Intervenendo sulla vicenda dei finanziamenti ai partiti il presidente  della Repubblica ha ammonito che ciò che rischiamo è «la fine della  democrazia e della libertà». Ad alcuni, quella di Napolitano, sarà parsa  una forzatura retorica. Ma non lo è. Gli scricchiolii sono sempre più  numerosi, il rischio c'è. Si consideri la contestuale presenza di tre  elementi. In primo luogo, una crisi economica destinata a durare a  lungo, per anni probabilmente, con tanti giovani disoccupati e  l'impoverimento di molte famiglie. In secondo luogo, una condizione di  generale discredito dei partiti e della classe politica professionale.  Infine, l'incapacità di quella medesima classe politica di trovare  rimedi adeguati per la crisi di legittimità che l'ha investita. È la  sinergia fra questi tre fatti che può provocare conseguenze devastanti.
Sbaglia chi crede che la crisi della Lega tolga semplicemente di  mezzo uno dei principali strumenti di canalizzazione di umori  antipolitici, che quella crisi sia un colpo all'antipolitica. Semmai,  contribuisce a esasperarla. L'antipolitica è il convitato di pietra  della politica italiana, si nutre del suo discredito, ne succhia il  sangue, e può, in qualunque momento, esplodere in forme imprevedibili.  Quando i sentimenti antipolitici diventano dominanti, e certamente lo  sono oggi in Italia, aspiranti demagoghi di ogni genere si fanno avanti  per intercettarli e assicurarsi un lauto bottino. Chi pensa che alle  prossime elezioni politiche il gioco, e il pallino, resteranno  interamente nelle mani delle vecchie oligarchie forse si illude. È  possibile che la combinazione dei tre elementi suddetti (crisi  economica, discredito della politica, inadeguatezza delle risposte al  discredito) favorisca il successo di movimenti di protesta a vocazione  autoritaria, già esistenti o in via di costituzione, non importa di  quale colore politico. Con effetti di condizionamento sull'intera  politica italiana.
Soffermiamoci sulla inadeguatezza delle risposte della classe  politica al discredito. Si prenda il caso dei rimborsi pubblici ai  partiti. L'andazzo durava da anni. Quando finalmente è esplosa la  vicenda Lusi i politici hanno solo finto di scandalizzarsi. Adesso che è  scoppiato il caso della Lega sembrano decisi a muoversi. Per fare cosa?  A quanto pare, per «riformare» il sistema dei rimborsi, stabilire  controlli, regole, eccetera. Senza tener conto di due fatti che pesano  come macigni: il primo è che il finanziamento pubblico che vogliono  mantenere, sia pure riformandolo, ha un non emendabile vizio d'origine, è  figlio di un grave vulnus alle  regole democratiche. È stato messo in piedi aggirando, e annullando di  fatto, i risultati di un referendum popolare che imponeva la fine del  finanziamento pubblico (i radicali di Pannella, che lo hanno sempre  denunciato, hanno ragione). Se il sistema viene solo «riformato», il  vulnus e la connessa illegittimità restano intatti. Il secondo macigno è  dato dal fatto che, essendo i partiti giunti a questo livello di  impopolarità, è l'idea stessa di finanziamento pubblico (camuffato o  meno da rimborso) che è diventato inaccettabile per il grosso dei  cittadini-contribuenti, i quali, per giunta, sono soggetti a una  pressione fiscale altissima.
Occorrerebbe una rivoluzione, il coraggio di rinunciare ai soldi  pubblici e di puntare sui finanziamenti privati (con tutti i paletti, i  tetti, i limiti e i controlli che si vuole). Sulla base del principio:  il cittadino, se vuole, «si paga» il partito che preferisce. Sarebbe un  modo per assicurare che vivano (o si ricostituiscano) i partiti veri,  capaci di mobilitare cuori e portafogli, e che muoiano invece le  camarille oligarchiche in grado di sopravvivere solo come strutture  parastatali, grazie ai soldi pubblici. Non si può fare? Sarebbe una cosa  troppo «americana»? E allora tenetevi tutto il pacchetto: i soldi  pubblici assieme al disgusto dell'opinione pubblica.
Oppure prendiamo il caso delle riforme istituzionali su cui si è  realizzato un accordo di massima fra Pdl, Pd e Udc. Luciano Violante,  autore di quella bozza, non me ne voglia se dico che quello schema mi  sembra, anche al di là delle sue personali intenzioni, un «Manuale di  autodifesa per oligarchie partitiche in pericolo». Un manuale, aggiungo,  che non può dare ciò che promette. È surreale, nelle attuali  condizioni, puntare su una legge elettorale i cui scopi sono quelli di  assicurare (come nella legge che si vuole sostituire) il controllo di  pochi dirigenti sulle candidature e di ritornare all'epoca in cui i  governi si facevano e si disfacevano in Parlamento, senza riguardo per  la governabilità. In Italia, dal 1948 al 1992, in 44 anni, si  succedettero 45 governi. Non c'è più nessun Muro di Berlino in grado di  tenere in piedi un sistema politico così inefficiente.
Se non fosse perché troppo preoccupati della propria  sopravvivenza politica a breve termine, i politici italiani  comprenderebbero che la sola strada rimasta per rimettere in sicurezza  la democrazia consiste in un vero ampliamento dei poteri del governo  (Cancellierato) o in un ampliamento dei poteri unito alla elezione  diretta (Presidenzialismo). E in una legge elettorale coerente con lo  scopo. Per iniettare più capacità decisionale nella democrazia e dare  alle cariche di governo quel prestigio e quella forza perduti dai  partiti e che questi ultimi potrebbero recuperare solo dopo anni di buon  lavoro.
Le democrazie muoiono di solito per eccesso di frammentazione,  instabilità, incapacità decisionale, e per il discredito che, in certe  fasi, colpisce i loro partiti. Oggi i partiti italiani vengono percepiti  da tanti come un problema anziché una soluzione (ciò spiega la  popolarità di Monti). Ai loro dirigenti converrebbe uscire dall'angolo  mediante qualche risposta adeguata. Altrimenti, la democrazia potrebbe  in breve tempo vacillare sotto l'urto di ondate di protesta sempre più  impetuose e pericolose.
fonte: Corriere della Sera, Panebianco, 10 aprile 2012
 
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