venerdì 6 marzo 2015

Il vocabolario al femminile

BOLDRINI VUOLE IL VOCABOLARIO AL FEMMINILE
Alessandra Longo per “la Repubblica”

Mai più «signor presidente» ma «signora presidente; mai più «signor ministro» ma «signora ministro»; mai più «signor capogruppo» ma «signora capogruppo». La presidente della Camera Laura Boldrini scrive una lettera ai deputati, al «caro collega» e «alla cara collega», in cui invita, ancora una volta, ma in maniera più perentoria, ad usare la declinazione al femminile.

Per Boldrini è un tema sensibile, non un capriccio: «Tra i tanti diritti, a cominciare dal lavoro che manca, a un welfare degno di questo nome, le donne hanno anche il diritto ad essere definite rispetto al genere di appartenenza, di non essere espropriate della loro identità quando ricoprono dei ruoli che storicamente sono stati riservati agli uomini e dunque declinati al maschile».

L’appello a voltare pagina è «rappresentato anche alla segretaria generale della Camera», responsabile della pubblicazione dei resoconti parlamentari. Resoconti che sovente violano il principio della parità di gender. Alla vigilia dell’8 marzo, approfittando di un convegno sul linguaggio di genere, la battaglia della presidente si riaccende, con la massima approvazione da parte della signora vicepresidente del Senato Valeria Fedeli che annuncia intenzioni analoghe a Palazzo Madama.

Ereditato il posto di Gianfranco Fini, Laura Boldrini fece cambiare subito la carta intestata (era scritto: il presidente). Questione vecchia, obiettivo alto: «Adeguare il linguaggio parlamentare al ruolo istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne». Dal web arrivano ora proteste e insulti: «Certo che hai un sacco di lavoro da fare per pensare a queste s.».

E ancora: «Brava e intelligenta!». Lei tira avanti, abituata alla «misoginia» dei social di cui è stata più volte bersaglio. Il termine al femminile sarebbe cacofonico? «Affermazione da smontare — dice Boldrini — la lingua evolve con la società. E’ brutto dire la sindaca, l’assessora ma va benissimo dire la maestra, la contadina... smontiamola questa cosa!».

Una parte del mondo femminile è prudente forse perché ministro evoca più attributi metaforici di ministra, forse perché secoli di estromissione dai ruoli di vertice hanno reso le donne «conservatrici nella lingua». Andando a spulciare i resoconti parlamentari, ci imbattiamo negli interventi di Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo. Si rivolgono tutte a Boldrini con un tuonante «signor presidente!».

Mara Carfagna è in linea: «Non mi sono mai offesa quando mi chiamavano ministro. Il linguaggio è importante ma le priorità sono altre». «A quelli che mi dicono che “i problemi sono altri”, che “non è questo è il momento” — ribatte ferma la presidente — rispondo che tutto si tiene: l’immagine, la parola, il riconoscimento delle donne e il loro ruolo nella società. Se rimandiamo sempre, il momento non viene mai».

Quindi tutti/tutte in riga. L’Accademia della Crusca sembra appoggiare la “necessaria” rivoluzione. Leggete l’analisi di Cecilia Robustelli sull’«androcentrismo» linguistico. L’ostilità al nuovo? Nasce anche da una valutazione estetica: ministra è considerato meno bello di ministro; ingegnera fa davvero i brividi. Tuttavia dietro queste ritrosie, secondo la professoressa Robustelli, si celano «ragioni di tipo culturale».

A farla breve, il mondo è ancora maschio. Altro che «impuntatura tardofemminista». Boldrini invidia la Francia dove la signora presidente dell’Assemblea nazionale francese, Sandrine Mazetier, ha inflitto una multa da 1378 euro a un deputato che continuava ostinatamente a chiamarla «il presidente».

2 - DAI MONITI SUL JOBS ACT AL CONFLITTO COL PREMIER: IL PROTAGONISMO DELLA PRESIDENTE LAURA
LAURA BOLDRINI 3
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica”

Fare il presidente della Camera non è per niente facile, in Italia, perché non si capisce se si tratta ancora di una repubblica parlamentare, o se già divenuta presidenziale, o se magari nel frattempo si è insediato un caotico miscuglio di forme istituzionali, comunque aperto alle meraviglie e alle nequizie del possibile.

