sabato 21 gennaio 2012

Serve una nuova Camaldoli per rilanciare l'idea di bene comune

Tra i principi ispiratori del Codice di Camaldoli vi era l'idea di uno Stato inteso come garante e promotore del bene comune. Oggi ci siamo dimenticati di questa finalità e ci siamo dimenticati dello Stato, che molti vorrebbero ridotto a mero fascio di residuali funzioni fiscali e amministrative. Ci siamo dimenticati, soprattutto, del "bene comune". «Il fatto — spiega Valori — è che i cattolici e il loro Partito Popolare non sono mai stati del tutto ai margini della politica italiana. Basta intendersi su cosa si definisce per "politica". II movimento laureati, la rete dell'Azione Cattolica, il magistero lontano ma sempre vigile di don Luigi Sturzo, che lega il cattolicesimo non al liberalismo ma a un progetto completo di riforma dello Stato e dell'economia italiane. Qui, l'influsso sui cattolici popolari è il personalismo francese di Mounier, l'esperienza  di Bernanos, l'accettazione dei diritti dell'uomo in funzione di una teologia politica che riconosce alla Chiesa il diritto di operare, come tale, nella città dell'Uomo, per dirla con Sant'Agostino. Centralità della persona, accettazione della legge dello Stato se coincide con il retto sentire e la libertà di tutti gli uomini». «Il bene comune — riprende — nel codice di Camaldoli del 1943, è il fine dello Stato, che non può sostituirsi ai singoli, il mito del"Leviatano" di Hobbes, e che comunque riguarda le condizioni esterne necessarie a tutti i cittadini per lo sviluppo delle loro qualità e dei loro "uffici", per dirla con il linguaggio quasi ciceroniano di Pio XII. Oggi c'è davvero bisogno di questa filosofia dei cattolici democratici nel dibattito politico e culturale italiano e europeo». «Gli Stati — spiega ancora — sono diventati tutti più deboli e incapaci, spesso, di proteggere e sostenere il bene comune, a meno di non"chiedere l'anima"ai loro cittadini, e probabilmente la vera sfida sarà, per i cattolici e per tutti i democratici di cultura liberale, impostare una teoria e una prassi del"bene comune" al tempo degli hedge funds, della globalizzazione finanziaria, dell'impoverimento di massa e del trasferimento di gran parte del baricentro manifatturiero e, poi, finanziario, dal centro euroamericano ai Paesi in Via di Sviluppo, dove la cultura del bene comune, per motivi storici e ideologici, non è particolarmente diffusa. Globalizzare le idee dopo aver universalizzato la finanza, ecco la sfida per una ipotetica"nuova Camaldoli"». 

