolgere dall’inaudito: “Chi
sarà fiero se i cieli son umili, salirà se i monti cadono, le stelle
fisse slittano e un diluvio d’amore tutto sommerge? Chi mai potrà corona
aspirare, chiamar diritto sua voglia, col flusso astrale lottare, se in
basso discende tutto ch’è bene?”. L’attualità sconvolgente del
paradosso cristiano di Colui che è così Alto e così umilmente si abbassa
viene proiettata dinanzi agli occhi di un mondo pretenzioso e
peccaminoso che chiama diritto ogni sua voglia, ogni suo capriccio. Chi
mai, ci interroga Chesterton, può essere ancora così arrogante dinanzi a
cieli così umili? Salire se i monti cadono? Insuperbirsi nelle proprie
ribellioni, come quegli angeli capeggiati da Lucifero?
Nella composizione poetica Chesterton ci mostra l’insolenza del peccato di coloro che precipitarono scalando: “Poiché
temendo una tale caduta gli angeli caduti caddero scalando, invertiti
in arroganza, d’inferno il monte pendente…Che al Signore sia Gloria nel
Più Basso, getto in piena delle stelle, laddove il tuono pensa d’essere
lento e il lampo si teme tardo: cercando una gemma persa noi la
seguiamo, cacciamo e staniamo, e la stella cadente l’ha trovata nella
caverna a Betlemme”.
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