La demeritocrazia che da decenni governa il destino, e il   declino, di un' Italia assai distratta ha regole di ferro. Fra  queste:  avanti i mediocri, quelli bravi si arrangeranno all'  estero; meglio  rifriggere banalità condivise, pensare  è noioso; largo ai vecchi, i  giovani possono aspettare.  Perciò leggendo il manifesto TQ "sul  patrimonio  storico-artistico della nazione italiana" (da oggi  disponibile  integralmente sul loro sito, n.d.r.) c' è di che stupirsi.   Giovani di trenta-quarant' anni che hanno scelto per parlare d'  Italia  la prospettiva della loro generazione; anzi, i «non  pochi storici  dell' arte che hanno deciso di aderire a TQ»  che convincono gli altri a  firmare un manifesto come questo;  addirittura, un testo che non  ricicla sciocchezze sui "beni  culturali" come "petrolio d' Italia", da  "sfruttare" fino ad  esaurirlo come fosse un combustibile, ma proclama  che «il  fine del nostro patrimonio non è di produrre  reddito», ma di  esercitare un' alta funzione civile, di  «rappresentare e strutturare,  non meno della lingua»,  la comunità nazionale. Si sente vibrare molta  indignazione  e non poca speranza, nelle parole dei TQ. Indignazione  (altra  singolarità) rivolta in primo luogo verso la corporazione   stessa degli storici dell' arte, corresponsabili dell'  «inesorabile  degrado del ruolo della storia dell' arte nel  discorso pubblico  italiano», di aver trasformato la loro  disciplina in «un fiorente  settore dell' industria dell'  intrattenimento» prestandosi alla  «mutazione  mediatica del dibattito culturale in marketing occulto» di   mostre ed eventi, anzi dei loro sponsor. Speranza, invece, nella   nascosta forza di una disciplina ancora capace di trovare in se  stessa  le ragioni di un forte ruolo civile, la dignità di  una disciplina  umanistica, lo status di «sapere critico,  strumento di riscatto morale,  di liberazione culturale e di  crescita umana». Quello degli storici  dell' arte,  suggerisce il "manifesto TQ", non è il silenzio degli   innocenti. Infatti essi non tacciono, anzi sono impegnati in un  vano  chiacchiericcio intorno a mostre spesso inutilio dannose, ad   attribuzioni implausibili, a "scoperte" mediatiche che rallegrano   sindaci e assessori, ma reggono lo spazio di un mattino. Stanno  alla  larga invece (con pochissime eccezioni) da temi scottanti  come il  degrado della tutela, la prevaricazione dell' effimero  (le mostre) sul  permanente (musei e monumenti), la morte  annunciata del Ministero dei  Beni culturali per mancanza di fondi  e di turn over, ma anche per l'  espediente, già troppe  volte ripetuto, di una sede vacante non di nome,  ma di fatto. Il  decalogo che conclude il "manifesto TQ" parte da  affermazioni di  principio, ma contiene anche importanti proposte. 
Sua  stella  polare è l' art. 9 della Costituzione, che congiunge la   promozione della cultura e della ricerca con la tutela del  paesaggio e  del patrimonio storico e artistico della Nazione. Ma  dobbiamo  constatare, scrive amaramente il manifesto, che oggi  «la Repubblica né  promuove né tutela».  Per invertire la rotta, occorre che gli storici  dell' arte si  impegnino a rilanciare il ruolo della disciplina nella   società. Occorre che «la funzione civile e  costituzionale del  patrimonio» diventi, come in passato,  cardine della cultura e della  vita della polis: poiché il  patrimonio italiano, «coesteso e fuso all'  ambiente»  e al paesaggio, ne costituisce la più alta cifra  simbolica,  deposito di memorie e laboratorio del futuro. Occorre  rafforzare e non  smantellare il sistema pubblico della tutela,  mantenendolo in capo allo  Stato per assicurare, secondo  Costituzione, identità di criteri in  tutto il territorio  nazionale. Occorre agire sulla scuola, «ampliando  l'  asfittico spazio concesso a quella storia dell' arte che ogni   italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se  vuole  avere coscienza intera della propria nazione», come  scrisse Roberto  Longhi. Occorre «mettere radicalmente in  discussione i corsi di Beni  Culturali», che hanno provocato  un pericoloso divorzio della storia  dell' arte da altre  discipline umanistiche. 
Occorre, i n s o m m a , p o  r r e r i m  e d i o all' «analfabetismo figurativo che ha afflitto le   generazioni precedenti e ha sempre reso cieca la classe dirigente   della Repubblica». E' importante che siano i giovani di TQ  a rimettere  con determinazione sul tavolo temi come questi. Per  chi ha orecchi da  intendere, essi dovrebbero servire da  contraltare al banale  economicismo che considera sinonimi  "valorizzazione" e "sfruttamento", e  nel patrimonio vede non una  risorsa etica e civile, ma un salvadanaio  da svuotare. Discorso  contrario non solo alla Costituzione e a una  secolare tradizione  civile e giuridica, ma anche a una concezione meno  stantia dei  meccanismi socioeconomici. Dalle elaborate misurazioni di  due  economisti americani, David Throsby e Arjo Klamer, risulta che il   patrimonio culturale ha due componenti: una è il valore  monetario, ma  assai più importante è la componente  immateriale o valoriale, per  definizione fuori mercato. Dalla  conservazione del patrimonio e dalla  sua conoscenza derivano  benefici stabili per la società nel suo  complesso, che  accrescendo la coscienza civica e il senso di coesione  dei  cittadini finiscono col tradursi anche in sviluppo economico. 
In   senso a n a l o g o h a a r g o m e n t a t o Amartya Sen,  pensando  alla sua India dove il recupero di storia e arte  è andato di pari passo  con l' eccezionale rilancio  economico. Ma queste idee di innovativi  economisti del sec. XXI  mostrano, come meglio non si potrebbe, quanto  fosse lungimirante  la nostra Costituzione del 1948: l' art. 9, infatti,  sancisce  «la primarietà del valore estetico-culturale»,  che non può  essere «subordinato ad altri valori, ivi  compresi quelli economici», e  pertanto dev' essere  «capace di influire profondamente sull' ordine   economico-sociale», come ha ripetutamente affermato la  Corte  Costituzionale. Toccherà ai trenta-quarantenni, ma  anche a quelli ancor  più giovani, mostrare che i  Costituenti avevano ragione.          - 
SALVATORE SETTIS, La Repubblica, 5 aprile 2012
 
Nessun commento:
Posta un commento