mercoledì 7 gennaio 2015

La strage di Parigi

Non è solo uno spietato atto di guerra, è un paragrafo sanguinoso dello scontro di civiltà. La parola terrorismo non dice tutta la verità, il che è banale, ovvio ma irrefutabile. Ci sono di mezzo il profeta islamico come icona sacra, il libro coranico a lui dettato dal cielo, l’antropologia di una comunità universalista che fa figli contro quella di un’altra comunità universalista che non ne fa più, la storia geopolitica di uno scontro che ha sempre lambito le grandi capitali europee e s’incuneò nel nuovo mondo con le immagini tremende dell’11 settembre 2001.

L’onore di Allah violato dalle profanazioni satiriche di uno storico e glorioso settimanale di piccola circolazione ma di tempra immensa, obiettivo così diverso dalle Twin Towers, da molti anni nel mirino dell’islamismo politico con i suoi Wolinsky, Cabu, Tignous, tutti fucilati, è stato difeso a colpi di Ak-47 rivolti contro la libertà di dire, pensare, pubblicare da parte di un pugno di giornalisti e artisti di estrema sinistra, anarchici, assassinati durante la riunione di redazione. Decimare un gruppo di disegnatori e vignettisti al grido Allahu akbar, e far fuori un paio di poliziotti posti a loro protezione in una via centrale di Parigi, è un atto di intimidazione e di sottomissione che vira verso il cuore dell’occidente giudaico cristiano e delle sue libertà impertinenti.

D’altra parte con questa crociata all’assalto della croce, all’insegna della mezzaluna, conviviamo tragicamente e vilmente, salvo resistenti e martiri, da decenni ormai. Charb, il direttore-pseudonimo del settimanale, ucciso insieme ai maggiori vignettisti, era un clandestino d’occidente, come ce ne sono stati altri, basti pensare al mondano e sulfureo ma blindato Rushdie, al fuggitivo e ideologicamente perseguitato Redecker. L’agnello Theo Van Gogh fu abbattuto nel centro di Amsterdam mentre andava tranquillo in bicicletta, e dovette subire gli sputazzamenti della gente perbene d’occidente, toccati poi anche a Ayaan Hirsi Ali, espatriata negli Stati Uniti e non ricevuta nelle Università filoislamiche dell’establishment.

Clandestino nella sua casa, il direttore freddato di Charlie Hebdo, intendendo per casa il luogo di origine e abitazione, di cultura e di lingua, e non un’esclusività contro altrui, aveva dovuto subire anche la vergogna di una campagna contro il presunto razzismo del suo giornale, una delle tante campagne politicamente corrette che non risparmiano nemmeno i militanti dell’estrema sinistra anarchica, quando questi rivolgono il pennino o la matita verso l’intoccabile diritto all’integralità di sé che rivendica, abbiamo visto come, l’islam politico. Islamofobia, un’accusa greve e terminale che certi ideologi intendono equiparare, sofisticata bestemmia, all’antisemitismo genocida.

Qui avevamo condotto per tempo una stupefatta campagna editoriale e civile, centrata sull’enigmatico Lachenverbot, il divieto di ridere, che l’islam politico era riuscito a imporre alle ridanciane chattering classes del nostro tempo, sempre pronte a satireggiare tutto e tutti ma non i musulmani e i loro idoli. “Chi non ride di sé è pregato di allontanarsi dalla casa comune” è assegnamento diverso da “Arbeit macht frei”, non strumento di genocidio ma antidoto potenziale allo sterminio delle parole, delle coscienze libere e delle persone che le incarnano.


La decimazione di Parigi arriva mentre la Francia è nel pieno di uno dei suoi tradizionali psicodrammi, con saggisti e letterati di grido (Zemmour e Houellebecq) che denunciano con fare diretto o ironico il suicidio dei principi non negoziabili dell’universalismo laico (ci sono anche quelli, e sono compagni degli altri).

La palma della più orrorifica actù, come dicono a Parigi, se la aggiudicano dunque due scrittori: uno accusato di voler eliminare dal panorama di un paese in piena sindrome autolesionista l’islam che si mostra incompatibile; l’altro che dà il titolo a questa prima pagina, con il suo nuovo romanzo accusato di fomentare ironicamente la paura di un’irresistibile ascesa islamica, e in libreria giusto da ieri: Soumission, sottomissione, cioè islam. Ne parliamo altrove nel giornale di oggi, andando come sempre cerchiamo di fare alla radice delle cose, nella consapevolezza che una sola è la risposta alla forza intimidatrice dell’islam califfale e politico: una violenza politica, militare, tecnologica e civile incomparabilmente superiore.

fonte:il foglio

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