sabato 10 gennaio 2015

Non c’è istante di vita che non abbia un significato

«Sto leggendo il libro sugli ultimi giorni di Tolstoj, quando lui, non potendone più della moglie Sof’ja Andreevna, scappa dalla tenuta di Jasnaja Poljana con la figlia Aleksandra. La famosa notte di bufera in cui fuggendo, nel tragitto tra la casa e la rimessa dove gli han preparato la carrozza, gli cade il cappello e prende la freddata che gli procurerà la malattia e la morte...». Ermanno Olmi no, non si sognerebbe mai di scappare da Loredana. La incontrò tanti anni fa perché lei era la protagonista de «Il posto» . Li sposò Nazareno Fabretti in una chiesetta dove lui andava da piccolo: «È stata una straordinaria fortuna». E anche in questi mesi di flebo e terapie in cui è in trincea contro quello che Curzio Malaparte chiamava «lo stramaledetto», lui e Loredana sono sempre insieme. Sempre. «Fammi finire con Tolstoj: lui fa in modo che la moglie non trovi le sue tracce. Ma la broncopolmonite presa quella notte lo costringe a fermarsi in una stazione del treno ad Astapovo, dove il capostazione offre all’ospite la sua camera da letto. Tutto il mondo si fa intorno a questa stazioncina dove Tolstoj, malato sempre più gravemente, morirà. Non hai idea di quale sia non l’adorazione ma l’amore del popolo per Tolstoj. Del popolo. In genere oggi, la nostra cultura artistica non contiene la percezione segreta della realtà. Tolstoj, invece, aveva questa grande capacità di cogliere tutti i significati nel loro autoscoprirsi. E questo è il poeta. Il popolo degli analfabeti, degli ultimi, dei derelitti, è quello che lo capisce. Perché hanno meno conformismi mentali. Un po’ come Cristo. Chi capisce prima Cristo se non i pescatori, gli ultimi? Essere degli intellettuali è un grande rischio. E bisogna sapersi, come dire?, rimpicciolire, umiliarsi, sentirsi ignoranti, per cogliere alcune cose. Invece quante volte vedi personaggi che parlano dall’alto della loro presunzione mentre invece la verità sta sempre con gli umili? Ecco perché Tolstoj era amato dal popolo».
In che modo ti riconosci in questa storia?
«Perché vedo in Tolstoj questa capacità di non autoingannarsi. Era tosto con se stesso. Noi siamo sempre un po’ tentati dall’autoinganno. Ci mettiamo davanti a uno specchio e ci diciamo: beh, insomma, non sei neanche brutto...».
E la malattia rende la tentazione ancora più insidiosa?
«Sì. Sì. Però attenzione: la morte non è la fine. Perché il destino dell’uomo è nell’eternità. Andai a trovare Tonino Guerra a Sant’Arcangelo di Romagna quando stava davvero molto male. C’era stata una grande nevicata. Pareva quella di Amarcord . Entrai, lui era girato verso la finestra. La moglie gli fa: “Tonino, c’è Ermanno”. Lui, sofferente, manco si gira. “Aaah... Aaah...”. Entra la fisioterapista che doveva fargli un massaggio alle gambe. Esco. Quando rientro lo trovo seduto con la schiena appoggiata alla testiera del letto: “Ciao, come va?”. E cominciamo a parlare: “Ti ricordi quella volta...”. A un certo momento dice: “Non hai idea di quante storie bellissime mi ha raccontato Andrej Tarkovskij! Quando torni la prossima volta te le racconto”. Dopo tre ore era morto. Cosa voglio dire? Non c’è istante di vita che non abbia un significato. Figurati l’ultimo degli istanti! È la summa di tutta la tua vita. Un istante. Un battito di palpebre. E c’è dentro tutta la tua vita. L’uomo è immagine di Dio e anche Dio è immagine dell’uomo. Che ha una capacità smisurata di essere l’infinito. Tu prova a pensare, in questo momento, dov’è il confine del cosmo. Anche per la scienza è in continua espansione. Immagina che distanza enorme! Eppure fai: tac! E sei là. La velocità della luce? Ma è la velocità del pensiero il grande dono di Dio!».
Quindi?
«Quindi non dobbiamo trascurare questa potenzialità. Dobbiamo viverla. Sia in termini di scansione di tempo, sia in termini di possesso dell’infinito. Perché basta che tu ti immagini di essere ai confini del cosmo e ci sei. Se non è questa l’immagine di Dio! “Farò l’uomo a mia immagine e somiglianza”. Siamo stati troppo distratti da piccole questioni che alla fine non hanno importanza».
