lunedì 19 novembre 2012

Il cavallino rampante e la mensa dei poveri

Con quella sua aria leggera e gentile, è finalmente disceso in campo LCdM. Ma non ci sono più retoriche capaci di tenere botta. Guardavo nel mio computer Montezemolo che parlava a Roma per una lista Monti e mi dicevo: carino, sì, ma dove stanno le idee sul paese? Non basta dire: siamo per bene, vogliamo ricostruire, Monti ci ha ridato prestigio in Europa, dobbiamo fare squadra e fare sistema, e poi mandare un pensierino alla Ferrari impegnata nel Gran Premio.
Berlusconi fece faville nel 1994 perché voleva abbassare la cresta dello stato, così diceva almeno, e così sperava di riuscire a fare, e intendeva promuovere un'idea di società fondata sul premio al merito e al lavoro e all'intrapresa individuale, meno tasse per tutti, un milione di posti di lavoro, e la parola libertà, dopo decenni di coesione consociazione e concertazione, issata sul pennone più alto. Direte: fatto poco. Va bene.
Ma la retorica fu vincente, influenzò l'intero agire politico, aveva radici internazionali rivoluzionarie (Reagan, Thatcher), rinnovò forme e contenuti, arrivò come messaggio e riplasmò il sistema a partire dal basso, dal consenso popolare.
I montezemoliani più Riccardi e il sindacalista Bonanni molto felice di essere in società con Bombassei e i gentlemen, a parte che le due figure di punta sono così strane a vedersi insieme (il cavallino rampante e la mensa dei poveri a Natale!), davano idea di una platea di bravi borghesi, molte scarpe nere e belle lucide, di faticoni dell'Italia "che rema", tuttora privi di una qualche consistente proposta esprimibile in discorso politico.
Monti fu un anno fa la nemesi di Berlusconi, ma non perché sia stato minimamente vendicativo, per un'altra ragione: il montismo raccoglie anche un'eredità del berlusconismo ma è il suo esatto opposto, si legittima dall'alto e dal punto di vista sovranazionale dei poteri di mercato, monetari, finanziari, bancari.
Alla gente Monti è andato bene per questo, perché non era figlio del consenso ma della necessità sovraordinata ai tumulti dell'epoca. Legittimarlo ora con una retorica politica popolare, che metta radici nell'Italia elettorale, nei suoi bisogni, nelle sue paure, nel suo stato d'animo, questo è un altro paio di maniche, questo fu quello che accadde con Berlusconi nel 1994.
Certe storie però sono irripetibili. Non è che ogni vent'anni si fa una discesa in campo e si costruisce una maggioranza popolare. Montezemolo e Riccardi possono forse strutturare una lobby centrista intelligente, con l'aiuto di professoroni e imprenditori, e possono riuscire a dare un senso a un programma legato alla continuità con il governo di Monti (vedo che Angelo Panebianco ne dubita, e capisco la sua perplessità).
Se risultassero federatori fortunati di forze moderate, rinvigorirebbero una rendita di posizione politica e magari, con una legge elettorale che li aiuti e un Monti un po' meno sulle sue e una dinamica elettorale non proprio pessima, potrebbero combinare qualcosa, ma non devono farsi illusioni: con la consumazione delle retoriche politiche del Novecento, e di quelle che volevano succedere ai vari naufragi, emozionare, scaldare, risvegliare il can che dorme dell'opinione popolare non è affare semplice.
Briatore fa il gradasso da Santoro, Berlusconi si spende a Milanello con le sue 72 flessioni al giorno, Vendola recita stornelli e Bersani si affida a Giovanni XXIII, questo offre il mercato della parola e dell'illusione politica e, a parte Renzi che ha quanto meno il vantaggio dell'età e del desiderio di farsi provare, il panorama è un tantino surreale.
Una volta un'assemblea di borghesi decisi a tutto poteva incutere timore reverenziale, ma oggi, epoca delle fondazioni, dei think tank, delle lunghe rincorse tattiche, dei teleprompter che rendono tutto così perfettamente lindo e artificiale, per scuotere l'Italia non si sa più che cosa sia necessario. La fantasia è esaurita, la verità introvabile.

Giuliano Ferrara, il Foglio

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