sabato 14 gennaio 2012

La dimensione comunitaria



Come tutti gli anni, domani a Caltagirone, nel 93esimo anniversario dell’appello “ai liberi e forti”, sarà ricordato sotto il profilo storico e politico il valore del messaggio di Luigi Sturzo. Il convegno promosso dal Partito democratico e dall’Associazione “I Popolari” quest’anno avrà come titolo “La Repubblica delle città”, allo scopo evidente di conciliare l’autonomismo sturziano con l’idea di stato repubblicano.

Com’è noto per Sturzo il valore delle autonomie locali coincide con l’esigenza di riconoscere (viene alla mente l’articolo 5 della nostra Costituzione) la soggettività primaria della comunità: si parte dall’uomo, poi si passa alle sue relazioni primarie e, dunque, alla famiglia e alla comunità locale, cioè a quell’insieme di persone relazionate “naturalmente” l’una con l’altra, partendo dai rapporti “al di qua della legge” per proiettarsi a quelli disciplinati dalla legge.

Così al soggetto primario “uomo” si aggiunge il soggetto primario “comunità”, cioè l’autonomia locale, la città. Il consorzio delle città darà vita alla dimensione provinciale, quello delle province alla regione, quello delle regioni allo stato nazionale, quello degli stati nazionali alla comunità sopranazionale.

Non si può comprendere il pensiero di Sturzo se non partendo da questa sua idea di uno stato che segue la società, al punto da definire «lo stato come forma organizzativa della società». 

Pensavo a Sturzo ascoltando il presidente Mario Monti il 7 gennaio scorso a Reggio Emilia quando diceva, a proposito dell’Europa, che personalmente avrebbe preferito la conservazione della denominazione precedente, Comunità anziché Unione. Il processo di globalizzazione comporta infatti l’esigenza di riscoprire la dimensione comunitaria, non solo a livello istituzionale, ma prima ancora a livello sociale.

Non è un caso che nel dibattito filosofico e politologico nord americano sia stato riscoperto il valore del comunitarismo, proprio perché la communitas rende l’idea di un luogo concreto, naturale e perciò “caldo”, fatto di relazioni corte, che sanno veicolare sentimenti di solidarietà, di condivisione e di reciproca protezione, di “scambio di sguardi” come diceva Martin Buber. 

Sturzo all’inizio del Novecento quando proponeva il suo pensiero sociologico e politico fortemente intriso di personalismo e comunitarismo aveva conosciuto l’apporto di Tönnies (Comunità e società, 1887), di Durkheim (La divisione del lavoro, 1893), di Proudhon (Soluzione del problema sociale, 1848), ed era entrato in un dialogo ideale che coltiverà in tutta la prima metà del secolo con Weber (Economia e società, 1922), Plessner (I limiti della comunità, 1924), Kelsen (Socialismo e stato, 1923), Buber (Il principio dialogico ed altri saggi, 1935 e Il problema dell’uomo 1942), Maritain (Umanesimo integrale, 1936) e Mounier (Rivoluzione personalista e comunitaria, 1934).

È importante conoscere gli autori che hanno contribuito a formare il pensiero di Sturzo perché sono gli stessi che formeranno la cultura democratica di buona parte dei nostri padri costituenti. Il loro merito non consistette solo nell’“importare” quel pensiero ma nel trasformarlo e adeguarlo alle esigenze storiche del nostro paese. Erano soprattutto i costituenti cattolici, più liberi di altri nell’aprirsi al nuovo e più capaci di altri nel trasformarlo in fatti, istituzioni, costume civile, senso comune.

La importante attualità del pensiero sturziano è accentuata dalla necessità che oggi abbiamo di riscoprire il valore della comunità. Sappiamo che il sostantivo latino communitas ha come corrispondente greco koinonia (comunanza, partecipazione) e la aristotelica koinonia politikè, tradotta in latino societas politica, diventa infatti in italiano società politica, ma ancor meglio comunità.

Secondo Roberto Esposito (Communitas, 1998), communitas deriva dall’unione della preposizione cum col sostantivo munus (che significa al tempo stesso dono e dovere), e la communitas risulta quindi dall’insieme di persone vincolate da obbligazioni reciproche, dal debito di riconoscenza che unisce l’una con l’altra. Per Esposito il contrario della communitas è l’immunitas cioè l’emancipazione dall’obbligo di gratitudine derivato dall’accettazione di un dono, e legge non a caso la modernità in chiave di “progetto immunitario”, un progetto che «non si rivolge soltanto contro gli specifici munera – oneri, vincoli, prestazioni gratuite – che gravano sugli uomini...ma contro la stessa legge della loro convivenza associata.

La gratitudine che sollecita il dono non è più sostenibile dall’individuo moderno che assegna ad ogni prestazione il suo specifico prezzo». A partire da Hobbes poi, al dono subentra il contratto e la comunità cede il posto allo stato. Potremmo dire che lo sforzo di Sturzo è stato quello di evitare l’alternativa comunità-stato, dono-contratto, e di trovare anzi un punto di sintesi: ecco cos’è “la Repubblica delle città”.

L’intuizione fondamentale di Buber (il filosofo, teologo, esegeta ebreo, noto soprattutto per i suoi studi sul chassidismo) sarà quello di individuare la comunità come il luogo in cui si incontrano l’io e il tu, «la vera comunità non nasce dal semplice fatto che le persone nutrono sentimenti reciproci ma dal fatto che tutti siano in reciproca relazione vivente con un centro vivente, e che siano tra loro in una vivente relazione reciproca».

È evidente che l’inserimento del “centro vivente” introduce nella comunità un elemento religioso importante, che non la limita, ma la rafforza e le dà senso. Questo principio viene di fatto ripreso da Maritain e da Mounier, sia pure con accentuazioni diverse, ma entrambi preoccupati di precisare che tale dimensione religiosa non contraddice il principio di laicità e di riconoscimento del valore ontologico delle realtà terrene.

Per Mounier in particolare «è impossibile arrivare alla comunità senza la persona», anzi, «se è vero che solo le persone creano comunità è anche vero che solo attraverso la comunità – la relazione di amore che, svelando il volto dell’altro, aiuta a capire il nostro – si diventa persone».

E, aggiunge ancora Mounier, «il noi segue sempre dall’io, o per meglio dire, poiché non si costituiscono uno indipendentemente dall’altro, il noi deriva dall’io e non potrebbe precederlo».

Non è difficile cogliere in questo gioco di precedenze fra l’io e il noi una precisa cultura democratica e più in generale dello stato. Quella appunto che ci ha lasciato Sturzo.

fonte: Pierluigi Castagnetti, Europa, 14 gennaio 2012
(illustrazione di Giancarlo Montelli)

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