Rimpianti?
«Quando si vive la condizione umana, anche se in qualche modo illuminati dalla condizione divina, questa condizione umana a volte ti fa commettere degli errori. È la condizione umana. L’importante è riconoscere gli errori. E capire che quella cosa poteva andare diversamente, se non fossimo stati distratti».
È un’idea degli errori che pare figlia de «La leggenda del santo bevitore» o delle parole di papa Francesco quando dice che «Dio non si stanca mai di perdonare».
«Certo. Prova a scandire la parola perdono in due: “per dono”. Il perdono non è un atto di contrizione. È Dio che proprio in questo si rivela: ogni volta che cadi in errore io sono lì, pronto “per donarti” la pace tra noi».
Tornando a Tolstoj...
«Bisogna sempre godere non solo degli ultimi istanti, ma di tutti gli istanti. Una delle frasi che dice Tolstoj quando ormai è alla fine è “io amo tutti. Tutti amo”».
È così che ti senti, oggi? Ami tutti?
«Quando dici “tutti” intendi una dimensione percepibile dalla razionalità. Bisognerebbe trovare una parola che voglia dire tutti ma che non corrisponda a un numero. Quel “tutti” lì deve essere l’umanità, la passata, la presente, la futura».
Par di capire che, nonostante tutto, questo sia un momento per te felice.
«Sì. È così. Sono sereno... Come finisce La leggenda del santo bevitore ? “Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella”. A tutti gli ubriaconi. Coloro che sono fuori dalle regole. Dai conformismi. L’ubriaco... Cosa fa Noè dopo avere stabilito la nuova alleanza con Dio? Pianta la vigna e prende la prima grande sbronza della storia dell’umanità. È così ubriaco che danza nudo. È amore e follia. Che ubriaca. Cosa vuol dire “prendere una cotta”? Non c’è niente di razionale, in una cotta. È un sentimento dirompente. Senza tregua. Ecco, io vivo questo momento così».
C’è quindi una riscoperta di Dio nonostante tu insista spesso sul «non» sentirti cattolico?
«La cosa bella di Dio è che si nasconde per farsi cercare. Perché? Perché Dio è tutto. “Ovunque tu mi cercherai io sarò”. C’è un detto fenicio, di duemila anni prima di Cristo: “Spezza un legno, solleva una pietra e io vi sarò dentro”. In ogni cosa “lui” si nasconde e tu devi avere quella capacità di scovarlo come i neri hanno la capacità, guardando un oggetto, di cercare ciò che quell’oggetto contiene come anima».
Più ancora gli aborigeni australiani, forse...
«Certo. L’anima delle cose. Mentre invece il bianco europeo si chiede: questa cosa quanto può valere? Uno che ragiona così non avrà mai l’incontro con l’anima del mondo. Creiamo la nostra infelicità stupidamente».
Insomma...
«Mi sento bene. Bene. Anche se sono stato aggredito da questo male in maniera subdola. Nei primi momenti ho anche reagito: ma perché, porca miseria... Poi, in ogni situazione c’è qualcosa che val la pena di vivere».
Anche in questi frangenti...
«Sì. Vale la pena».
Nonostante le cannule, le flebo, i cateteri...
«Hai presente il San Sebastiano di Antonello da Messina con tutte le frecce infilzate nel corpo? Ecco. Ogni momento una puntura. Una pastiglia. Eppure vale la pena. Avverti che tutto questo non è somministrarti una medicina ma mostrarti un atto d’amore. Tutto dipende da noi, dal mistero che contiene ogni cosa: “Spezza un ramo, solleva una pietra...”».
E tu ti riconosci intorno questo affetto delle persone?
«Eh, sì. Ma è impegnativo. Impegnativo. Fatico a fare da solo le cose un tempo più banali... Allora devo chiamare: Loredana! Mi diceva il cardinale Ravasi...»
Lo senti spesso?
«È un po’ che non ci sentiamo. Ho il pudore di dire che sto poco bene. Mi dice Ravasi che il rosario è stato fatto dalle donne. Ave Maria, ave Maria, ave Maria... Mi chiedevo: perché questo bisogno di dire dieci Ave Maria? Ne basterebbe una! No: perché ogni volta che lo ripeti devi trovarci un significato nuovo. Se no sei un pappagallo. Può essere, il rosario, una cosa per sonnolenti o un esercizio per vivere la stessa cosa con un senso nuovo. E come quando dici: ti amo. Se lo ripeti come un pappagallo ne perdi il senso. Se lo dici ogni volta riscoprendo una nuova emozione... È una possibilità divina che ci è data...».