In quest’ultimo caso, che poi appare forse come il più plausibile, ampio spazio si conquistano le risorse spettacolari e dell’immaginario. Così se ieri il presidente del Consiglio Renzi ha detto all’ Espresso che Laura Boldrini a suo parere «è uscita dal suo perimetro di intervento istituzionale», e lei non gli ha (ancora) risposto, magari è bene sapere che dopodomani, domenica 8 marzo, festa della donna, nella sala della Regina e nel quadro dell’iniziativa «Montecitorio a porte aperte», insieme alla presidente della Camera dei deputati interverrà l’attrice Gabriella Germani, che della Boldrini è la più nota imitatrice (radiofonica, nel programma di Fiorello).

La performance ha come titolo: «Gabriella e le sue donne». Germani simulerà dinanzi al pubblico altre figure della vita pubblica italiana, Meloni, Santanché, Finocchiaro, Mussolini e così via. Rispetto al severo richiamo del premier può sembrare una questioncina di colore o d’intrattenimento.

Sennonché, come Renzi sa meglio di chiunque altro, al giorno d’oggi la conquista dell’attenzione vale quanto la sostanza politica, anzi a volte fa parte della medesima e non di rado vi si identifica secondo le logiche di una personalizzazione portata alle estreme conseguenze.

In questo senso si può aggiungere che quando l’iniziativa è stata discussa al vertice degli organi di autogoverno della Camera, il vicepresidente Simone Baldelli, di Forza Italia, che a suo tempo più e più volte, anche vestito da donna, pure in pubblico e perfino su YouTube, ha prodotto una discreta imitazione di Boldrini, ecco, si è un po’ dispiaciuto, o ingelosito, e comunque non ha escluso di farsi vedere anche lui nella Sala della Regina.
Quasi infinite sono dunque le vie del protagonismo e ben tre Boldrini, sommate all’avvertimento renziano, qualcosa senza dubbio segnalano.

Con scrupolo forse degno di migliori analisi, gli osservatori della politica si stanno ormai abituando a tenere e a vedere insieme l’alto e il basso, le questioni pesanti e le scorrerie nella leggerezza. I rilievi, per dire, sul Jobs act e l’altolà sulla decretazione d’urgenza in campo Rai e la fotografatissima partecipazione della presidente della Camera alla benedizione degli animali, fra i quali il gatto di casa, a nome Gigibillo (deciso in un referendum su Facebook).


Ora, a parte i felini domestici, è abbastanza chiaro che il governo ha fretta e gli secca parecchio che il Parlamento rivendichi il diritto di legiferare e in vari modi si metta di traverso - sia pure in modo non risolutivo come dimostrano ghigliottine, tagliole e canguri.
Ma l’impressione è che Boldrini, da qualche tempo, non solo sta cambiando suo profilo personale, per così dire. Più loquace, meno ingessata, meno spaventata.

Ma in questo processo ha capito che a lei, più che ad altri, spetta il compito di ricordare a chi di dovere che l’Italia, per ora, resta appunto una Repubblica parlamentare; e che tale forma, al di là della necessità di far presto, si rispecchia pur sempre in una quantità di corpi intermedi. I quali ritarderanno pure le grandi riformissime renziane, però, diamine, non è che sia obbligatorio abbandonarsi all’«uomo solo al comando».

Lei l’ha detto e lui, che è fumantino e non prova alcuna simpatia personale (la notte dell’ostruzionismo, mentre presiedeva, non ha esagerato in saluti) la ha inserita nella lunga lista dei personaggi di cui diffidare e in futuro da sistemare a puntino.

Cosa sia intervenuto, oltre al contesto e alle circostanze, in questo cambiamento è già più difficile da analizzare. Forse il cambio della Segreteria Generale di Montecitorio l’ha resa più sicura; forse l’elezione di Sergio Mattarella, professore di diritto parlamentare, sul Colle le consente di guardare al suo ruolo con maggiore energia e a svolgerlo secondo una logica che in senso lato non può che risultare più politica.

Forse ha capito che è arrivato il momento di essere più se stessa. Forse sente di dovere di esserlo. Forse altro. Certo i precedenti consigliano la massima prudenza. Pivetti, Violante, Casini, Bertinotti e Fini non sono un prezioso esempio, o magari sì. Fare il presidente, nel frattempo, è difficile. Ma non farlo può essere peggio.


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