venerdì 20 aprile 2012

L'antipolitica

Intervenendo sulla vicenda dei finanziamenti ai partiti il presidente della Repubblica ha ammonito che ciò che rischiamo è «la fine della democrazia e della libertà». Ad alcuni, quella di Napolitano, sarà parsa una forzatura retorica. Ma non lo è. Gli scricchiolii sono sempre più numerosi, il rischio c'è. Si consideri la contestuale presenza di tre elementi. In primo luogo, una crisi economica destinata a durare a lungo, per anni probabilmente, con tanti giovani disoccupati e l'impoverimento di molte famiglie. In secondo luogo, una condizione di generale discredito dei partiti e della classe politica professionale. Infine, l'incapacità di quella medesima classe politica di trovare rimedi adeguati per la crisi di legittimità che l'ha investita. È la sinergia fra questi tre fatti che può provocare conseguenze devastanti.
Sbaglia chi crede che la crisi della Lega tolga semplicemente di mezzo uno dei principali strumenti di canalizzazione di umori antipolitici, che quella crisi sia un colpo all'antipolitica. Semmai, contribuisce a esasperarla. L'antipolitica è il convitato di pietra della politica italiana, si nutre del suo discredito, ne succhia il sangue, e può, in qualunque momento, esplodere in forme imprevedibili. Quando i sentimenti antipolitici diventano dominanti, e certamente lo sono oggi in Italia, aspiranti demagoghi di ogni genere si fanno avanti per intercettarli e assicurarsi un lauto bottino. Chi pensa che alle prossime elezioni politiche il gioco, e il pallino, resteranno interamente nelle mani delle vecchie oligarchie forse si illude. È possibile che la combinazione dei tre elementi suddetti (crisi economica, discredito della politica, inadeguatezza delle risposte al discredito) favorisca il successo di movimenti di protesta a vocazione autoritaria, già esistenti o in via di costituzione, non importa di quale colore politico. Con effetti di condizionamento sull'intera politica italiana.
Soffermiamoci sulla inadeguatezza delle risposte della classe politica al discredito. Si prenda il caso dei rimborsi pubblici ai partiti. L'andazzo durava da anni. Quando finalmente è esplosa la vicenda Lusi i politici hanno solo finto di scandalizzarsi. Adesso che è scoppiato il caso della Lega sembrano decisi a muoversi. Per fare cosa? A quanto pare, per «riformare» il sistema dei rimborsi, stabilire controlli, regole, eccetera. Senza tener conto di due fatti che pesano come macigni: il primo è che il finanziamento pubblico che vogliono mantenere, sia pure riformandolo, ha un non emendabile vizio d'origine, è figlio di un grave vulnus alle regole democratiche. È stato messo in piedi aggirando, e annullando di fatto, i risultati di un referendum popolare che imponeva la fine del finanziamento pubblico (i radicali di Pannella, che lo hanno sempre denunciato, hanno ragione). Se il sistema viene solo «riformato», il vulnus e la connessa illegittimità restano intatti. Il secondo macigno è dato dal fatto che, essendo i partiti giunti a questo livello di impopolarità, è l'idea stessa di finanziamento pubblico (camuffato o meno da rimborso) che è diventato inaccettabile per il grosso dei cittadini-contribuenti, i quali, per giunta, sono soggetti a una pressione fiscale altissima.
Occorrerebbe una rivoluzione, il coraggio di rinunciare ai soldi pubblici e di puntare sui finanziamenti privati (con tutti i paletti, i tetti, i limiti e i controlli che si vuole). Sulla base del principio: il cittadino, se vuole, «si paga» il partito che preferisce. Sarebbe un modo per assicurare che vivano (o si ricostituiscano) i partiti veri, capaci di mobilitare cuori e portafogli, e che muoiano invece le camarille oligarchiche in grado di sopravvivere solo come strutture parastatali, grazie ai soldi pubblici. Non si può fare? Sarebbe una cosa troppo «americana»? E allora tenetevi tutto il pacchetto: i soldi pubblici assieme al disgusto dell'opinione pubblica.
Oppure prendiamo il caso delle riforme istituzionali su cui si è realizzato un accordo di massima fra Pdl, Pd e Udc. Luciano Violante, autore di quella bozza, non me ne voglia se dico che quello schema mi sembra, anche al di là delle sue personali intenzioni, un «Manuale di autodifesa per oligarchie partitiche in pericolo». Un manuale, aggiungo, che non può dare ciò che promette. È surreale, nelle attuali condizioni, puntare su una legge elettorale i cui scopi sono quelli di assicurare (come nella legge che si vuole sostituire) il controllo di pochi dirigenti sulle candidature e di ritornare all'epoca in cui i governi si facevano e si disfacevano in Parlamento, senza riguardo per la governabilità. In Italia, dal 1948 al 1992, in 44 anni, si succedettero 45 governi. Non c'è più nessun Muro di Berlino in grado di tenere in piedi un sistema politico così inefficiente.
Se non fosse perché troppo preoccupati della propria sopravvivenza politica a breve termine, i politici italiani comprenderebbero che la sola strada rimasta per rimettere in sicurezza la democrazia consiste in un vero ampliamento dei poteri del governo (Cancellierato) o in un ampliamento dei poteri unito alla elezione diretta (Presidenzialismo). E in una legge elettorale coerente con lo scopo. Per iniettare più capacità decisionale nella democrazia e dare alle cariche di governo quel prestigio e quella forza perduti dai partiti e che questi ultimi potrebbero recuperare solo dopo anni di buon lavoro.
Le democrazie muoiono di solito per eccesso di frammentazione, instabilità, incapacità decisionale, e per il discredito che, in certe fasi, colpisce i loro partiti. Oggi i partiti italiani vengono percepiti da tanti come un problema anziché una soluzione (ciò spiega la popolarità di Monti). Ai loro dirigenti converrebbe uscire dall'angolo mediante qualche risposta adeguata. Altrimenti, la democrazia potrebbe in breve tempo vacillare sotto l'urto di ondate di protesta sempre più impetuose e pericolose.


fonte: Corriere della Sera, Panebianco, 10 aprile 2012

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