Dignità, eguaglianza, solidarietà della persona umana: ecco altri principi ispiratori di Camaldoli. Oggi che molti sembrano richiamarsi, spesso a sproposito, all'esperienza del '43, come crede si possa ricollocare la persona nella centralità che le compete sulla scena umana? «La persona - dice Valori - nella filosofia politica dei cattolici, soprattutto nel gruppo dei filosofi legati a Mounier è irriducibile non solo allo Stato, ma anche alla comunità e al gruppo. Viene in mente il concetto heideggeriano di "essere gettati nel mondo", una relazione che implica l'unicità non solo della persona fisica, ma anche della sua sub stantia morale e spirituale. Uscire dal soggettivismo capitalista era il primo fine dei collaboratori di Mounier, poiché il gruppo di Esprit vedeva nel concetto borghese di persona l'atomismo del mercato, l'incapacità di creare una teoria dello Stato, il bellum omnium contra omnes che può distruggere non solo ciò che è "superato" nell'economia, secondo il modello di Schumpeter, ma anche la storia e la morale profonda dei popoli. Per Mounier, il capitalismo"faceva troppo presto", accelerava sul breve periodo trasformazioni che avrebbero necessitato di più tempo; mentre il comunismo, che pure, è bene notarlo, ha solo con Lenin una vera e propria "teoria dello Stato" sia pure nel progetto della sua estinzione finale nella comunità degli eguali, distrugge la persona invisibile sul fasullo altare della persona visibile, dei suoi"bisogni", della sua mera sopravvivenza che, spesso, non viene nemmeno garantita dal bolscevismo che si fa stato e economia.
I cattolici hanno, proprio con il personalismo, una teoria dello Stato (il bene comune e ciò che lo rende efficace) e una teoria della rappresentanza politica. Si ricordi che la borghesia, in Italia e in Europa, cade sotto il tallone di acciaio dei totalitarismi fascisti perché non ha partiti organizzati, ma solo ottocenteschi comitati elettorali, mentre il proletariato organizzato dai comunisti crea un partito per la sola finalità del"rovesciamento dello stato di cose presenti", per usare la formula di Marx e di Engels». II concetto di persona del cattolicesimo politico «è dunque innovativo, coerente con la nuova "società delle masse" e con la loro nazionalizzazione, e soprattutto con un corretto rapporto, che vale anche per i non credenti, tra soggetto e stato. Oggi la situazione è molto più complessa, poiché la persona (e la sua dignità, con i suoi diritti inalienabili) è divenuta, grazie alle ideologie del postmoderno, un semplice fascio di istinti o una "macchina desiderante", per usare una vecchia formula di Deleuze. Ma, se questo fosse vero, allora gli istinti, che sono sostanzialmente eguali in ognuno, non definiscono la persona, e non vi è nessuna derivazione logica tra titolarità di una pulsione desiderante e la dignità e la libertà di chi desidera la sua realizzazione spirituale e materiale. Una contraddizione logica che si risolve con il paradosso di Tertulliano: la Fede. E questo vale anche per i non credenti, mentre una cultura del corpo e della istintualità pura è distruttiva, lo stiamo già vedendo, non solo della società ma dei singoli, concreti esseri umani. Anche qui, la Chiesa è chiamata a formulare una filosofia politica universale che sazi la voglia non di semplici "valori" da proclamare, ma di pratiche sociali da mettere in atto. E la questione non riguarda solo la pur importantissima carità». 
Camaldoli fu prassi, prova di pensiero, ma fu anche capacità di dialogo e forza di movimento. Possiamo realisticamente pensare che tutto questo — movimento, dialogo, prassi, azione — possa guidare un nuovo risorgimento culturale? «Certamente. Senza il "codice di Camaldoli" non vi sarebbe stata la Costituzione repubblicana, e non dico questa costituzione, ma una Carta Fondamentale italiana e repubblicana qualsivoglia. La rete dell'Azione Cattolica, che il regime fascista teme e reprime ma che non può del tutto eliminare, la capacità da parte del Papato di parlare agli USA, con lo stretto rapporto tra Pio XII e l'ambasciatore personale Myron Taylor, il sostegno del ricco (culturalmente) cattolicesimo francese, che ha vissuto la Rivoluzione del 1789 e il capitalismo"massonico", sono tutti segni del fatto che erano i cattolici democratici a sostenere lo Stato nazionale da ricostruire. Non i laici, minoritari anche nella borghesia liberale, e Benedetto Croce, sapientemente, parlerà del "non possiamo non dirci cristiani", in quegli anni; non i comunisti di Togliatti, che identificano correttamente la DC come il vero antemurale sociale e politico, non solo strategico e internazionale, alla loro presa del potere in Italia, che Togliatti si illuderà sempre di compiere aggregando parte dei cattolici di sinistra, non certo la Monarchia che era fuggita e il socialismo, stretto tra una alleanza con il PCI e i primi tentativi di una alleanza modernizzatrice con i cattolici democratici». 
