mercoledì 4 gennaio 2012

L'emergenza giuridico-amministrativa

C'è qualche economista in grado di calcolare quanti punti del Pil, e da quanto tempo, si mangia la nostra emergenza più importante, ma anche più misconosciuta di tutte, ossia quella giuridico-amministrativa? C'è qualcuno che ha voglia di riflettere su quanto costi al Paese l'uso patologico che facciamo delle norme amministrative?
Prendete il caso degli appalti pubblici, in qualunque settore. È vero o no che la complessità e l'ambiguità delle norme che li governano è tale che l'uso dei ricorsi è diventato la regola anziché, come dovrebbe essere, l'eccezione? E quanto costa alla collettività, in denaro e tempo, questa utilizzazione smodata del «ricorso ai ricorsi»?
Non c'è ambito in cui un cattivo uso del diritto non produca danni. Il dott. Antonio Pileggi, funzionario di un Comune della provincia di Pistoia, mi scrive: «Nel mio ufficio ho un faldone soltanto di ciò che è stato scritto e detto, negli ultimi mesi, su come calcolare il costo del personale negli enti locali, così da rispettare il limite del quaranta per cento sulla spesa corrente, con il rincorrersi e il contraddirsi dei pareri e delle interpretazioni, a partire dalla Corte dei Conti. Nell'ultimo anno ho acquistato tre versioni "aggiornate" del Codice dei Contratti, testo unico ormai modificato quasi mensilmente». E ancora: «Chi gestisce il bilancio di un Comune si trova annualmente di fronte ad almeno settanta adempimenti di rito ed imposti da organi e obblighi esterni. Fare una gara d'appalto significa seguire pedissequamente una serie di passaggi codificati alla lettera e, siccome le lettere non sono mai chiare, significa acquisire pareri, esplorare precedenti, richiedere chiarimenti. La stessa riforma Brunetta che avrebbe dovuto infondere efficienza e merito, ha messo in moto una Commissione (...) che sta producendo circolari e pareri a ripetizione, aggiungendo carta e commi».
C'è forse qualche ambito, uno qualunque, in cui opera lo Stato che non sia nella stessa situazione? Una immensa quantità di tempo e di denaro sprecati è il risultato di un sistema amministrativo fondato sull'incertezza del diritto, sulla moltiplicazione delle circolari interpretative e, non ultimo, su quella particolare forma di discrezionalità e di arbitrio che si maschera da «atto giuridicamente dovuto».
All'emergenza amministrativa hanno concorso in tanti. C'è certamente la responsabilità di una classe politica che, facendo compromessi al ribasso e accontentando ogni possibile interesse, grande o piccolo, produce leggi astruse. Ma ci sono anche molte altre responsabilità che il Paese ignora o finge di ignorare. Come quelle dell'alta burocrazia e degli organi della giustizia amministrativa che, interpretando le norme, aggiungono astruseria ad astruseria. Come quelle dei consulenti giuridici (dei politici e dei burocrati). O quelle delle facoltà di Giurisprudenza che formano specialisti di diritto del tutto ignari dell'impatto sociale e dei costi economici legati alla produzione e alla applicazione di norme giuridiche.
Il problema si risolve con qualche «riforma»? Ci vorrebbe la riforma dei cervelli. Per esempio, quasi ogni burocrate e magistrato di questo Paese agisce partendo dall'aberrante presupposto che tutto ciò che non è esplicitamente permesso sia vietato. La Costituzione non lo prevede in nessun modo ma le prassi amministrative e giudiziarie - le uniche che contano nella vita di ciascuno di noi - sono ispirate proprio a quel principio liberticida.
Che cosa sta dietro a una produzione giuridica selvaggia che non conosce soste, crisi o recessioni e a questo uso distorto del diritto? Oscuri interessi? Qualche volta. Ma più raramente di quanto pensino quei nostri concittadini che vedono complotti ovunque. Il denominatore comune è dato dal fatto che chiunque (amministratore, giudice amministrativo, eccetera) che interpreta o applica la norma ha, nella schiacciante maggioranza dei casi, il problema di scegliere l'interpretazione che più lo tuteli sul piano personale, che lo renda più inattaccabile nelle sfide quotidiane della «politica burocratica», della competizione all'interno delle strutture statali. «Coprirsi le spalle» è la regola d'oro di chiunque operi nell'amministrazione. Per questo, è più sicuro assumere che sia vietato tutto ciò che non è esplicitamente permesso. Per questo, è necessario ricorrere a forme esasperate di formalismo nell'interpretazione delle norme senza preoccuparsi delle conseguenze sociali. Per questo, si deve nascondere la discrezionalità (che c'è sempre, inevitabilmente) negandola, travestendola, mediante l'uso di cavilli, da applicazione letterale della legge.
«Coprirsi le spalle» è la regola da seguire dove i rapporti sono improntati alla sfiducia reciproca. E così si tocca il cuore della questione. Le società che crescono, che si sviluppano, che allargano la torta della ricchezza individuale e collettiva, sono, in Occidente almeno, le società in cui c'è una prevalenza di fiducia, anziché di sfiducia, nei rapporti interpersonali, nelle relazioni fra cittadini e fra cittadini e amministrazione statale. Quanto più ampio è il capitale di fiducia sociale disponibile, tanto minore sarà il ricorso alla norma giuridica, al diritto codificato, per regolare e controllare i rapporti sociali. Quando invece la fiducia sociale scarseggia o non c'è, essa dovrà essere surrogata da controlli burocratici intrusivi e dalla continua produzione di norme scritte.
Le società che sperimentano assenza di crescita o declino economico sono sempre oberate da una sfiducia generalizzata e asfissiate da norme giuridiche complicate e barocche. Il cane si morde la coda. La scarsità di fiducia provoca una produzione incontrollabile di norme e un uso perverso del diritto ma, a sua volta, l'uso perverso del diritto alimenta il sospetto, moltiplica i conflitti, impedisce che si ricostituisca un capitale di fiducia diffusa. Se si vuole tornare a crescere, bisogna spezzare il circolo vizioso.

fonte: Angelo Panebianco, "La certezza degli abusi", Corriere della Sera, 3 gennaio 2012

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