sabato 30 gennaio 2016

Stepchild o non stepchild: la posizione di Gaetano Quagliariello

Pubblichiamo l’intervento in Senato dell’onorevole Gaetano Quagliariello (IDEA – Identità e Azione) in merito alle pregiudiziali di costituzionalità sul ddl Cirinnà – 28 gennaio

Signor Presidente, colleghi senatori, la pregiudiziale di costituzionalità che ora brevemente illustrerò intende segnalare a beneficio dei lavori di quest’Aula uno dei vizi più gravi del disegno di legge in esame: vizio strutturale e dunque tale da inficiare la legittimità costituzionale dell’intero testo.

Mi riferisco al contrasto con l’articolo 29 della nostra Carta costituzionale: contrasto che è determinato palesemente per via dei molteplici, insistiti, ripetuti richiami che la disciplina delle unioni civili che il disegno di legge si prefigge di introdurre – peraltro limitatamente a coppie di conviventi dello stesso sesso – opera rispetto al Titolo VI, Libro I del codice civile, e dunque segnatamente al diritto matrimoniale e al diritto di famiglia.

Il tema è da un lato di un’evidenza schiacciante, dall’altro estremamente insidioso alla luce delle laceranti discussioni che investono aspetti particolarmente delicati del testo al nostro esame. Vediamo perché.

In questo senso, già la scelta opinabile e da noi fortemente contestata di riservare l’accesso all’istituto dell’unione civile alle sole coppie dello stesso sesso, e precluderlo alle coppie di sesso diverso, prova molto.

Nel senso che tale scelta, motivata solitamente con l’argomentazione per la quale le coppie eterosessuali hanno già la possibilità di accedere all’istituto del matrimonio, conferma la volontà di delineare non un istituto giuridico del tutto originale, come pure si è cercato di far credere, ma esattamente un surrogato dell’istituto matrimoniale.

Il tema va ben al di là della mera dimensione nominalistica, e per comprenderlo appare opportuno assumere come faro del nostro ragionamento da un lato il testo della Costituzione e la traccia del suo percorso evolutivo rimasta scolpita nei lavori dell’Assemblea costituente e, dall’altro, la nota sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 che, nel sollecitare il legislatore ad una regolamentazione giuridica delle unioni anche fra persone dello stesso sesso, fissava al contempo paletti non valicabili.

Il discrimine sta nella lettera e nello spirito dell’articolo 2 della nostra Carta costituzionale, al quale l’istituto dell’unione civile dovrebbe ancorarsi. Giova infatti ricordare che se nel progetto di Costituzione si faceva riferimento al riconoscimento dei diritti inviolabili degli (sottolineo «degli») individui e delle (sottolineo «delle») formazioni sociali ove si svolge la loro personalità, fu la convergente attività emendativa di Moro e Fanfani da un lato, e di Nilde Iotti e Amendola dall’altro, a consegnarci la formulazione scolpita nella Carta del ’47: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (…)». Con ciò, come ebbe a sottolineare Aldo Moro in sede di Assemblea costituente, si intendeva riconoscere i diritti essenziali di libertà alle formazioni sociali nelle quali si svolgono la dignità e la libertà dell’uomo, ma si individuava quest’ultimo – l’uomo, per l’appunto – come titolare di un diritto che trova una sua espressione nella formazione sociale.

uzionale ha sollecitato il legislatore ad intervenire, non a caso facendo riferimento a «una disciplina (…) finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia».
A noi pare invece che da questo solco si sia abbondantemente fuoriusciti, proponendo nel disegno di legge al nostro esame una disciplina giuridica che sostanzialmente ricade sotto l’orbita dell’articolo 29 e, dunque, si pone in contrasto con esso dal momento che è finalizzata a regolare fattispecie ad esso estranee.

È infatti la stessa Corte costituzionale a escludere in radice la possibilità di un’interpretazione estensiva dell’articolo 29. Non perché il dettato della Carta non possa essere interpretato alla luce del mutare dei fenomeni sociali, ma perché «detta interpretazione non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata». In caso contrario, da un’attività ermeneutica si scivolerebbe in un’attività di interpretazione creativa. Soprattutto, insuperabile appare il riferimento della Corte al «rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale».

Alla luce di tali considerazioni, colleghi senatori, è evidente come il tentativo di assoggettare l’istituto dell’unione civile alle norme codicistiche proprie del diritto matrimoniale, e dunque del diritto di famiglia, non solo compromette l’unicità della famiglia fondata sul matrimonio sancita dalla Costituzione, ma trasferisce in capo a una nuova e specifica formazione sociale, non orientata alla procreazione, una disciplina giuridica (quella, appunto, di cui al Titolo VI del Libro I del codice civile) finalizzata primariamente alla tutela della prole dalla quale discende l’interesse al riconoscimento pubblicistico.

Non sfugge peraltro l’insidia consapevolmente sottesa a tale operazione, che spiega anche per quale motivo ci si sia avventurati per la strada impervia di un disegno di legge sbagliato dal punto di vista costituzionale, laddove una normativa finalizzata a riconoscere e garantire i diritti dei conviventi, indipendentemente dalla natura sessuale della convivenza stessa, senza pretesa di assimilazione al diritto di famiglia, avrebbe incontrato l’immediato consenso di gran parte delle forze politiche rappresentate in quest’Aula. Avremmo approvato un testo all’unanimità.

La finalità che sottende all’impianto del cosiddetto disegno di legge Cirinnà, infatti, è quella di porre consapevolmente le premesse per l’attribuzione per via incidentale, in sede giurisprudenziale, di diritti ulteriori fin qui specificamente connessi all’istituto matrimoniale, e in particolare del diritto all’adozione.

Presidente, colleghi, da settimane ci si arrovella alla ricerca di espedienti che consentano di inserire nel testo di legge la cosiddetta stepchild adoption, magari sotto mentite spoglie, con ciò legittimando di fatto il ricorso a pratiche procreative in contrasto con le nostre leggi e forse anche con i fondamenti della nostra civiltà. Il fatto è che, anche laddove si dovesse espungere dal disegno di legge la norma diretta sull’adozione, ciò che esce dalla porta rientrerebbe inevitabilmente e presto dalla finestra, magari attraverso le Corti europee come già accaduto in altri Paesi del vecchio Continente.

La giurisprudenza europea è infatti sostanzialistica: lo si può chiamare unione civile, lo si può anche chiamare Pluto, lo si può chiamare come volete, ma quanto più un istituto nella sua sostanza giuridica si avvicina a quello matrimoniale, tanto più sarà considerato discriminatorio il mancato riconoscimento nella disciplina dell’istituto stesso di diritti connessi al matrimonio.

Insomma, stepchild o non stepchild, con un simil-matrimonio ci ritroveremo presto il diritto all’adozione, con tutto ciò che ne consegue in materia di pratiche genetiche.
È questa la ragione per la quale è stata così smaccatamente sfidata la legittimità costituzionale, sottoponendo all’esame di quest’Aula un testo in aperto contrasto con l’articolo 29 e con le sentenze della Corte. È questa la ragione per la quale offriamo la pregiudiziale appena illustrata alla riflessione dell’Assemblea e dei colleghi.




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