Ma oggi è possibile questa nuova rinascita culturale, ripensando il "Codice di Camaldoli"? «Certamente. Se mi si consente una serie di suggerimenti, un nuovo "Codice" camaldolese potrebbe partire dalla nuova teoria della "persona": non più titolare di semplici diritti formali, ma capace di elaborarne di nuovi all'interno di una libera comunità. Occorrerà poi che la Chiesa e i cattolici più avvertiti utilizzino il fatto che il Papato è cattolico, ovvero universale, per ricostruire una rete di diritti tra mondo sviluppato, terzo mondo e Paesi in Via di sviluppo. Sul piano politico-culturale, tanto maggiore il tasso di sviluppo, tanto maggiore, nel vecchio"terzo mondo", il tasso di nazionalismo e di divario crescente tra ricchi e poveri. Si pensi alla Cina, o al Brasile post-Lula. Difendere l'universalità dei valori umani, difendere un nuovo diritto del lavoro nell'era della globalizzazione, senza creare rendite ma anche senza distruggere vite e dignità dei popoli, tutelare la natura, come spesso sostiene, con la sua consueta capacità di precorrere i tempi, Papa Benedetto XVI, sono tutti elementi di una Nuova Camaldoli che non potrà non essere globale, come universali sono le sfide che anche l'Italia si trova a fronteggiare in questi anni».
Un intervento pubblico nell'economia sarebbe auspicabile, proprio ora che è ripreso il ritornello delle "privatizzazioni"? «Bisogna chiedersi cosa vuol dire"intervento pubblico". Pasquale Saraceno o Ezio Vanoni, di fronte a una questione come questa, si sarebbero domandati, come accadde a Paronetto all'Iri, cos'è davvero pubblico e cosa intrinsecamente privato. Il principio di una buona gestione va ben oltre la titolarità della proprietà delle imprese, e probabilmente la questione di una nuova teorica dell'intervento pubblico nell'economia riguarda un vecchio termine caro agli economisti di Camaldoli: la programmazione. Noi abbiamo a che fare, oggi con un capitalismo che "crea valore per gli azionisti", ma senza definire il tempo della creazione e della durata di tale valore. Una economia "mordi e fuggi" che sta distruggendo sé stessa. Sarebbe necessario, e anche questo è nello spirito della carta camaldolese, un dibattito globale, nelle sedi opportune, su chi produrrà cosa nei prossimi dieci anni. I "trenta gloriosi" anni che vanno dalla prima ricostruzione economica postbellica degli anni '50 alla fine delle parità fisse definita a Bretton Woods, che gli USA utilizzarono per far pagare agli europei la loro superinflazione da guerra del Vietnam in parallelo con la costruzione della"Great Society"di Lyndon Johnson, sono finiti. Ma non affatto finita la necessità di una analisi concordata della divisione mondiale del lavoro. La Cina vuol fare la manifattura del globo? Benissimo, ma l'UE farà la comunità delle infrastrutture, che venderà a USA, Cina, Russia, India. Gli USA terranno le tecnologie dell'innovazione? Ottima idea, ma eviteranno di entrare nel mercato delle tecnologie fini per il consumo privato. Se si razionalizza la divisione mondiale del lavoro, si aumenta la redditività media degli investimenti, che acquisiscono effetti di sinergia ambientale, e il tutto dovrebbe essere gestito, sempre nello spirito di Camaldoli, da un nuovo accordo tra le monete. 
Noi abbiamo creato una gioventù del consumo cospicuo, evidente, come quello che Veblen leggeva nei capitalisti USA, che è ormai resecata dalla produzione, manuale come intellettuale. La persona è un tutto, è il concetto di Mounier, e il consumismo giovanile ha distrutto la stessa identità di questa dimensione della vita. Cosa fare, praticamente? Le linee del ministro attuale del Welfare Fornero sono razionali, ma occorre una nuova prospettiva culturale e spirituale: si lavora e si studia per il bene comune, dove si realizza la mia persona, non il mio soggetto. La cooperazione, in questo senso, potrebbe dare alcune risposte: cooperative di giovani, fiscalmente ben trattate, e che possono accedere a finanziamenti legati ad una specifica entità finanziaria, pubblico-privata, una sorta di Cassa Depositi e Prestiti della società».
Quali crede possano o debbano essere, in sintesi, i principi ispiratori di una politica ispirata all'idea di bene comune? «Il bene comune è la libertà del soggetto che si confronta, ogni giorno, con la libertà di altri uomini e donne. Il bene comune, oggi, cos'è? È la ricerca di un punto di contatto reale tra i vari gruppi sociali, che la degenerazione postmoderna del capitalismo ha separato. Gli imprenditori e i lavoratori, i giovani e i vecchi, i poveri e i ricchi, i laici e i cattolici, oggi siamo abituati, purtroppo, ad una società dove ogni gruppo si immagina di giocare, come dicono gli economisti, un"gioco a somma zero" nei confronti degli altri, di tutti gli altri. È un errore prima spirituale e culturale, ma è anche un errore tecnico e economico. Ogni attività sociale dovrebbe essere, da questo punto di vista, insieme più libera e più socializzata, ma dislocando diversamente socialismo e liberalismo. Un grande e dimenticato economista italiano, Enrico Barone, nel suo "Il ministro della produzione nello stato collettivista", del 1908, sosteneva che era possibile, in astratto, risolvere le equazioni classiche dello sviluppo economico, svolgendo"un lavoro immane", anche in una economia collettivista. Noi non amiamo nessun tipo di collettivismo, ma cercare di razionalizzare le comunità (e qui ci ricordiamo dello straordinario esempio di Adriano Olivetti) con criteri di libero gioco tra di loro, e non necessariamente tra aziende private o pubbliche, ma tra libere comunità, è, ancora questa, una sfida della Camaldoli prossima ventura «Dobbiamo ripartire dal bene comune, dalla persona non più titolare di semplici diritti formali, ma capace di elaborarne di nuovi».  

Vincenzo Faccioli Pintozzi, Liberal 20 gennaio 2012

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