«Torneranno i prati» sarà al festival di Berlino tra i grandi eventi.
«Non credo che riuscirò ad andarci. Non è possibile. Ormai sono lì come Tonino Guerra, pettinato, con la schiena sulla testata del letto a ricevere gli amici. Ti dico, Tonino era lì lì per andarsene. Eppure...».
È una questione di prospettiva.
«Sì, di prospettiva. Sedersi, pettinarsi, vedere chi ti vuole bene, “ti ricordi...”. Cambia la prospettiva, cambia tutto. La mia amica Loriana della trattoria dove andavo sempre, donna straordinaria, quando ha saputo che non potevo essere da lei per l’ultimo dell’anno si è messa a piangere e ha detto: “Allora gli mando a casa la gallina bollita”. Mi piace, la gallina bollita».
Ricordi d’infanzia?
«La gallina dev’essere gallina. L’assaggio e sorseggio il brodo. Da ultimo gli aggiungo un po’ di vino rosso. Come nella Bassa padana. Gli toglie leggermente quella sensazione di grasso. Pensa alle donne di una volta, poverette, che dovevano mettere insieme qualcosa da mangiare. Si inventarono piatti straordinari. Pensa al pan cotto...».
È bellissima, nel tuo ultimo film, la scena del soldato che sa che sta per essere abbattuto dai cecchini e prima di uscire dalla trincea bacia un pezzo di pane e se lo infila sotto il pastrano, sul cuore...
«È la sacralità del cibo. In tutte le famiglie contadine. Perché la sacralità del cibo è capita soprattutto da coloro che producono il cibo. Vedono la zolla. La trattano. Piantano il seme. Quello cresce. Diventa pane. Se non è un miracolo di vita questo! L’uomo è potuto venire al mondo nell’evoluzione dopo che quattro graminacee hanno formato il frumento. Se non ci fosse stato il frumento non ci sarebbe stato l’uomo».
È da qui che ti viene quel rispetto per il pane che ti spinse a scrivere un articolo sul «Corriere» contro lo spreco di pane?
«Quasi non me lo ricordo, quell’articolo...».
Raccontavi che il tuo primo lavoro fu quello del panettiere: un chilo di pane per una notte passata a impastare e infornare...
«Eh, la memoria... Ci teniamo compagnia, io e la malattia. Adesso perderò i capelli. Poi torneranno, spero. Ma, come dicevo, non ho rifiuto di niente. C’è un momento in cui Tolstoj dice: “Forse sto per morire. O magari no”. È tutto relativo».
Ricordi Howard Marshall, quel miliardario novantenne che sposò la coniglietta di «Playboy»? Gli chiesero: cosa darebbe per aver sessant’anni di meno? Rispose: «Darei tutto per averne anche uno solo in meno».
«È così! Così! Mi raccontava Montanelli che una sera stava sul terrazzo di casa sua a Roma e aveva ospite Charlie Chaplin, già novantenne. A un certo punto arriva la figlia del grande Charlot con un po’ di amiche giovani e belle. Chiacchierano un po’, bru bru e infine questo sfarfallio di fanciulle se ne va. E Chaplin sospira: “Ah, avere dieci anni di meno...”».
Battuta straordinaria...
«Questo spumeggiare, improvviso, di felicità! Questi lampi di vita! Come aprire un Dom Pérignon. Qui sull’Altopiano di Asiago c’era un personaggio formidabile, il Baffo di Cesuna. Aveva, anche quando stava male, momenti di illuminata intelligenza. Un giorno sentenziò: “Fin che c’è vita c’è vacanza”».
Fu quello che fece affiggere i manifesti a lutto su se stesso?
«Lui! Proprio lui! Ce l’ho, quel necrologio. Loredana! Trovami il necrologio del Baffo di Cesuna! Te lo cito a memoria: “Non potendo partecipare personalmente al mio funerale...”. Oeh, stava per morire, eppure... Tutto questo corrisponde alla felicità dei bambini, che non quantificano mai. Vivono gioie e dolori, perché anche i bambini hanno dolori, senza configurarli dentro la necessità di avere delle risposte. Perché no, non ci sono risposte». 

fonte: Gian Antonio Stella, Corriere della Sera, 10 gennaio 2015

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